domenica 8 aprile 2007

10.3 Direzioni di ricerca

Elenco qui alcune ulteriori direzioni su cui lavorare. L'elenco ha puro carattere esemplificativo e non vuol essere vincolante. Ciascuna può scegliere di approfondire un tema di propria scelta, purché l'approccio sia critico e non meramente compilativo.
L'elenco è suddiviso in base alle competenze, ma anche questa indicazione non è vincolante.
-Per chi conosce il sanscrito:
1. confrontare la definizione di parlante esperto (āpta) del Nyāya con quella che si trova nel commento di Gauḍapāda alle SK. Il commento è stato tradotto da Corrado Pensa nel suo volumetto "Samkhyakarika di Isvarakrsna" (1a della bibliografia), ma bisognerebbe consultare il sanscrito per vedere cosa se ne può trarre circa la (sfuggente) teoria sāṅkhya della Parola come strumento conoscitivo.
-Per chi conosce l'inglese e/o il sanscrito:
2. analizzare la nozione di Parola indipendente dal suo autore (śāstra) nel Vedānta di Śaṅkara e Rāmānuja. Un punto di partenza potrebbe essere costituito dall'articolo di Sharma (n. 15 della bibliografia). Questo è stimolante, ma non sono certa di Sharma come autore esperto e affidabile. Varrebbe perciò la pena di verificare il suo ragionamento sulle fonti sanscrite (che indica, ma non cita) e di filosofi indiani contemporanei (in inglese, che cita).
-Per chi vuole lavorare sull'India, ma mediante l'italiano:
3. Controllare nella splendida traduzione di Raniero Gnoli di due capolavori dello Scivaismo monista kashmiro, il Tantrāloka (trad. it in Adelphi con il titolo "Luce delle Sacre Scritture", ristampato come "Luce dei Tantra") e il Tantrasāra (tr. it in BUR) di Abhinavagupta, il ruolo della parola come strumento conoscitivo. Si vedano in particolare i capitoli XXXV e XXXVII e l'indice dei nomi nel Tantrāloka (anche sotto "prasiddhi"). Sarebbe interessante notare quali elementi derivino dal Nyāya, quali dalla Mīmāṃsā e quali siano originali.
-Senza limiti di competenze:
4. Come potrebbe rispondere un esponente della scuola epistemologica buddhista all'argomento mīmāṃsaka sul fatto che non è possibile che il Buddha sia un parlante esperto e affidabile, dato che non può esserci in lui desiderio di comunicare? (Si pensi al problema della compassione e del suo accrescersi, alla semantica di "desiderio" come l'abbiamo osservata in varie scuole, al tema mīmāṃsaka dell'impossibilità di ciò che esce dalla norma).
5. È ipotizzabile un'applicazione pratica, magari politica, delle tesi qui esposte? Che portato avrebbero in ambiti quali il dialogo fra religioni e culture diverse e fra scienza e fede? E in ambito giuridico? (Si pensi al problema dell'attendibilità del teste, delle fonti del diritto, del rapporto fra Costituzione e leggi ordinarie, alle teocrazie...).
-Per chi volesse cimentarsi con temi di filosofia occidentale, alcuni suggerimenti sono elencati nel cap. 9 "applicazioni occidentali" (Hume e la Parola come strumento conoscitivo; la filosofia moderna in Occidente e il suo complesso rapporto con Dio come garanzia dell'autonomia del sapere...). Inoltre,
6. Dai testi di Bochenski (si vedano sopra i nn. 23, 24, 25 della bibliografia, io ho tratto la distinzione fra autorità epistemica e deontica. È riuscito il suo tentativo di mostrare una logica dell'autorità a prescindere dalle differenze fra India ed Europa? O il caso indiano ha delle specificità irriducibili? Se sì, quali?

10.2 Bibliografia ragionata

Fornisco qui alcuni titoli orientativi. Nessuno è un testo obbligatorio, ma potrebbe esservi utile nella seconda parte del corso, quando dovrete partecipare in modo più attivo (con una tesina e/o un intervento in classe per esporla).
Assieme ai titoli, potete leggere i miei commenti personali in merito.

Sulla Parola come strumento conoscitivo nel Sāṅkhya:
1) Shujun Motegi, Śabda in the Yuktidīpikā, in Word and Meaning in Indian Philosophy, ed. by Masaaki Hattori, "Acta Asiatica" 90 (2006), pp. 39-54 (disponibile nella biblioteca del dipartimento studi orientali, edificio della facoltà di lettere, I piano, città universitaria).
L'articolo è in due parti, la prima dedicata all'aspetto fonico del linguaggio, la seconda alla Parola come strumento conoscitivo, che Motegi chiama comunque "language".
1a) Īśvarakṛṣṇa, Sāṁkhyakārikā con il commento di Gauḍapāda, traduzione di Corrado Pensa, 1978, ristampato da Asram Vidya, Roma 1994 (disponibile all'IsIAO, alla biblioteca Alessandrina, alla Nazionale e alla biblioteca del dipartimento di filosofia).

Sull'apologia della Parola Vedica nel Nyāya (non ostante il titolo):
2) George Chemparathy, L'autorité du Veda selon les Nyāya-Vaiśeṣikas, Louvain-la-Neuve (potete chiedermi le fotocopie).
Vi si segue l'evoluzione del concetto di parlante esperto dal NS in poi, attraverso lo stadio del parlante esperto come ṛṣi e infine come Dio. Il testo contiene anche interessanti notazioni sull'attitudine del Nyāya rispetto a quello della Mīmāṃsā nei confronti del Veda.

Sui criteri per definire l'autorità del Buddha nella scuola epistemologica buddhista:
3) Eli Franco, Dharmakīrti on Compassion and Rebirth, Wien (biblioteca del dipartimento di studi orientali): Introduzione e I capitolo (pp.1-43).
4) R. Jackson, «Journal of Indian Philosophy» 1988 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
5) Shoryo Katsura [Hrsg.], Dharmakirti’s thought and its impact on Indian and Tibetan philosophy. Proceedings of the third International Dharmakirti Conference, Hiroshima, November 4 - 6, 1997, Verl. d. Österr. Akad. d. Wiss., Wien 1999.
Verl. d. Österr. Akad. d. Wiss.: i capitoli sulla Pramāṇasiddhi (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
6) David Seyfort Ruegg, «Wiener Zeitschrift der Kunde Südasiens» 38, 1994 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, periodico n. 196).
7)David Seyfort Ruegg, «Bulletin of the School of Oriental and African Studies» 57.2 1994 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, periodico n. 40).
8) Ernst Steinkellner, The spiritual place of Buddhism in the Buddhist epistemological School, 1982 (potete chiedermi le fotocopie)
9) Tom Tillemans, Persons of Authority, Stuttgart 1993 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, collocazione TIB C 326).
10) Tom Tillemans, Scripture, Logic, Language (biblioteca del dipartimento di studi orientali, collocazione TIB C 462).
11) VAN BIJLERT V.A. EPISTEMOLOGY AND SPIRITUAL AUTHORITY WSTB 20 WIEN 1989
11a) Paul. J. Griffiths, Paul J., “Omniscience in the Mahāyānasūtrālaṅkāra and its commentaries”, Indo-Iranian Journal 33, 1990: 85-120.
(Sulla riduzione della Parola come strumento conoscitivo all'inferenza nella scuola epistemologica buddhista si veda 14).
Circa l'interpretazione dell'autorità del Buddha e del suo ruolo, si oppongono Franco (3 e un articolo in 5) e Steinkellner (8 e un articolo in 5). Il primo sostiene che la scuola epistemologica buddhista giunga a dimostrare che il Buddha è un parlante affidabile tramite inferenze logiche. Steinkellner, invece, sostiene che l'autorità del Buddha sia giustificabile con inferenze, ma non dimostrabile. L'attitudine epistemica in gioco, sarebbe quindi quella del credere e non del comprendere.
David Seyfort Ruegg (6 e 7) è un esperto di Buddhismo di altissimo valore, in grado di muoversi fra cultura indiana, tibetana e cinese. I suoi testi possono essere difficili perché molto dotti (abbondano le citazioni in sanscrito, ma corredate di traduzione), ma sono molto documentati e sempre affidabili. Se qualcuno volesse occuparsene, lo inviterei a non soffermarsi sulle prove (precisi e quasi pedanti), bensì sul fine dell'argomentazione. In particolare, il testo 7 è più complesso ed esamina l'epiteto del Buddha come "strumento conoscitivo" all'inizio dell'opera di Dignāga alla luce di altri epiteti del Buddha. Il testo 6, in francese, è più accessibile e compara, senza trarne le conclusioni (che forse però potremmo trarre noi), gli attributi con cui è definita l'autorevolezza del Buddha, a quelli che definiscono i ṛṣi e i parlanti esperti in generale nella tradizione "induista".
Tom Tillemans (9 e 10) è soprattutto un tibetologo e si occupa dei temi in questione esaminando i commenti a Dignāga e Dharmakīrti.
Quello di Roger Jackson (4) mi pare un articolo di grande interesse concettuale, anche se probabilmente meno fondato rispetto a Ruegg. A me interessa particolarmente il tema del rapporto fra fede e razionalità nel Buddhismo che vi viene affrontato.
Dell'articolo di Griffiths (11a) ho parlato nel capitolo 7.4.
Noterete in generale che la bibliografia sull'autorità nel Buddhismo, paradossalmente, è molto più nutrita. Come mai?

Sulla filosofia indiana all'interno del dibattito filosofico "occidentale":
12) John Taber, A Hindu Critique of Buddhist Epistemology, RoutledgeCurzon, New York 2005: Introduzione, in particolare pp.38-43.
Il testo di Taber (12) parla di un problema parzialmente diverso dal nostro, ossia della percezione sensibile, ma Taber è uno dei pochi filosofi occidentali a occuparsi filosoficamente del pensiero indiano e in questo senso il suo volume va senz'altro preso in considerazione, anche se per criticarlo.

Sulla Parola come strumento conoscitivo in Nyāya e Vaiśeṣika:
13) Arthur Berriedale Keith, Indian Logic and Atomism. An exposition of the Nyāya and Vaiśeṣika system, Oxford University Press, Oxford 1919, ristampato da Munshiram Maoharlal, New Delhi 1977 (Si trova a 0,77 centesimi su Abebooks), in particolare pp. 165-173.
14) John Taber, Is Verbal Testimony a Form of Inference?, in "Studies in Humanities and Social Sciences", vol. iii.2, 1996, pp. 19-31 (potete chiedermi le fotocopie).
Quello (13) di Keith è un testo vecchissimo, ma che ha fatto storia. Inoltre, poiché della Parola come strumento conoscitivo si è cominciato a parlare in Occidente solo da pochi anni, resta un punto di riferimento non ancora sostituito per Nyāya e Vaiśeṣika, soprattutto per i tanti riferimenti a opere e autori indiani da cui è possibile partire per ricerche ulteriori.
Il testo di Taber è, come spesso i suoi, un eccellente esempio di competenza in filosofia indiana e occidentale. In questo caso si occupa della spinosa questione di come formulare l'inferenza a cui scuola epistemologica buddhista e Vaiśeṣika vogliono ridurre la Parola come strumento conoscitivo e delle repliche da parte di Mīmāṃsā e Nyāya.

Sulla Parola come strumento conoscitivo nel Vedānta:
15) Arvind Sharma, Śaṅkara's attitude to Scriptural Autority as revealed by his gloss on Brahmasūtra 1.1.3, «Journal of Indian Philosophy» 10 (1982), pp. 179-186 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
Il Brahmasūtra è il testo radice del Vedānta. In particolare, il terzo aforisma può essere inteso come "[il brahman (l'Assoluto)] è la causa dei Testi Sacri" o "i Testi Sacri sono la fonte [per conoscere il brahman". Il punto è quindi centrale e il tema dell'articolo interessantissimo. L'articolo ha il vantaggio e svantaggio insieme di presentare il punto di vista degli attuali esponenti del Vedānta in India. Ciò mostra la vitalità della tradizione filosofica vedāntin nell'India contemporanea, ma non è detto sia un procedimento accettabile per interpretare i testi di Śaṅkara e degli altri esponenti del Vedānta del ix-xi secolo. Per un mio giudizio, rimando alle "Direzioni di ricerca".

Sul problema dell'onniscienza:
16) Roy W. Perrett, Omniscience in Indian Philosophy of Religion, in Id. (ed.) Indian Philosophy of Religion, Kluwer, Dordrecht 1989, pp. 125-142 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).

Di e su Thomas Reid:
17) Ricerca sulla Mente Umana e altri scritti, a cura di Antonio Santucci, Utet, Torino 1975 (biblioteca nazionale, biblioteca alessandrina)
18) Thomas Reid's Inquiry and essays, edited by Keith Lehrer and Ronald E. Beanblossom, introduction by Ronald E. Beanblossom, The Bobbs-Merril company, Indianapolis, 1976 (biblioteca di filosofia, Villa Mirafiori, Sapienza)
19) Thomas Reid, An inquiry into the human mind, edited with an introduction by Timothy Duggan, The University of Chicago Press, Chicago and London 1970 (biblioteca di filosofia)
20) Thomas Reid, An inquiry into the human mind on the principles of common sense, a critical edition edited by Derek R. Brookes, Edinburgh University Press, Edinburgh 1997 (biblioteca nazionale)
Si veda anche, infra, il testo 26.
Il testo 20 è l'unica edizione critica ed è anche quello su cui ho lavorato io stessa.

Sull'approccio occidentale alla Parola come strumento epistemico:
21) Bimal Krishna Matilal e Arindam Chakrabarti (eds.), Knowin from words, Kluwer, Dordrecht 1994.
22) Arindam Chakrabarti, Rationality in Indian Philosophy, in Eliot Deutsch and Ron Bontekoe (ed.), A companion to world philosophies, Paperback, Malden, Mass. 1997 (biblioteca nazionale).
23) Joseph M. Bochenski, Was ist Autorität?. Einführung in die Logik der Autorität, Herder, Freiburg 1974.
24) Joseph M. Bochenski, The logic of religion, New York University Press, New York 1965 (biblioteca casanatense, biblioteca di filosofia di Villa Mirafiori). Trad. it. La logica della religione, Ubaldini, Roma 1967 (biblioteca nazionale, biblioteca di filosofia di Villa Mirafiori).
25) Joseph M. Bochenski, Autorität, Freiheit, Glaube: sozialphilosophische Studien, Philosophia, München-Wien 1988.
26) C.A.J. Coady, Testimony. A philosophical Study, Clarendon, Oxford 1992.
Il testo 21 è ricco di spunti e interessantissimo. Non si occupa dei Testi Sacri e confina la propria attenzione sul piano dell'esperienza ordinaria e del linguaggio descrittivo (biblioteca del dipartimento di filosofia, Villa Mirafiori). I curatori sono esperti di filosofia analitica, ma anche di filosofia indiana e hanno perciò potuto proporre stimoli provenienti da questa agli autori invitati a contribuire. Questi afferiscono per lo più alla filosofia analitica e fra i saggi è presente anche un articolo di Michael Dummett (cfr capitolo 9.2) su testimonianza e memoria.
Il testo 22 è quello da cui ho tratto l'idea di giustapporre Dummett e Gadamer. A. Chakrabarti è un filosofo indiano che ha studiato a Oxford e ha perciò un taglio interessante e stimolante.
Il testo 23 è una pietra miliare per gli studi su questo argomento. Bochenski si è occupato di ripensare con gli strumenti della logica formale (e in linguaggio assolutamente accessibile) la filosofia classica e quella indiana, la filosofia della religione, il principio di autorità etc. Proprio per il suo assoluto valore ho aggiunto alcuni titoli interessanti su questo tema. In altri testi, più generali (tipo "Avvio al pensiero filosofico", "La Logica formale", "Dai Presocratici a Leibniz", "A history of formal logic"), molti dei quali tradotti in italiano, potrete trovare spunti interessanti.
Coady (26), di cui è presente un saggio anche in 21, è fra i pionieri dell'indagine sulla testimonianza. Il suo testo è interessante perché mostra un panorama completo dell'approccio occidentale, soffermandosi sugli aspetti giuridici oltre che su quelli filosofici. Dedica un capitolo a Thomas Reid.

Di e su Hans-Georg Gadamer:
27) Verità e Metodo, trad. it. con testo a fronte a cura di Gianni Vattimo, Bompiani, Milano 2000.
Si veda anche l'eccellente introduzione di Vattimo, specie nei capitoli dedicati alla storia e al linguaggio. Per quanto riguarda il testo di Gadamer, questo si articola in tre parti. La prima discute dell'esperienza artistica, la seconda amplia il discorso all'ermeneutica e alla storia, la terza lo fonda sulla linguisticità. Ai nostri fini sono particolarmente rilevanti la terza parte, dedicata al linguaggio, e –all'interno della seconda parte– i capitoli II.1 (dedicato ai pregiudizi, al concetto di autorità e di tradizione, alla storia come principio ermeneutico e non come storicismo) e II.2.c (dedicato all'ermeneutica applicata al diritto).

10.1 abbreviazioni

MS Mīmāṃsāsūtra, il testo radice della Mīmāṃsā
NS Nyāyasūtra, il testo radice del Nyāya
SK Sāṅkhyakārikā, il testo radice del Sāṅkhyā
VS Vaiśeṣikasūtra, il testo radice del Vaiśeṣika
YD Yuktidīpikā, il commento principale alle SK

9.4 La tradizione in Hans-Georg Gadamer

Con Hans-Georg Gadamer (1900-2002) ci spostiamo nella galassia dei termini legati in Occidente a quella che in India si chiama "Parola" (come strumento epistemico). Gadamer non parla infatti di testimonianza, ma offre pagine illuminanti sulla tradizione. Al contrario del moto illuminista di uscita dal pregiudizio, della tradizione vista come retaggio ingombrante di cui disfarsi, Gadamer sostiene che siamo sempre necessariamente immersi in una tradizione, che non è possibile uscirne (anche l'esigenza di disfarsi di ogni pregiudizio è un pregiudizio, così come si può parlare di una tradizione riguardo il disprezzo per il passato e l'amore per il nuovo). La tradizione rappresenta perciò per l'uomo un confine e una possibilità entro cui attuarsi. Il rapporto con la tradizione si configura per Gadamer come un rapporto dialettico, di familiarità ed estraneità allo stesso tempo. Gadamer sembra considerare l'antichità classica come un momento in cui l'uomo era invece completamente immerso nella tradizione in cui viveva, senza avvertire alcuna distanza da questa. L'inizio dell'età moderna ha invece segnato un momento di rottura, una presa di coscienza della propria tradizione come propria, ma allo stesso tempo come altra da sé. Infine, la tradizione è disponibile per l'uomo solo attraverso il linguaggio. L'esperienza dell'incontro con l'altro è cioè sempre e necessariamente un'esperienza linguistica. Anzi, non solo l'incontro esiste solo come incontro linguistico, ma anche il soggetto che incontra e l'oggetto incontrato non esistono al di fuori del linguaggio che li esprime. Il mondo che conosciamo è già un mondo organizzato linguisticamente, né potrebbe essere altrimenti. Tale linguisticità del mondo non è un sovrapporsi del pensiero a un mondo oggettivo che sarebbe diverso, come sostengono i buddhisti. Al contrario, il punto è che non esiste un darsi delle cose al di fuori del linguaggio nel senso che non è pensabile un'esperienza degli oggetti prima del linguaggio (si noti che per Gadamer la genesi storica del linguaggio fra, poniamo, gli australopitechi, è a tal fine irrilevante).
Per tornare al lessico e ai temi di questo corso, la tradizione si configura come un caso di Parola indipendente dal suo autore. Essa è infatti linguistica, nel senso che abbiamo visto, è fuori della disponibilità di un singolo autore ed è in grado di fornire conoscenza. Certo, non si tratterà della conoscenza cui ambiscono le discipline scientifiche occidentali, ma uno degli scopi di Gadamer è proprio mostrare la limitatezza della concezione scientifica della verità. Di verità si può al contrario parlare, secondo Gadamer, in riferimento all'arte, alla storia e agli ambiti generalmente considerati non scientifici. Anche sotto questo punto di vista, notiamo una interessante convergenza con l'idea indiana di una "conoscenza vera" che coinvolge anche l'ambito valoriale o deontico. In particolare, la posizione di Gadamer si colloca in una direzione che in India abbiamo visto incarnarsi nella Mīmāṃsā. Anche per questa, la presenza indiscutibile dell'autorità (vedica) e il linguaggio sono due realtà strettamente legate e imprescindibili per l'essere umano.
Veniamo ora però ad alcune importanti differenze. Alcuni interpreti di Gadamer si sono chiesti se il doppio rapporto di familiarità ed estraneità con la tradizione sia il risultato di un dato momento storico o piuttosto la condizione esistenziale in cui l'uomo è sempre immerso nel suo rapporto di interprete di qualcosa. Questa questione è particolarmente rilevante per questo corso. Infatti, non ostante la condivisione del ruolo costitutivo del linguaggio a prescindere dai parlanti e la centralità dell'ermeneutica nel rapporto con i testi, Gadamer e la Mīmāṃsā sembrerebbero almeno altrettanto lontani per quanto riguarda l'assenza di senso storico in questa, che di conseguenza non si pone rispetto al testo che interpreta (in primo luogo il Veda) come fosse un altro lontano nel tempo, da cui lasciarsi interpellare. Non ostante, come già ci è capitato di accennare (per esempio nel cap. 9.3) la Mīmāṃsā accetti la possibilità che quella che ci pare conoscenza venga poi falsificata, questo non equivale a dire che il farsi della comprensione abbia una dimensione storica. La conoscenza è da un punto di vista mīmāṃsaka, sempre sincronicamente compiuta, nel senso che al momento x il nostro patrimonio di consocenze sarà composto da w, y, z,... e al momento x+1 sapremo che w, y sono conoscenze valide, mentre z è falsa. Ma in tale processo il tempo e la storia non giocano alcun ruolo. Se, come Gadamer sembra ritenere, il processo che ha portato all'allontanamento dalla propria tradizione fosse un evento della storia occidentale (e non una condizione costitutiva dell'esperienza umana), si potrebbe immaginare che un tale evento non si sia realizzato in India. Apparentemente, infatti, la Mīmāṃsā non guarda al Veda come a qualcosa di distante nel tempo.
Il paragone con Gadamer ci porta così a due punti decisivi dell'interpretazione dell'India, ossia il suo rapporto con la storia e il suo rapporto con il Veda. Lo storico indiano Sudipt Kaviraj ha osservato che non è vero che in India manchi il senso del passato. Quello che manca è il senso del passato come storia, mentre è ben presente un passato come tradizione. Questo mi pare implicare che in India (o almeno nell'India precoloniale di cui ci occupiamo) non è mai avvenuto un distacco dal passato, il quale ha continuato a vivere come tradizione all'interno della cultura indiana. Spostandoci sul Veda, si potrebbe ripetere che questo, al contrario delle epiche greche o latine, ha sempre continuato a far parte del vissuto indiano. Quest'ultima affermazione è però almeno opinabile. Non tutto quel che è nel Veda è infatti portato avanti nel così detto Induismo, così come è ovvio il contrario, per esempio la presenza di divinità non vediche come Kṛṣṇa nell'India classica e contemporanea. Il celebre indologo francese Louis Renou ha parlato perciò del Veda come di un idolo davanti a cui tutti si tolgono il cappello, ma senza più comprenderne il significato e senza degnarlo di altra considerazione dopo tale frettoloso saluto. Personalmente, non sono d'accordo con tale interpretazione. Concentrandoci sulla Mīmāṃsā, notiamo perciò come il Veda sia presente e centrale, eppure in un modo che forse è diversissimo dallo spirito delle raccolte di inni (le così dette Saṃhitā vediche). Il Veda è presente per la Mīmāṃsā e –direi– per tutta la tradizione indiana, in quanto viene utilizzato nel rituale. Tale utilizzo rituale fa sì che da una parte il Veda venga sentito come un patrimonio di prescrizioni da interpretare secondo regole oggettive, che non lasciano spazio all'ermeneutica in quanto fondersi di oggetto e soggetto. D'altra parte, esso è componente vitale dell'esperienza culturale dei mīmāṃsaka invece di essere relegato al di fuori di questa, in un metaforico "museo" (per tornare alla terminologia di Gadamer). Concludendo, potremmo suggerire che in India la tradizione, anche quella vedica, sia sempre rimasta parte integrante della cultura. Se invece, seguendo alcuni interpreti di Gadamer, volessimo presupporre che un distacco sia sempre già presente, e che l'appartenenza irriflessa a una tradizione sia solo un'astrazione, ci troveremmo a concludere che in seguito a tale distacco il rapporto con il Veda non ha assunto l'aspetto autoconsapevole dell'ermeneutica (in cui si è consci di sé e dell'altro, ma anche dell'assenza di un confine stabile fra sé e altro), bensì quello oggettivante che in Occidente è stato proprio del pensiero scientifico. I mīmāṃsaka sono cioè convinti che le regole da loro esposte esauriscano il problema di interpretare il Veda (come se, appunto, l'interpretazione non fosse un processo che coinvolge attivamente il soggetto interpretante e che quindi non può concludersi). Anzi, l'opzione mīmāṃsaka in favore dell'ortoprassi invece dell'ortodossia, induce a pensare a un approccio al Veda non scientifico (ossia che mira a trarne conoscenza), bensì tecnico (ossia mirante a uno scopo pratico).
Ma se è vero che alla Mīmāṃsā manca (per via di una tradizione ancora vivente o per via di una tradizione di cui ci si è appropriati come fosse uno strumento) l'idea di un passato come storia, com'è possibile allora spiegare le notevoli somiglianze con Gadamer, per cui la storia sembrerebbe essere centrale? In Gadamer la storia è centrale come dimensione umana di rapporto sempre in divenire con l'altro costituito dalla tradizione, non come storicismo. Questo, inteso come la ricostruzione oggettiva del passato è anzi considerato un'illusoria concessione al metodo scientifico. In tal senso, il rapporto con il passato è un rapporto che coinvolge il soggetto nella sua totalità ed è perciò considerato dall'unico punto di vista possibile, quello del soggetto (e, quindi, dell'oggi). Similmente, il linguaggio è in divenire ma la sua evoluzione non potrebbe essere osservata dall'esterno (come da chi cercasse, con un'altra illusoria concessione al metodo scientifico, l'origine del linguaggio fra gli australopitechi). Il linguaggio è invece dato, così come la storicità dell'esperienza umana. L'approccio, anche alla storia, è in altre parole quello dettato dalla matrice fenomenologica di aderenza al dato che Gadamer eredita dal suo maestro, Martin Heidegger.

9.3 Tornando alla filosofia indiana: perché non verificare il teste preliminarmente?

Il confronto con Reid e Dummett, fautori di una posizione simile a quella del Nyāya, nel senso di individuare la Parola come strumento conoscitivo autonomo e identificarla con la testimonianza, ha mostrato alcune convergenze, ma anche significative difformità. Innanzi tutto, la Parola non ha un ambito di applicazione distinto. Questo si lega alla tendenza occidentale a non inserire etica etc. nell'ambito della conoscenza propriamente detta, ma è anche in linea con la posizione naiyāyika nel senso che nell'esperienza ordinaria ci capita di conoscere per bocca di qualcun altro cose di qualunque ambito e conoscenze concernenti dati di fatto e valori sono poste in continuum nel NS. Non ostante Reid e Dummett parlino di testimonianza, però, al contrario del Nyāya non si concentrano sul problema dell'attendibilità del teste. Danno per scontato che la testimonianza sia valida, considerando i casi contrari come eccezioni. Questa posizione sembra essere più in linea con l'esigenza di riconoscere autonomia alla Parola come strumento conoscitivo (inserire l'attendibilità del teste fra le precondizioni per ottenere conoscenza tramite testimonianza rischia di somigliare molto alla posizione di chi vuole far dipendere interamente la Parola come strumento conoscitivo da un'inferenza che abbia fra i propri requisiti l'affidabilità del parlante). Perché dunque il Nyāya non la adotta? Ovviamente, posso solo tentare una spiegazione, ossia la necessità per il Nyāya di non smentire il proprio assunto secondo cui la conoscenza non è di per sé valida, ma deriva la propria validità (come pure la propria invalidità) da qualità avventizie. Come, in questo caso, l'affidabilità del parlante. Sostiene al contrario la validità intrinseca della conoscenza la Mīmāṃsā, che può perciò rinunciare alle qualità di un autore affidabile per il Veda e considerare valido ogni caso di Parola come strumento conoscitivo anche nell'esperienza ordinaria, salvo poi ritirare il consenso nel caso di una successiva falsificazione.

9.2 La testimonianza in Michael Dummett

Dedicherò solo poche parole all'inquadramento dell'autore che sto per trattare. Infatti, obiettivo del tentativo di dialogo fra culture filosofiche che sto portando avanti in questa occasione è quello di ricercare se sia possibile un dialogo non ostante le incolmabili distanze di contesto storico. Parlerò quindi un poco della collocazione filosofica di Michael Dummett solo per quanto possa essere rilevante al tema di cui ci occupiamo. La filosofia così detta analitica, che si sviluppa in Inghilterra e negli Stati Uniti a partire dall'opera di Ludwig Wittgenstein, si concentra su un rifiuto della tradizione filosofica europea, sentita come inessenziale, verbosa, indimostrabile. Le si preferisce l'utilizzo della scienza come saldo ancoraggio al reale. Allo stesso tempo, però, i filosofi analitici si identificano innanzi tutto per la loro analisi ravvicinata del linguaggio. Questo viene infatti considerato come l'elemento più reale cui possano attingere i filosofi, più ancora del mondo dei referenti esterni, sempre dubitabile e sempre mediato dalle nostre percezioni, anch'esse opinabili. Questa duplice attitudine, empirista e di attenzione al linguaggio rende i paradigmi di riferimento della filosofia analitica curiosamente simili a quelli in auge nel discorso filosofico indiano.
Anche Michael Dummett (1925-), succeduto ad Ayer alla cattedra di logica di Oxford) utilizza il termine "testimonianza", e anzi rispetto a Reid colloca maggiore attenzione sul problema del teste e sui criteri per definirne l'affidabilità. La sua conclusione è però simile a quella di Reid, nel senso che anche Dummett sostiene che non sia possibile far dipendere la conoscenza ottenuta tramite Parola come strumento conoscitivo dall'affidabilità del parlante. Secondo Dummett, far dipendere la validità della testimonianza dall'affidabilità del teste si configura come un caso di inferenza, mentre la conoscenza che ricaviamo da una testimonianza è diretta. Vediamo così che per Dummett caratteristica essenziale della testimonianza è la sua immediatezza, come per la Mīmāṃsā lo śāstra. Le altre scuole filosofiche indiane avevano invece sempre inserito un elemento di mediatezza nella Parola come strumento conoscitivo, dato dalla valutazione dell'affidabilità del suo autore. Ma, sostiene Dummett, se ci fosse bisogno di fondare inferenzialmente ogni testimonianza appellandosi all'affidabilità del teste, si giungerebbe a poter conoscere in senso proprio ben poco, dato che molto spesso il teste non ci riferisce ciò che ha visto o udito, bensì ciò che ha a sua volta saputo da altri (e la catena di trasmissione è spesso troppo complessa per poter essere seguita e fondata inferenzialmente). Dummett esclude a priori dalla "conoscenza" ogni proposizione etica o metafisica, ma se poi si dovesse escludervi anche ogni conoscenza ottenuta di terza, quarta etc. mano, se ne dovrebbe concludere che conosciamo ben poco.
Dummett riesce altresì a includere le prescrizioni all'interno della testimonianza valida, senza contraddire il requisito di verificabilità della conoscenza. Nella sua analisi, infatti, una precrizione equivale a un imperativo e questo non può essere definito vero o falso, ma corretto o scorretto. Una frase imperativa come "Rām, porta la mucca!" sarà infatti corretta se l'attributo "essere stato richiesto di portare la mucca" qualifica effettivamente Rām. Il portare la mucca può cioè qualificare Rām in due modi, in modo descrittivo ("Rām porta la mucca") e in modo prescrittivo (Rām, porta la mucca!"). Tale descrizione del funzionamento delle prescrizioni ha il vantaggio di offrire un'analisi applicabile a tutte le proposizioni, ma presenta lo svantaggio di essere poco informativa. È infatti forse troppo poco chiedere all'imperativo "Rām, porta la mucca!", per essere corretto, di riferire la richiesta di portare la mucca a Rām.
D'altronde, la necessità di poter ammettere la testimonianza (e quindi di considerarla autonoma dall'inferenza) è tanto più forte per Dummett in quanto egli amplia la sfera della testimonianza riconducendovi anche la memoria (in quanto testimonianza di noi a noi stessi circa un evento passato). Se non potessimo contare sul bagaglio delle informazioni via via apprese, infatti, saremmo sempre allo stesso punto: "Non avanzeremmo al di là della nostra posizione iniziale, saremmo bloccati nel solipsismo cognitivo del momento presente" (Dummett in Matilal, Chakrabarti 1994:262.). La memoria rientra nella testimonianza perché, come questa, è secondo Dummett immediata e non dipende da un processo inferenziale. La memoria è cioè immediata nel senso che non abbiamo bisogno di mettere in atto un'inferenza per poter ricordare qualcosa, e non dipende dalla nostra volontà, come invece l'inferenza.
Notiamo inoltre che conferendo alla testimonianza un tale ruolo di fonte immediata di conoscenza Dummett può, come già Reid, fare a meno di quella che chiama "intuizione", forse una sorta di yogipratyakṣa, che permetterebbe altrimenti di giungere al di fuori dei confini della percezione sensibile.
Infine, come per la Mīmāṃsā, anche Dummett sostiene che, dato il carattere non inferenziale della testimonianza i casi di comprensione senza accettazione costituiscono solo eccezioni all'interno del normale funzionamento della testimonianza, per cui all'udire Y dirci che x, noi immediatamente conosciamo che x. Similmente, nel ricordare che x, conosciamo che x, senza poter far distinzione fra i due atti cognitivi.