domenica 8 aprile 2007

9.4 La tradizione in Hans-Georg Gadamer

Con Hans-Georg Gadamer (1900-2002) ci spostiamo nella galassia dei termini legati in Occidente a quella che in India si chiama "Parola" (come strumento epistemico). Gadamer non parla infatti di testimonianza, ma offre pagine illuminanti sulla tradizione. Al contrario del moto illuminista di uscita dal pregiudizio, della tradizione vista come retaggio ingombrante di cui disfarsi, Gadamer sostiene che siamo sempre necessariamente immersi in una tradizione, che non è possibile uscirne (anche l'esigenza di disfarsi di ogni pregiudizio è un pregiudizio, così come si può parlare di una tradizione riguardo il disprezzo per il passato e l'amore per il nuovo). La tradizione rappresenta perciò per l'uomo un confine e una possibilità entro cui attuarsi. Il rapporto con la tradizione si configura per Gadamer come un rapporto dialettico, di familiarità ed estraneità allo stesso tempo. Gadamer sembra considerare l'antichità classica come un momento in cui l'uomo era invece completamente immerso nella tradizione in cui viveva, senza avvertire alcuna distanza da questa. L'inizio dell'età moderna ha invece segnato un momento di rottura, una presa di coscienza della propria tradizione come propria, ma allo stesso tempo come altra da sé. Infine, la tradizione è disponibile per l'uomo solo attraverso il linguaggio. L'esperienza dell'incontro con l'altro è cioè sempre e necessariamente un'esperienza linguistica. Anzi, non solo l'incontro esiste solo come incontro linguistico, ma anche il soggetto che incontra e l'oggetto incontrato non esistono al di fuori del linguaggio che li esprime. Il mondo che conosciamo è già un mondo organizzato linguisticamente, né potrebbe essere altrimenti. Tale linguisticità del mondo non è un sovrapporsi del pensiero a un mondo oggettivo che sarebbe diverso, come sostengono i buddhisti. Al contrario, il punto è che non esiste un darsi delle cose al di fuori del linguaggio nel senso che non è pensabile un'esperienza degli oggetti prima del linguaggio (si noti che per Gadamer la genesi storica del linguaggio fra, poniamo, gli australopitechi, è a tal fine irrilevante).
Per tornare al lessico e ai temi di questo corso, la tradizione si configura come un caso di Parola indipendente dal suo autore. Essa è infatti linguistica, nel senso che abbiamo visto, è fuori della disponibilità di un singolo autore ed è in grado di fornire conoscenza. Certo, non si tratterà della conoscenza cui ambiscono le discipline scientifiche occidentali, ma uno degli scopi di Gadamer è proprio mostrare la limitatezza della concezione scientifica della verità. Di verità si può al contrario parlare, secondo Gadamer, in riferimento all'arte, alla storia e agli ambiti generalmente considerati non scientifici. Anche sotto questo punto di vista, notiamo una interessante convergenza con l'idea indiana di una "conoscenza vera" che coinvolge anche l'ambito valoriale o deontico. In particolare, la posizione di Gadamer si colloca in una direzione che in India abbiamo visto incarnarsi nella Mīmāṃsā. Anche per questa, la presenza indiscutibile dell'autorità (vedica) e il linguaggio sono due realtà strettamente legate e imprescindibili per l'essere umano.
Veniamo ora però ad alcune importanti differenze. Alcuni interpreti di Gadamer si sono chiesti se il doppio rapporto di familiarità ed estraneità con la tradizione sia il risultato di un dato momento storico o piuttosto la condizione esistenziale in cui l'uomo è sempre immerso nel suo rapporto di interprete di qualcosa. Questa questione è particolarmente rilevante per questo corso. Infatti, non ostante la condivisione del ruolo costitutivo del linguaggio a prescindere dai parlanti e la centralità dell'ermeneutica nel rapporto con i testi, Gadamer e la Mīmāṃsā sembrerebbero almeno altrettanto lontani per quanto riguarda l'assenza di senso storico in questa, che di conseguenza non si pone rispetto al testo che interpreta (in primo luogo il Veda) come fosse un altro lontano nel tempo, da cui lasciarsi interpellare. Non ostante, come già ci è capitato di accennare (per esempio nel cap. 9.3) la Mīmāṃsā accetti la possibilità che quella che ci pare conoscenza venga poi falsificata, questo non equivale a dire che il farsi della comprensione abbia una dimensione storica. La conoscenza è da un punto di vista mīmāṃsaka, sempre sincronicamente compiuta, nel senso che al momento x il nostro patrimonio di consocenze sarà composto da w, y, z,... e al momento x+1 sapremo che w, y sono conoscenze valide, mentre z è falsa. Ma in tale processo il tempo e la storia non giocano alcun ruolo. Se, come Gadamer sembra ritenere, il processo che ha portato all'allontanamento dalla propria tradizione fosse un evento della storia occidentale (e non una condizione costitutiva dell'esperienza umana), si potrebbe immaginare che un tale evento non si sia realizzato in India. Apparentemente, infatti, la Mīmāṃsā non guarda al Veda come a qualcosa di distante nel tempo.
Il paragone con Gadamer ci porta così a due punti decisivi dell'interpretazione dell'India, ossia il suo rapporto con la storia e il suo rapporto con il Veda. Lo storico indiano Sudipt Kaviraj ha osservato che non è vero che in India manchi il senso del passato. Quello che manca è il senso del passato come storia, mentre è ben presente un passato come tradizione. Questo mi pare implicare che in India (o almeno nell'India precoloniale di cui ci occupiamo) non è mai avvenuto un distacco dal passato, il quale ha continuato a vivere come tradizione all'interno della cultura indiana. Spostandoci sul Veda, si potrebbe ripetere che questo, al contrario delle epiche greche o latine, ha sempre continuato a far parte del vissuto indiano. Quest'ultima affermazione è però almeno opinabile. Non tutto quel che è nel Veda è infatti portato avanti nel così detto Induismo, così come è ovvio il contrario, per esempio la presenza di divinità non vediche come Kṛṣṇa nell'India classica e contemporanea. Il celebre indologo francese Louis Renou ha parlato perciò del Veda come di un idolo davanti a cui tutti si tolgono il cappello, ma senza più comprenderne il significato e senza degnarlo di altra considerazione dopo tale frettoloso saluto. Personalmente, non sono d'accordo con tale interpretazione. Concentrandoci sulla Mīmāṃsā, notiamo perciò come il Veda sia presente e centrale, eppure in un modo che forse è diversissimo dallo spirito delle raccolte di inni (le così dette Saṃhitā vediche). Il Veda è presente per la Mīmāṃsā e –direi– per tutta la tradizione indiana, in quanto viene utilizzato nel rituale. Tale utilizzo rituale fa sì che da una parte il Veda venga sentito come un patrimonio di prescrizioni da interpretare secondo regole oggettive, che non lasciano spazio all'ermeneutica in quanto fondersi di oggetto e soggetto. D'altra parte, esso è componente vitale dell'esperienza culturale dei mīmāṃsaka invece di essere relegato al di fuori di questa, in un metaforico "museo" (per tornare alla terminologia di Gadamer). Concludendo, potremmo suggerire che in India la tradizione, anche quella vedica, sia sempre rimasta parte integrante della cultura. Se invece, seguendo alcuni interpreti di Gadamer, volessimo presupporre che un distacco sia sempre già presente, e che l'appartenenza irriflessa a una tradizione sia solo un'astrazione, ci troveremmo a concludere che in seguito a tale distacco il rapporto con il Veda non ha assunto l'aspetto autoconsapevole dell'ermeneutica (in cui si è consci di sé e dell'altro, ma anche dell'assenza di un confine stabile fra sé e altro), bensì quello oggettivante che in Occidente è stato proprio del pensiero scientifico. I mīmāṃsaka sono cioè convinti che le regole da loro esposte esauriscano il problema di interpretare il Veda (come se, appunto, l'interpretazione non fosse un processo che coinvolge attivamente il soggetto interpretante e che quindi non può concludersi). Anzi, l'opzione mīmāṃsaka in favore dell'ortoprassi invece dell'ortodossia, induce a pensare a un approccio al Veda non scientifico (ossia che mira a trarne conoscenza), bensì tecnico (ossia mirante a uno scopo pratico).
Ma se è vero che alla Mīmāṃsā manca (per via di una tradizione ancora vivente o per via di una tradizione di cui ci si è appropriati come fosse uno strumento) l'idea di un passato come storia, com'è possibile allora spiegare le notevoli somiglianze con Gadamer, per cui la storia sembrerebbe essere centrale? In Gadamer la storia è centrale come dimensione umana di rapporto sempre in divenire con l'altro costituito dalla tradizione, non come storicismo. Questo, inteso come la ricostruzione oggettiva del passato è anzi considerato un'illusoria concessione al metodo scientifico. In tal senso, il rapporto con il passato è un rapporto che coinvolge il soggetto nella sua totalità ed è perciò considerato dall'unico punto di vista possibile, quello del soggetto (e, quindi, dell'oggi). Similmente, il linguaggio è in divenire ma la sua evoluzione non potrebbe essere osservata dall'esterno (come da chi cercasse, con un'altra illusoria concessione al metodo scientifico, l'origine del linguaggio fra gli australopitechi). Il linguaggio è invece dato, così come la storicità dell'esperienza umana. L'approccio, anche alla storia, è in altre parole quello dettato dalla matrice fenomenologica di aderenza al dato che Gadamer eredita dal suo maestro, Martin Heidegger.

1 commento:

Unknown ha detto...
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