Tornando alla Parola come strumento conoscitivo in senso proprio, alcuni autori occidentali le hanno esplicitamente riconosciuto un ruolo. Fra questi, notevole è Thomas Reid (1710-1796), un pastore anglicano scozzese contemporaneo di Hume e che fu da questi molto influenzato. Reid parte da una constatazione di Hume, per il quale la ragione (intesa come l'applicazione dei procedimenti inferenziali ai dati della percezione sensibile) è debole nell'infanzia, mentre fin da piccoli i bambini agiscono fidando nella consuetudine. Quando ancora non sono in grado di argomentare, essi confidano infatti già nel rapporto di causa-effetto (per esempio afferrando oggetti che desiderano). Reid "personalizza" tale affidamento alla consuetudine spiegando che fin da piccoli i bambini si affidano a quanto viene detto loro. E fanno benissimo, continua Reid, giacché senza tale affidamento non arriverebbero mai all'età adulta giacché se non ascoltassero i genitori finirebbero per incorrere in incidenti gravi.
Prima di proseguire, è però necessaria una premessa terminologica. Abbiamo fin dall'inizio osservato (si veda il cap. 0) che il concetto indiano di Parola come strumento conoscitivo raccoglie casi in Occidente sentiti come diversi. Per tale motivo, nel cercare agganci occidentali per possibili paralleli e sviluppi ulteriori, dobbiamo essere pronti a cogliere somiglianze di temi pur nelle diverse terminologie. Il termine che Reid (per cui si veda il cap. 8) utilizza per riferirsi alla Parola come strumento conoscitivo è "testimonianza".
Nel suo "An Inquiry into the Human Mind on the Principles of Common Sense" (1764, v. bibliografia per le edizioni), largo spazio è dedicato alla testimonianza, in particolare nell'ultimo capitolo. Lì si stabilisce un'analogia fra percezione diretta e testimonianza. Un simile paragone era stato stabilito da Śabara nel suo commento al MS. Śabara sostiene infatti che lo śāstra (ossia il Veda, la Parola come strumento epistemico indipendente dal suo autore) sia, come la percezione sensibile per il mondo ordinario, l'unica fonte di conoscenza per il trascendente (inferenza etc. rielaborano cioè i dati originariamente tratti da percezione o śāstra). Afferma inoltre Śabara che lo śāstra comunica conoscenza direttamente, come la percezione sensibile (mentre inferenza etc. offrono conoscenze mediate). L'argomento di Reid è simile nel considerare l'inferenza e gli altri strumenti conoscitivi subordinati a percezione diretta e testimonianza. Tuttavia, originale in Reid è il trattamento dell'altro elemento di somiglianza, ossia l'immediatezza. Sostiene infatti Reid che in realtà nessuna delle due comunichi immediatamente conoscenza. Al contrario, nell'una e nell'altra si succedono un livello immediato (quello rispettivamente delle sensazioni brute e del tono della voce/espressione del volto etc.) e uno mediato (quello dei dati sensori già parzialmente elaborati e del linguaggio). In tal senso, Reid parla anche circa i dati sensori di "testimonianza", attribuendo alla natura (e, implicitamente, al suo autore) il ruolo di teste.
Per quanto riguarda le categorie concettuali elaborate nei capitoli precedenti, Reid riconosce l'inevitabilità della testimonianza, in ogni ambito. Non individua un ambito, per esempio quello deontico, in cui la testimonianza sia l'unico strumento conoscitivo, e anzi sembra alludere al fatto che il suo ambito di applicazione si sovrapponga interamente a quello di percezione e ragionamento (=inferenza etc.). Tuttavia, la testimonianza è il principale strumento conoscitivo per chi non abbia ancora affinato percezione e ragionamento, ossia bambini e gente semplice. Riconoscere un tale ruolo forte alla testimonianza fa sì che Reid non debba ricorrere ad altre fonti (tipo le idee innate o l'intuizione intellettuale).
Il termine "testimonianza" rimanda necessariamente a un autore, per cui potrebbe sorprendere che poco o nessuno spazio sia destinato da Reid al problema dell'affidabilità del teste. Anzi, non ostante parli di "testimonianza", Reid non prende affatto in considerazione la figura del teste. In un certo senso, si potrebbe sostenere che nella sua testimonianza l'autore tende a scomparire in quanto individualità definita. Si parla perciò, come accennato sopra, di testimonianza anche nei riguardi della natura. Il riferimento potrebbe essere a Dio che parlerebbe attraverso di questa, ma Reid non Lo cita esplicitamente e in generale Dio pare piuttosto svolgere un ruolo di sfondo, di garante della totalità del sistema elaborato da Reid più che rivestirvi un ruolo specifico. Sul piano della testimonianza propriamente detta, invece, l'apparente distonia fra il termine "testimonianza" e l'assenza di un autore individuato si spiega perché Reid non ha bisogno di dare criteri specifici per l'affidabilità del teste, come se questa fosse un'eccezione. Si limita invece a osservare che l'affidabilità è la regola e che quindi fidarsi di ciò che vien detto è giusto, oltre a essere indispensabile. "[...] La propensità a dire la verità –scrive Reid– [...] opera potentemente anche nei maggiori bugiardi, perché per ogni volta che mentono anch'essi dicono la verità cento volte". Tale generale affidabilità fa sì che si sviluppi un legame fra vocabolo e significato. Tale legame non è quindi per Reid fissato direttamente da Dio (come per il Nyāya), né oggetto di una convenzione stipulata da alcuni uomini (come per la scuola epistemologica buddhista). Al contrario, la connessione deriva dall'uso dei parlanti ed è detta essere "reale". Se Reid si limitasse a questa constatazione, potremmo dire che la sua conclusione circa il rapporto vocabolo/significato è molto simile alla posizione della Mīmāṃsā. Ma Reid scrive dopo Hume (anzi Hume lesse e commentò il manoscritto dell'Inquiry prima della sua pubblicazione e Reid lo corresse dopo tale lettura), e non ostante anche i mīmāṃsaka abbiano dovuto fronteggiare avversari scettici, Reid è più esplicito nel porre il problema dell'affidabilità del dato. Infatti, sia Reid sia la Mīmāṃsā desiderano render conto del dato di fatto della generale diffusione della Parola come strumento di conoscenza. Entrambi notano che perché la Parola comunichi conoscenza il linguaggio in sé deve essere una via d'accesso sicura al pensiero e quindi al mondo oggettivo, e non una sua irregolare deformazione. Ma Reid si chiede esplicitamente come ciò sia possibile. Come possiamo, domanda, contare sul fatto che le stesse parole continuino a essere usate dai nostri simili per esprimere gli stessi significati? Hume ha già mostrato che la ripetitività non è una garanzia e che la ripetizione di uno stesso evento per un numero elevato di volte comunque non dimostra nulla circa il futuro. Reid deve perciò ricorrere a Dio. Infatti, per tornare allo sfondo di garanzia offerto da Dio, l'istintivo fidarsi della testimonianza, così come l'istintiva veracità sono due segni evidenti, secondo Reid, del piano di Dio il quale vuole per il nostro bene che sia possibile scambiarsi informazioni. Il problema della persistenza del dato (per esempio, del rapporto fra vocabolo e significato) si sposta così sul problema dell'esistenza di Dio. Rispetto alla Mīmāṃsā, Reid ha compiuto un passo innanzi nell'ancorare il dato a una base salda, ma anche uno indietro, poiché al di fuori del dato empiricamente riscontrabile ogni teoria è destinata a poter essere confutata. Questo è almeno quanto sosterrebbero i mīmāṃsaka. Si potrebbe obiettare che anche il dato può essere revocato in dubbio (è avvenuto sia in India con alcune scuole buddhiste, sia in Occidente, con Kant, Hegel, Schopenhauer, Fichte etc.), ma di certo l'esperienza ordinaria rappresenta un limite per l'interpretazione filosofica, che deve comunque essere in grado di renderne conto, e il modo più diretto di renderne conto è fidarsene. Quest'ultimo punto sembrerebbe portare alla conclusione per cui, anche in Reid, apparentemente Dio conferisce certezza al dato, ma in ultima analisi è l'evidenza del dato, in cui si riscontra una "connessione reale" fra vocabolo e significato etc., a deporre a favore dell'esistenza di un garante che consenta tutto ciò.
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