martedì 1 maggio 2007

11.3 Chakrabarti sull'impossibilita' di ridurre la testimonianza a inferenza

Se si vuole ridurre la testimonianza a un caso di inferenza, sostiene Chakrabarti, bisogna aver chiaro che cosa viene inferito (vocaboli o contenuti mentali del parlante?). Si ricorderà che in ambito indiano la prima strada (riferire l'inferenza ai vocaboli) è stata tentata dal Vaiśeṣika (§7.2), mentre la seconda dalla Prābhākara Mīmāṃsā (cap. 7.1) e dalla scuola epistemologica buddhista (§7.4). Data la maggior fortuna di queste ultime scuole, parto dal tentativo di ridurre la testimonianza a un'inferenza riguardante il contenuto mentale del parlante. Tenendo a mente l'esempio "sulla montagna c'è fuoco perché c'è fumo" avremmo allora:
La frase "Irene è nata a Palermo" (locus, come la montagna)
è stata pronunciata in seguito alla conoscenza da parte del parlante della relazione fra soggetto e predicato (probandum, come il fuoco),
perché i vocaboli sono legate da contiguità, appropriatezza e aspettativa reciproca (probans, come il fumo).
Chakrabarti formula così l'inferenza seguendo gli schemi classici indiani (forse si potrebbe tentare con miglior fortuna proponendo modelli alternativi). Quello qui riportato è, infatti, molto simile al procedimento della Prābhākara Mīmāṃsā. Ma come intendere le tre caratteristiche dei vocaboli? La contiguità consiste nell'essere pronunciati uno dopo l'altro e Chakrabarti la considera non problematica (anche se in seno alla Mīmāṃsā si sono invece sviluppate ampie polemiche circa se la contiguità si riferisca a vocaboli o a concetti). L'aspettitiva reciproca è quella che fa sì che continuiamo ad ascoltare dopo "Irene è nata a..." o dopo "A Palermo è nata..." sapendo che sta per arrivare un altro vocabolo. Ma queste due caratteristiche da sole non bastano a concludere che la frase è stata pronunciata sulla base di una credenza vera nel parlante. Infatti, frasi perfettamente formate possono essere pronunciate da un pappagallo che ripeta quanto ha udito, o da un mentitore inaffidabile. Perciò, secondo Chakrabarti, l'onere di dimostrare che la frase è dovuta a una credenza vera nel parlante ricade sull'appropriatezza. Questa è definita come assenza di contraddizione fra i vocaboli presenti. Intesa in senso ristretto, la mancanza di contraddizione si limita a escludere casi tipo "innaffia con il fuoco" e non serve quindi all'uopo. Intesa in senso lato, può concidere con la verisimiglianza (la frase "Irene è nata a Palermo" suonerebbe allora composta da vocaboli dotati di appropriatezza se l'ascoltatore non fosse a conoscenza del contrario). Ma per essere certi dell'assenza di contraddizioni, si finirebbe per dover sapere che "Irene è nata a Palermo" è vero e si ricadrebbe perciò nella circolarità.
Infine, nota Chakrabarti, anche se fosse possibile inferire un contenuto mentale sulla base di una frase, non se ne trarrebbe la nostra conoscenza di tale contenuto. Verremmo perciò a sapere che nel parlante è presente il contenuto mentale "Irene è nata a Palermo", ma continueremmo a non conoscere che Irene è nata a Palermo!
Quest'ultimo argomento di Chakrabarti (che a sua volta lo riprende da un celebre Naiyāyika, Gaṅgeśa) può apparire sofistico. In effetti, non sembra esserci una vera differenza fra sapere che un parlante affidabile sostiene che Irene è nata a Palermo e sapere che Irene è nata a Palermo. Ma alcune piccole differenze ci sono (sono state enunciate alla fine di §11.1), e forse bastano, specie se unite alla nostra sensazione di acquisire conoscenza in modo diretto tramite la Parola come strumento conoscitivo.
Se non vogliamo postulare l'esistenza di contenuti mentali indipendenti da vocaboli e referenti esterni, vorremo invece dire che l'inferenza si riferisce a vocaboli. Avremo allora:
Irene (locus, come la montagna)
è nata a Palermo (probandum, come il fuoco),
perché è richiamata dal vocabolo "Irene" in una frase in cui compare anche "è nata a Palermo" e in cui i due vocaboli sono in rapporto di contiguità, appropriatezza e reciproca aspettativa.
Ma è chiaramente inaccettabile dire che ogni volta che una frase è ben formata il suo contenuto è vero, mentre se l'appropriatezza fosse intesa in senso forte avremmo di nuovo un caso di circolarità.

Dimostrato così che l'inferenza non è sostenibile né riguardo i vocaboli, né riguardo i contenuti mentali del parlante, Chakrabarti solleva un'obiezione più generale, ossia che il probans in un'inferenza dovrebbe essere noto prima dell'inizio dell'inferenza. Nell'argomento circostanziato (si veda 11.1) di Fricker, però, se si conoscesse già il probans (la frase è stata pronunciata nel momento t da un parlante che in tale momento e a tale riguardo era sincero e competente), l'inferenza sarebbe del tutto inutile.
Resta il problema della comprensione senza accettazione, che viene meglio spiegata dalle riduzioni della Parola come strumento conoscitivo a inferenza. Sostiene però Chakrabarti che questi siano casi particolari e che non ci sia bisogno, per spiegare a cosa si riferisca una frase falsa, di postulare l'esistenza di contenuti mentali oltre agli oggetti esterni. Il Nyāya propone infatti di interpretare ogni conoscenza falsa come una costruzione errata a partire da elementi realmente esistenti.

Concludo tirando le somme. Al di là della controversia formale sui tentativi di ridurre la testimonianza a inferenza, Chakrabarti si fonda sull'assunto che la comprensione senza accettazione sia un'eccezione e che la testimonianza sia uno strumento conoscitivo affidabile tanto quanto gli altri (che pure non sono infallibili). È possibile mettere in dubbio questi due assunti? Elizabeth Fricker lo fa, sostenendo che comprendere senza accettare prima di aver verificato l'attendibilità del parlante sia una nostra responsabilità epistemica. Inoltre, dato che molte frasi risultano non essere vere, non è giustificato trarne conoscenza valida, come dalla premessa "tutti gli uccelli volano". Tuttavia, Chakrabarti ha buon gioco a ricordare che anche gli altri strumenti conoscitivi non sono infallibili. Se dovesse superare tale criterio, anche la percezione sensibile non dovrebbe essere riconosciuta come strumento conoscitivo valido e si giungerebbe a una paralisi.
Per quanto riguarda la comprensione senza accettazione. Chakrabarti sostiene che manchi nei bambini (ma su questo si vedano i miei dubbi esposti al termine del capitolo dedicato a Fricker) e che ciò mostri come sia un atteggiamento complesso, derivato dalla comprensione con accettazione e non della forma base di comprensione. Fricker può replicare sostenendo che i bambini non conoscono ancora le regole del gioco linguistico e che perciò il loro comportamento linguistico è fuori dai paradigmi del linguaggio.

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