Elizabeth Fricker prende le mosse contestando l'assunto di fondo di Chakrabarti (si veda la fine del cap. 11.3), ossia la generale affidabilità della testimonianza come certificata da tutti noi. Sostiene infatti Fricker (si noti come Fricker e Chakrabarti si avversino sulla base di condivise categorie wittgesteiniane, non a caso provengono da Oxford):
"Qualunque partecipante competente ai giochi linguistici della società sa anche quanto inaffidabile possa essere il parlante e non è perciò disposto a conoscere qualcosa semplicemente perché è stato detto, senza verificare l'attendibilità del testimone" (questa tesi sarà d'ora in poi abbreviata con C).
Obiettivo polemico di Fricker è perciò l'idea secondo la quale
"È legittimo trarre conoscenza da una testimonianza anche senza previa verifica dell'affidabilità del parlante" (d'ora in poi abbreviata, seguendo Fricker, in PR).
PR non equivale a dire, con Reid, che gli uomini dicono generalmente la verità, né, con Wittgenstein, che dire la verità è una regola del gioco linguistico. Tali due tesi possono essere argomenti in favore di PR, ma non coincidono con questa e per questo Fricker non vi si sofferma. PR può essere contestata sostenendo che non sia possibile acquisire conoscenza tramite testimonianza, ma Fricker accetta questo e si limita invece a mostrare la necessità di una previa verifica dell'affidabilità del parlante mostrando che C. Poiché anche Chakrabarti riconosce, al contrario della Mīmāṃsā, un ruolo al parlante, tutto sta nella necessità di tale PREVIA verifica.
Fricker cerca perciò una premessa inferenziale da cui far discendere la conoscenza ottenuta da un parlante. Tale premessa deve permettere di passare legittimamente (e non automaticamente, come vorrebbe PR) da "X ha detto che y" a "y". Ovviamente, tale premessa non può essere "X ha detto veridicemente che y", dato che tale premessa includerebbe già la conclusione "y". Fricker sostiene inoltre che non abbia senso cercare una premessa generale da cui far discendere come conseguenza inferenziale la validità di quanto affermato da un parlante (è forse per questo motivo che i tentativi di scuola epistemologica buddhista e Prābhākara Mīmāṃsā sono falliti). È invece possibile stabilire caso per caso, in base a quanto conosciamo, indipendentemente dal parlante, circa l'argomento di cui questi parla e il parlante stesso, che in tale determinato caso il parlante è affidabile e trarne perciò inferenzialmente conoscenza valida. Questo potrebbe sembrare un risultato modesto, ma, sostiene Fricker, l'unica questione veramente rilevante sul piano epistemologico non è ridurre in astratto la testimonianza a inferenza, bensì farlo in concreto. Tale localizzazione è giustificata perché la testimonianza non è, secondo Fricker, uno strumento conoscitivo a sé, di cui vadano quindi cercate regole proprie. Al contrario, i singoli casi di conoscenza acquisita tramite testimonianza sono singoli casi di inferenza e come tali vanno trattati. La localizzazione rende l'argomento di Fricker immune a molte delle critiche dei sostenitori della Parola come strumento conoscitivo circa l'impossibilità di ridurre in generale la testimonianza a inferenza.
Localizzare il problema permette anche di evitare di doversi cimentare con il tentativo secondo me impossibile di rifondare la nostra conoscenza facendo a meno della testimonianza. Tutto quello che Fricker vuole realizzare è dimostrare inferenzialmente un singolo caso di testimonianza. In un tale caso localizzato, quanto sappiamo ex ante circa l'affidabilità del parlante e quanto sappiamo ex ante circa l'argomento di cui parla costituiscono il tribunale cui deve sottoporsi la testimonianza prima di essere accettata come conoscenza. Tali elementi possono a loro volta derivare da testimonianza. In tal senso, Fricker evita l'approccio fondazionalista in favore di un coerentismo (il coerentismo mira a dimostrare che la consocenza forma un insieme coerente, anche se indimostrabile uscendo al di fuori di questo) che mira a inferire un singolo contenuto di testimonianza all'interno dell'insieme coerente delle nostre conoscenze.
Proseguo ora mostrando le fasi del ragionamento di Fricker. Anzitutto, Fricker si oppone alla tesi di Chakrabarti, di molte scuole indiane, di Reid e di Wittgenstein, secondo cui siamo legittimati a dar credito a quanto udiamo, anche prima di verificare l'attendibilità del parlante. Si comportano senza considerare del tutto l'affidabilità del parlante, secondo Fricker, solo i bambini o comunque chi non ha capito le regole del gioco linguistico come istituzione sociale. Tali persone non possono nemmeno comprendere appieno il senso di "conoscere" e quindi non possono legittimamente sostenere di conoscere che x perché Y lo ha detto loro. Circa i casi (come quello di Chakrabarti etc.) in cui l'uditore sappia che è necessario che il parlante sia affidabile, ma sostenga che ci si possa fidare prima di accertarlo, Fricker afferma che l'uditore dovrebbe essere pronto ad abbandonare la credenza formata in base alla frase che ha udito se venisse a sapere che il parlante in tal caso non è competente o non è sincero. La differenza fra l'approccio di Chakrabarti e quello di Fricker sembra allora ridursi a se l'uditore debba accertare preventivamente l'assenza di elementi che contraddicano l'attendibilità del parlante o se debba solo essere pronto ad abbandonare la credenza sorta da quanto udito in caso tali elementi dovessero sopraggiungere. Tale differenza, sostiene Fricker, è quella che identifica i creduloni (che intitola il proprio intervento, appunto, "Contro la creduloneria").
Ribadisce infatti Fricker che se una buona percentuale di frasi non sono pronunciate da parlanti competenti e affidabili, allora non è epistemologicamente giustificato concludere che le frasi comunichino generalmente conoscenza valida, così come non sarebbe corretto inferire da "gli uccelli volano" che "questo uccello vola", giacché c'è una significativa percentuale di uccelli che non vola. L'argomento sembra cogente, ma mi chiedo se funzioni anche al di fuori della prospettiva della testimonianza come caso di inferenza. Inoltre, è un argomento scettico e come ogni argomento scettico è efficace, ma se coerentemente applicato rischia di portare alla paralisi e all'impossibilità di spiegare il fatto che in effetti gli esseri umani acquistino conoscenza.
Per evitare di incorrere nelle fallacie evidenziate da Chakrabarti (§11.3) nei tentativi indiani di ridurre la Parola come strumento conoscitivo a inferenza, oltre a localizzare il proprio tentativo Fricker riformula l'inferenza come segue:
1) Il parlante ha detto che f,
2) la frase pronunciata è sincera,
3) il parlante è competente rispetto all'argomento della frase e in questa determinata occasione
4) f è vera.
Come si vede, la sincerità è messa in relazione alla frase invece che al parlante in modo da ridurre al minimo i requisiti. Non ci interessa infatti che il parlante in generale sia sincero per quanto riguarda l'argomento trattato. Ci basta che questa singola sua frase sia sincera (certo, ci si potrebbe chiedere se sia possibile definire cosa sia per una frase essere "sincera" in modo distinto dall'essere "vera" o dall'essere pronunciata da un parlante sincero circa l'argomento trattato). Inoltre, la competenza è definita come segue: "Il parlante è competente se, qualora il parlante dicesse sinceramente che f in una determinata occasione O, allora si darebbe che f". In questo modo, la competenza è, ritiene Fricker, definita in modo non circolare.
In generale, l'argomento circostanziato di Fricker appare sensato e sostenibile. Non sarebbe applicabile al Veda o a ogni caso di Parola come strumento conoscitivo usata in senso non descrittivo o in ambito non ordinario. Prevede inoltre una responsabilità epistemica da parte dell'uditore che può essere richiesta, mi pare, solo in casi di eccezionale importanza (per esempio in tribunale), ma che non si dà nell'esperienza ordinaria. Questa, infatti, sarebbe paralizzata se ogni volta dovessimo inferire la validità di ciò che ci viene detto. uttavia, sostiene Fricker che di fatto anche nell'esperienza ordinaria noi mettiamo in atto automaticamente delle strategie cognitive volte a valutare l'attendibilità del teste con cui stiamo parlando. Il fatto che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza appaia diretta a Chakrabarti sarebbe quindi solo dovuto alla rapidità di tali operazioni. Fricker sostiene anche che sarebbe in linea di principio possibile analizzare scientificamente tali strategie in modo da poter render conto in modo completamente diverso, ma più esatto, del processo di acquisizione della conoscenza.
Questo punto della controversia Fricker/Chakrabarti è forse quello su cui è più difficile ottenere un consenso comune. Trattandosi infatti delle strategie che ogni singolo mette in atto, riconoscerle come tali dovrebbe spettare a ognuno (dato che, come mostra Bochenski nel testo citato al punto 23 della bibliografia, sulle nostre autopercezioni l'autorità ultima siamo noi stessi). Tuttavia, alcuni sono convinti di attuare strategie psicologiche atte a selezionare il teste cui rivolgersi chiedendo un'informazione e poi a valutare l'informazione stessa, mentre altri escludono di mettere in atto tali strategie nel contesto, per esempio, di un dialogo. I primi proseguono sostenendo che strategie simili sono presenti in forma embrionale anche fra i bambini, i secondi le considerano un'ipotesi artificiale e che non tiene conto degli scambi comunicativi complessi (sarà infatti possibile selezionare un teste cui chiedere una singola informazione, ma la comunicazione ordinaria è fatta molto più spesso di dialoghi a più voci, di interlocutori che non ci scegliamo etc.).
martedì 1 maggio 2007
11.2 Fricker e la riduzione del problema generale a problema locale
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