L'argomento deve aver toccato corde profonde, poiché ha suscitato un'accesa e interessante discussione. Ne riassumo qui i punti principali.
Punto di partenza è stato l'intervento di I.
1) Sostiene I. che nei Nikāya manchi totalmente un atteggiamento dogmatico, e che anzi fidarsi in modo dogmatico della Parola del Buddha sia considerato un impedimento. L'adepto non deve infatti aderire alla dottrina del Buddha acriticamente e in un testo (quale?) si dice: "Quando capite da voi stessi cos'e' giusto, seguitelo!".
2) I testi canonici esaltano l'importanza, addirittura l'essenzialità della fede. Ma śraddhā (o saddhā in pāli), continua I., non indica la fede dogmatica. All'interno di saddhā l'allievo ha il diritto e il dovere di criticare ciò che ha udito.
3) Per comprendere l'apparente contraddizione del ruolo essenziale della fede e della contemporanea avversione al dogmatismo, si può far appello, ancora secondo I., alla coppia "autorità"/"autorevolezza". La prima è imposta e prevede un consenso dovuto e totale, mentre nella seconda il consenso è attribuito consciamente in base a elementi precisi che si condividano.
4) Infine, sostiene I., i contenuti della Parola del Buddha non fanno riferimento a una conoscenza solo intellettuale, bensì sono legati alla realizzazione nell'esperienza (per usare un esempio freudiano che bene mi pare illustrare la contrapposizione fra conoscenza intellettuale e psicanalisi come esperienza: "nessuno si è mai saziato leggendo il menu di un ristorante").
Elenco ora alcune mie obiezioni, miranti non a demolire la tesi di I., bensì ad approfondire la nostra prospettica sul problema.
Circa 1) si può però notare che è di nuovo un'autorità, il Buddha, a dirci di capire da noi cosa sia giusto fare e di seguirlo. Stiamo quindi obbedendo a una sua indicazione quando ci mettiamo alla ricerca. È un assunto simile a quello su cui si sono basati e si basano molti scienziati cristiani nel sostenere che sia stato Dio stesso a mettere nell'uomo la sete di conoscere e a legittimare quindi la ricerca della conoscenza.
Circa 2), mi chiedo se mai esista una fede dogmatica. Certo non all'interno della Parola come strumento conoscitivo, ma forse si tratta in generale di uno specchietto per le allodole più che di un'alternativa reale.
Circa 3), mi chiedo, nel caso la coppia autorità/autorevolezza esista anche in India, quali siano i termini atti a esprimerla (anche se non si può del tutto escludere che un concetto esista anche indipendentemente da un termine). In caso non ci siano termini per indicare l'autorità come contrapposta all'autorevolezza, mi chiedo se esista una tale autorità. Il Nyāyabhāṣya definisce l'āptatva, che mi pare corrispondere all'autorevolezza, mentre la Mīmāṃsā potrebbe essere chiamata a difendere l'autorità del Veda? Ma una tale distinzione ha senso solo se attribuita dall'esterno e con chiari intenti denigratori alla Mīmāṃsā. Di fatto, in che senso e da chi sarebbe imposta l'autorità del Veda?
Circa 4), anche ammesso che appena iniziato a percorrere il cammino buddhista si possa riscontrare su di sé, a livello di esperienza, il risultato positivo conseguito, resta il problema di perché si inizi a percorrerlo. Inoltre, chiedendo scusa per l'irriverenza, mi chiedo che differenza ci sia allora fra il Buddhismo e un qualsiasi corso antistress di cui pure si può esperire su di sé il benefico impatto. Mi pare invece che il Buddhismo miri a essere di più e a volersi confrontare non solo sul piano della pratica, forte di una struttura teorica (le quattro nobili verità etc.) che mostra come quello buddhista sia un cammino sui lunghi tempi più proficuo di un breve corso di rilassamento. Ma se vuol convincere anche a tale livello, il Buddhismo non può rifugiarsi nel suo aspetto pratico per evitare domande di tipo filosofico.
lunedì 7 maggio 2007
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