domenica 8 aprile 2007

9.2 La testimonianza in Michael Dummett

Dedicherò solo poche parole all'inquadramento dell'autore che sto per trattare. Infatti, obiettivo del tentativo di dialogo fra culture filosofiche che sto portando avanti in questa occasione è quello di ricercare se sia possibile un dialogo non ostante le incolmabili distanze di contesto storico. Parlerò quindi un poco della collocazione filosofica di Michael Dummett solo per quanto possa essere rilevante al tema di cui ci occupiamo. La filosofia così detta analitica, che si sviluppa in Inghilterra e negli Stati Uniti a partire dall'opera di Ludwig Wittgenstein, si concentra su un rifiuto della tradizione filosofica europea, sentita come inessenziale, verbosa, indimostrabile. Le si preferisce l'utilizzo della scienza come saldo ancoraggio al reale. Allo stesso tempo, però, i filosofi analitici si identificano innanzi tutto per la loro analisi ravvicinata del linguaggio. Questo viene infatti considerato come l'elemento più reale cui possano attingere i filosofi, più ancora del mondo dei referenti esterni, sempre dubitabile e sempre mediato dalle nostre percezioni, anch'esse opinabili. Questa duplice attitudine, empirista e di attenzione al linguaggio rende i paradigmi di riferimento della filosofia analitica curiosamente simili a quelli in auge nel discorso filosofico indiano.
Anche Michael Dummett (1925-), succeduto ad Ayer alla cattedra di logica di Oxford) utilizza il termine "testimonianza", e anzi rispetto a Reid colloca maggiore attenzione sul problema del teste e sui criteri per definirne l'affidabilità. La sua conclusione è però simile a quella di Reid, nel senso che anche Dummett sostiene che non sia possibile far dipendere la conoscenza ottenuta tramite Parola come strumento conoscitivo dall'affidabilità del parlante. Secondo Dummett, far dipendere la validità della testimonianza dall'affidabilità del teste si configura come un caso di inferenza, mentre la conoscenza che ricaviamo da una testimonianza è diretta. Vediamo così che per Dummett caratteristica essenziale della testimonianza è la sua immediatezza, come per la Mīmāṃsā lo śāstra. Le altre scuole filosofiche indiane avevano invece sempre inserito un elemento di mediatezza nella Parola come strumento conoscitivo, dato dalla valutazione dell'affidabilità del suo autore. Ma, sostiene Dummett, se ci fosse bisogno di fondare inferenzialmente ogni testimonianza appellandosi all'affidabilità del teste, si giungerebbe a poter conoscere in senso proprio ben poco, dato che molto spesso il teste non ci riferisce ciò che ha visto o udito, bensì ciò che ha a sua volta saputo da altri (e la catena di trasmissione è spesso troppo complessa per poter essere seguita e fondata inferenzialmente). Dummett esclude a priori dalla "conoscenza" ogni proposizione etica o metafisica, ma se poi si dovesse escludervi anche ogni conoscenza ottenuta di terza, quarta etc. mano, se ne dovrebbe concludere che conosciamo ben poco.
Dummett riesce altresì a includere le prescrizioni all'interno della testimonianza valida, senza contraddire il requisito di verificabilità della conoscenza. Nella sua analisi, infatti, una precrizione equivale a un imperativo e questo non può essere definito vero o falso, ma corretto o scorretto. Una frase imperativa come "Rām, porta la mucca!" sarà infatti corretta se l'attributo "essere stato richiesto di portare la mucca" qualifica effettivamente Rām. Il portare la mucca può cioè qualificare Rām in due modi, in modo descrittivo ("Rām porta la mucca") e in modo prescrittivo (Rām, porta la mucca!"). Tale descrizione del funzionamento delle prescrizioni ha il vantaggio di offrire un'analisi applicabile a tutte le proposizioni, ma presenta lo svantaggio di essere poco informativa. È infatti forse troppo poco chiedere all'imperativo "Rām, porta la mucca!", per essere corretto, di riferire la richiesta di portare la mucca a Rām.
D'altronde, la necessità di poter ammettere la testimonianza (e quindi di considerarla autonoma dall'inferenza) è tanto più forte per Dummett in quanto egli amplia la sfera della testimonianza riconducendovi anche la memoria (in quanto testimonianza di noi a noi stessi circa un evento passato). Se non potessimo contare sul bagaglio delle informazioni via via apprese, infatti, saremmo sempre allo stesso punto: "Non avanzeremmo al di là della nostra posizione iniziale, saremmo bloccati nel solipsismo cognitivo del momento presente" (Dummett in Matilal, Chakrabarti 1994:262.). La memoria rientra nella testimonianza perché, come questa, è secondo Dummett immediata e non dipende da un processo inferenziale. La memoria è cioè immediata nel senso che non abbiamo bisogno di mettere in atto un'inferenza per poter ricordare qualcosa, e non dipende dalla nostra volontà, come invece l'inferenza.
Notiamo inoltre che conferendo alla testimonianza un tale ruolo di fonte immediata di conoscenza Dummett può, come già Reid, fare a meno di quella che chiama "intuizione", forse una sorta di yogipratyakṣa, che permetterebbe altrimenti di giungere al di fuori dei confini della percezione sensibile.
Infine, come per la Mīmāṃsā, anche Dummett sostiene che, dato il carattere non inferenziale della testimonianza i casi di comprensione senza accettazione costituiscono solo eccezioni all'interno del normale funzionamento della testimonianza, per cui all'udire Y dirci che x, noi immediatamente conosciamo che x. Similmente, nel ricordare che x, conosciamo che x, senza poter far distinzione fra i due atti cognitivi.

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