Sostiene I. che il Buddha storico non volesse tanto fare della filosofia né tanto meno della metafisica, bensì solo mostrare un metodo, un cammino verso la salvezza. Ho già esposto (nel capitolo "Fede e Ragione nel Buddhismo") alcuni problemi sollevati da questo approccio, che qui riassumo in breve:
-un cammino per arrivare dove? se il punto non è l'obiettivo, ma il fatto di star meglio mentre lo si pratica, il Buddhismo rischia di essere l'equivalente di un corso antistress, con la conseguenza di poter essere abbandonato se "non funziona". Se invece prendiamo sul serio il fatto che il Buddha sia davvero un risvegliato, allora il cammino buddhista è un cammino di fede, fede nella possibilità di tale risveglio, nel suo essersi realizzato nel Buddha storico, nel suo essere accessibile anche per noi e così via.
-il Buddhismo non si è limitato a dare istruzioni pratiche, bensì ha voluto cimentarsi sull'agone filosofico. Possibile che si tratti solo di una conseguenza indesirata?
I. risponde (o potrebbe rispondere) che il pensiero del Buddha mira appunto a mettere in crisi il nostro modo di pensare ordinario, per spingerlo alla corda e mostrargli i propri limiti. Una volta esperiti tali limiti, saremo infatti disposti a non contare più solo sul pensiero dialettico e discorsivo come strada per la salvezza. E' un'interpretazione nagarjuniana e moderna del Buddha. Un Buddha come maestro pratico, quasi un compagno di strada più anziano ed esperto. Tanto moderno, però, da rischiare, mi pare, di essere troppo vicino a noi e meno al suo contesto storico. Ovviamente, un pensatore o un maestro buddhisti hanno pieno diritto di riattualizzare il pensiero del Buddha per renderlo fruibile e utile ai buddhisti di oggi e non solo a quelli dei secoli e millenni trascorsi. Tale operazione però deve essere distinta da un'indagine che sostenga di ricostruire il pensiero originale del Buddha. Il modo d'intendere il Buddhismo proposto da I. (per come l'ho qui rappresentato) mi sembra cioè intelligente ed efficace, ma dubito che si identifichi con il pensiero originale del Buddha. Questo non è un limite dell'interpretazione di I., giacché la vitalità di una religione sta proprio nella sua capacità di adattarsi ai tempi e il tentativo di ritornare sempre al pensiero originale del fondatore della propria religione per poter giustificare le proprie teorie è a forte rischio di fondamentalismo.
Per tornare al Buddha storico, egli era immerso in un mondo in cui chi proponesse un diverso cammino era venerato e ascoltato non come un compagno più anziano, bensì come un maestro realizzato e dubito che egli soggettivamente non avesse questa impressione di sé. Quindi, benvenute le riattualizzazioni del Buddhismo, ma non se pretendono di essere l'unica interpretazione autentica del pensiero del Buddha.
lunedì 21 maggio 2007
giovedì 17 maggio 2007
Il complesso ruolo del Veda in India
Abbiamo fino a oggi lambito il problema della presenza effettiva del Veda come strumento conoscitivo nei sistemi filosofici e no indiani.
Provo ora ad accennare alcuni spunti in proposito, più per evidenziare la complessità del tema che per offrire una soluzione unitaria. Tanto più che una soluzione unitaria è per definizione impossibile, dati i tanti secoli e i tanti scenari culturali, sociali e geografici diversi cui ci si riferisce. Durante questo corso, D. ha posto in evidenza un movimento trasversale alle varie scuole filosofiche indiane di allontanamento dall'autorità del Veda. Ora in modo più brusco, ora in modo più indolore, ha osservato D., tutte le scuole tentano di sottrarsi a tale ingombrante presenza. Il Buddhismo rompe, il Sāṅkhya lascia al Veda uno spazio angusto e relativo a questioni insignificanti, e persino la Mīmāṃsā limita l'autorità del Veda al solo ambito del dharma. Dal canto suo, il Vedānta afferma che il Veda sia necessario, ma solo strumentalmente. Giunti al brahman, il Veda viene superato anche per il Vedānta.
Questa descrizione è interessante, soprattutto perché provocatoria. Ma, almeno per quanto riguarda Mīmāṃsā e Vedānta, l'autorità del Veda non è sentita come qualcosa da cui sfuggire e le elaborazioni filosofiche di Mīmāṃsā e Vedānta sono funzionali alla sistematizzazione del sapere vedico\footnote{Si ricordi che Śaṅkara non elabora nei dettagli un proprio sistema, considerando di star solo ripetendo quanto ha letto nelle Upaniṣad.} o alla sua apologia. Vi è poi un diffuso movimento contrario di avvicinamento al Veda, che attraversa i sistemi filosofici (si vedano sopra i capitoli dedicati al Sāṅkhya e al Nyāya) e anche le altre scuole di pensiero indiane. Karin Preisendanz, nella sua conferenza romana di giovedì 10 maggio 2007 si è soffermata sulle modalità attraverso cui gli autori della Carakasaṃhitā e di alcuni testi di medicina coevi (circa II secolo a. Ch.) utilizzino stilemi tratti dal rituale vedico per presentarsi come brahmani al pari degli altri. Similmente altre scuole hanno preteso per il proprio testo di riferimento l titolo di "quinto Veda". In tal modo, esse cercavano di legittimarsi attingendo alla principale fonte di legittimazione possibile, l'autorità vedica. D'altro canto, alcune scuole pretendono anche di superare il Veda. In proposito si porta soprattutto l'argomento per cui la tradizione vedica è interrotta, i testi vedici sono divenuti incomprensibili o troppo difficili e la strada da questi proposta (il cammino rituale, karmamārga) è lungo e laborioso. Infine, il Veda è riservato ai dvija, ossia agli appartenenti maschi delle tre classi superiori. Il Nāṭyaśāstra e altre opere di ambito devozionale viṣṇuita, mahādeviano (si veda Rigopoulos 2005 in F. Squarcini 2005) o scivaita (per esempio le Mokṣakārikā, Abhinavagupta...) si presentano invece come leggibili anche da donne o śūdra, comprensibili nel nostro momento di decadenza in cui il Veda è divenuto inaccessibile...
Provo ora ad accennare alcuni spunti in proposito, più per evidenziare la complessità del tema che per offrire una soluzione unitaria. Tanto più che una soluzione unitaria è per definizione impossibile, dati i tanti secoli e i tanti scenari culturali, sociali e geografici diversi cui ci si riferisce. Durante questo corso, D. ha posto in evidenza un movimento trasversale alle varie scuole filosofiche indiane di allontanamento dall'autorità del Veda. Ora in modo più brusco, ora in modo più indolore, ha osservato D., tutte le scuole tentano di sottrarsi a tale ingombrante presenza. Il Buddhismo rompe, il Sāṅkhya lascia al Veda uno spazio angusto e relativo a questioni insignificanti, e persino la Mīmāṃsā limita l'autorità del Veda al solo ambito del dharma. Dal canto suo, il Vedānta afferma che il Veda sia necessario, ma solo strumentalmente. Giunti al brahman, il Veda viene superato anche per il Vedānta.
Questa descrizione è interessante, soprattutto perché provocatoria. Ma, almeno per quanto riguarda Mīmāṃsā e Vedānta, l'autorità del Veda non è sentita come qualcosa da cui sfuggire e le elaborazioni filosofiche di Mīmāṃsā e Vedānta sono funzionali alla sistematizzazione del sapere vedico\footnote{Si ricordi che Śaṅkara non elabora nei dettagli un proprio sistema, considerando di star solo ripetendo quanto ha letto nelle Upaniṣad.} o alla sua apologia. Vi è poi un diffuso movimento contrario di avvicinamento al Veda, che attraversa i sistemi filosofici (si vedano sopra i capitoli dedicati al Sāṅkhya e al Nyāya) e anche le altre scuole di pensiero indiane. Karin Preisendanz, nella sua conferenza romana di giovedì 10 maggio 2007 si è soffermata sulle modalità attraverso cui gli autori della Carakasaṃhitā e di alcuni testi di medicina coevi (circa II secolo a. Ch.) utilizzino stilemi tratti dal rituale vedico per presentarsi come brahmani al pari degli altri. Similmente altre scuole hanno preteso per il proprio testo di riferimento l titolo di "quinto Veda". In tal modo, esse cercavano di legittimarsi attingendo alla principale fonte di legittimazione possibile, l'autorità vedica. D'altro canto, alcune scuole pretendono anche di superare il Veda. In proposito si porta soprattutto l'argomento per cui la tradizione vedica è interrotta, i testi vedici sono divenuti incomprensibili o troppo difficili e la strada da questi proposta (il cammino rituale, karmamārga) è lungo e laborioso. Infine, il Veda è riservato ai dvija, ossia agli appartenenti maschi delle tre classi superiori. Il Nāṭyaśāstra e altre opere di ambito devozionale viṣṇuita, mahādeviano (si veda Rigopoulos 2005 in F. Squarcini 2005) o scivaita (per esempio le Mokṣakārikā, Abhinavagupta...) si presentano invece come leggibili anche da donne o śūdra, comprensibili nel nostro momento di decadenza in cui il Veda è divenuto inaccessibile...
mercoledì 16 maggio 2007
Fede e ragione (terza parte): possibili obiezioni
Oltre alle obiezioni che ho presentato sopra circa alcuni singoli punti dell'esposizione di I., propongo ora alcune obiezioni sollevate (soprattutto da L.), nel corso della discussione in classe.
1) Il rifiuto del Buddha di rispondere a domande metafisiche può a sua volta essere interpretato in senso dogmatico. Sostenere infatti che una certa risposta non serve al cammino di liberazione significa decidere a priori cosa serva e cosa no e imporlo ai propri discepoli. La scelta degli ambiti rilevanti per la liberazione è una scelta a priori imposta solo sulla base dell'autorità del Buddha.
2) Sarebbe difficile spiegare gli sviluppi dogmatici successivi (nel Buddhismo Mahāyāna, Vajrāyāna, in Tibet etc.) se non avessero come base già il pensiero originario del Buddha.
3) L'ottuplice sentiero, come il cammino di salvezza presentato dal Buddha, non è autoevidente. Lo si accetta perché ci si fida della Parola del Buddha.
Il punto 2) mi pare sia filosoficamente debole (è difficile sostenere che tutti gli sviluppi di una religione debbano essere presenti in nuce nel pensiero del suo fondatore). Tanto più nel caso del Buddhismo, dato che il Mahāyāna e le altre scuole di Buddhismo sviluppatesi a relativa distanza dal Buddha storico hanno adottato testi canonici diversi, sostenendo per esempio di aver ritrovato discorsi del Buddha andati perduti o non rivelati perché la gente dell'epoca non era pronta. Nello specifico, però, Chiara Neri mi suggerisce che il termine "onnisciente" (sarvajña in sanscrito) è presente e riferito al Buddha già nel Canone Theravāda, anche se solo in testi canonici tardi. Inoltre, esso è riferito al Buddha, ma il Buddha non lo dice di sé.
In generale, la discussione sul rapporto fra fede e ragione pare infiammare molto gli animi. Forse perché ci si accosta al Buddhismo con il pregiudizio positivo che esso sia una sorta di Illuminismo all'interno della cultura indiana. Poi, o se ne rimane delusi, o lo si considera comunque un miglioramento (dal momento che avrebbe sostituito a dogmi irriflessi, tipo la teoria vedica del sacrificio, altri dogmi più ragionati, come le quattro nobili verità), o si tende a difenderne l'antidogmatismo e l'apertura alla ragione umana. Per quel che vale il mio parere, però, mi chiedo se sia mai esistito un principio d'autorità dogmatico nella teoria della Parola come strumento conoscitivo. Utilizzare lo strumento conoscitivo della Parola non è infatti irrazionale, giacché è invece pienamente razionale conoscere i limiti delle proprie facoltà e approfittare di un altro strumento conoscitivo per andare oltre a tali limiti.
1) Il rifiuto del Buddha di rispondere a domande metafisiche può a sua volta essere interpretato in senso dogmatico. Sostenere infatti che una certa risposta non serve al cammino di liberazione significa decidere a priori cosa serva e cosa no e imporlo ai propri discepoli. La scelta degli ambiti rilevanti per la liberazione è una scelta a priori imposta solo sulla base dell'autorità del Buddha.
2) Sarebbe difficile spiegare gli sviluppi dogmatici successivi (nel Buddhismo Mahāyāna, Vajrāyāna, in Tibet etc.) se non avessero come base già il pensiero originario del Buddha.
3) L'ottuplice sentiero, come il cammino di salvezza presentato dal Buddha, non è autoevidente. Lo si accetta perché ci si fida della Parola del Buddha.
Il punto 2) mi pare sia filosoficamente debole (è difficile sostenere che tutti gli sviluppi di una religione debbano essere presenti in nuce nel pensiero del suo fondatore). Tanto più nel caso del Buddhismo, dato che il Mahāyāna e le altre scuole di Buddhismo sviluppatesi a relativa distanza dal Buddha storico hanno adottato testi canonici diversi, sostenendo per esempio di aver ritrovato discorsi del Buddha andati perduti o non rivelati perché la gente dell'epoca non era pronta. Nello specifico, però, Chiara Neri mi suggerisce che il termine "onnisciente" (sarvajña in sanscrito) è presente e riferito al Buddha già nel Canone Theravāda, anche se solo in testi canonici tardi. Inoltre, esso è riferito al Buddha, ma il Buddha non lo dice di sé.
In generale, la discussione sul rapporto fra fede e ragione pare infiammare molto gli animi. Forse perché ci si accosta al Buddhismo con il pregiudizio positivo che esso sia una sorta di Illuminismo all'interno della cultura indiana. Poi, o se ne rimane delusi, o lo si considera comunque un miglioramento (dal momento che avrebbe sostituito a dogmi irriflessi, tipo la teoria vedica del sacrificio, altri dogmi più ragionati, come le quattro nobili verità), o si tende a difenderne l'antidogmatismo e l'apertura alla ragione umana. Per quel che vale il mio parere, però, mi chiedo se sia mai esistito un principio d'autorità dogmatico nella teoria della Parola come strumento conoscitivo. Utilizzare lo strumento conoscitivo della Parola non è infatti irrazionale, giacché è invece pienamente razionale conoscere i limiti delle proprie facoltà e approfittare di un altro strumento conoscitivo per andare oltre a tali limiti.
lunedì 7 maggio 2007
(seconda parte) Fede e ragione nel Buddhismo: il ruolo della fede
D'altronde, la complessità dei temi in gioco è evidenziata anche da I. quando parla, ispirandosi all'articolo di Giuliano Giustarini pubblicato in "RiSS" 1 (2006), del ruolo di śraddhā.
Se infatti è vero che il Buddha stesso paragona il proprio insegnamento a una zattera, da gettar via non appena si sia giunti sull'altra riva, è pur vero che su tale zattera si deve decidere di salire e pensare che funzioni. È perciò necessaria śraddhā, almeno inizialmente. Nel canone si trovano poi espressioni tipo saddhavimutta (corrispondente al sanscrito śraddhāvimukta), ossia "liberato tramite la fede" e si parla di fede nelle qualità del Buddha. Quindi, forse all'inizio la fede ha un ruolo preponderante, sostiene I.. In generale, prosegue I., il Buddha si muove sul filo dell'opposizione fra non dogmatismo e necessità di dare ascolto e seguire un maestro. Tale sottile filo sarebbe secondo Irene evidenziato nel Mahāparinibbānasutta, laddove il Buddha poco prima della morte dice ai suoi discepoli: «Siate una luce (dīpa), non cercate altro rifugio, avendo l'insegnamento come vostra luce». I discepoli devono quindi tenere se stessi o l'insegnamento (il dharma) come propria luce? Secondo I. il Buddha lascia volutamente aperto questo interrogativo data la duplice esigenza di mantenere l'antidogmatismo e di far sì che si dia ascolto al maestro. Inoltre, sostiene I., l'interrogativo resta aperto anche perché rispondervi non è centrale per il Buddha, dato l'atteggiamento antimetafisico che gli ha fatto rifiutare una risposta a tante altre questioni di tipo metafisico postagli da discepoli o avversari.
Su quest'ultimo punto, però, ho un'obiezione. Infatti, l'avversione alla metafisica, che ha fatto sì che il Buddha non rispondesse a molte domande che gli parevano riguardare temi non rilevanti, non mi pare c'entri in questo caso. Seguire il dharma o se stessi non è una questione astratta e puramente speculativa, bensì ha forti conseguenze pratiche.
Se infatti è vero che il Buddha stesso paragona il proprio insegnamento a una zattera, da gettar via non appena si sia giunti sull'altra riva, è pur vero che su tale zattera si deve decidere di salire e pensare che funzioni. È perciò necessaria śraddhā, almeno inizialmente. Nel canone si trovano poi espressioni tipo saddhavimutta (corrispondente al sanscrito śraddhāvimukta), ossia "liberato tramite la fede" e si parla di fede nelle qualità del Buddha. Quindi, forse all'inizio la fede ha un ruolo preponderante, sostiene I.. In generale, prosegue I., il Buddha si muove sul filo dell'opposizione fra non dogmatismo e necessità di dare ascolto e seguire un maestro. Tale sottile filo sarebbe secondo Irene evidenziato nel Mahāparinibbānasutta, laddove il Buddha poco prima della morte dice ai suoi discepoli: «Siate una luce (dīpa), non cercate altro rifugio, avendo l'insegnamento come vostra luce». I discepoli devono quindi tenere se stessi o l'insegnamento (il dharma) come propria luce? Secondo I. il Buddha lascia volutamente aperto questo interrogativo data la duplice esigenza di mantenere l'antidogmatismo e di far sì che si dia ascolto al maestro. Inoltre, sostiene I., l'interrogativo resta aperto anche perché rispondervi non è centrale per il Buddha, dato l'atteggiamento antimetafisico che gli ha fatto rifiutare una risposta a tante altre questioni di tipo metafisico postagli da discepoli o avversari.
Su quest'ultimo punto, però, ho un'obiezione. Infatti, l'avversione alla metafisica, che ha fatto sì che il Buddha non rispondesse a molte domande che gli parevano riguardare temi non rilevanti, non mi pare c'entri in questo caso. Seguire il dharma o se stessi non è una questione astratta e puramente speculativa, bensì ha forti conseguenze pratiche.
Etichette:
dharma,
scuola epistemologica buddhista
Fede e ragione nel Buddhismo
L'argomento deve aver toccato corde profonde, poiché ha suscitato un'accesa e interessante discussione. Ne riassumo qui i punti principali.
Punto di partenza è stato l'intervento di I.
1) Sostiene I. che nei Nikāya manchi totalmente un atteggiamento dogmatico, e che anzi fidarsi in modo dogmatico della Parola del Buddha sia considerato un impedimento. L'adepto non deve infatti aderire alla dottrina del Buddha acriticamente e in un testo (quale?) si dice: "Quando capite da voi stessi cos'e' giusto, seguitelo!".
2) I testi canonici esaltano l'importanza, addirittura l'essenzialità della fede. Ma śraddhā (o saddhā in pāli), continua I., non indica la fede dogmatica. All'interno di saddhā l'allievo ha il diritto e il dovere di criticare ciò che ha udito.
3) Per comprendere l'apparente contraddizione del ruolo essenziale della fede e della contemporanea avversione al dogmatismo, si può far appello, ancora secondo I., alla coppia "autorità"/"autorevolezza". La prima è imposta e prevede un consenso dovuto e totale, mentre nella seconda il consenso è attribuito consciamente in base a elementi precisi che si condividano.
4) Infine, sostiene I., i contenuti della Parola del Buddha non fanno riferimento a una conoscenza solo intellettuale, bensì sono legati alla realizzazione nell'esperienza (per usare un esempio freudiano che bene mi pare illustrare la contrapposizione fra conoscenza intellettuale e psicanalisi come esperienza: "nessuno si è mai saziato leggendo il menu di un ristorante").
Elenco ora alcune mie obiezioni, miranti non a demolire la tesi di I., bensì ad approfondire la nostra prospettica sul problema.
Circa 1) si può però notare che è di nuovo un'autorità, il Buddha, a dirci di capire da noi cosa sia giusto fare e di seguirlo. Stiamo quindi obbedendo a una sua indicazione quando ci mettiamo alla ricerca. È un assunto simile a quello su cui si sono basati e si basano molti scienziati cristiani nel sostenere che sia stato Dio stesso a mettere nell'uomo la sete di conoscere e a legittimare quindi la ricerca della conoscenza.
Circa 2), mi chiedo se mai esista una fede dogmatica. Certo non all'interno della Parola come strumento conoscitivo, ma forse si tratta in generale di uno specchietto per le allodole più che di un'alternativa reale.
Circa 3), mi chiedo, nel caso la coppia autorità/autorevolezza esista anche in India, quali siano i termini atti a esprimerla (anche se non si può del tutto escludere che un concetto esista anche indipendentemente da un termine). In caso non ci siano termini per indicare l'autorità come contrapposta all'autorevolezza, mi chiedo se esista una tale autorità. Il Nyāyabhāṣya definisce l'āptatva, che mi pare corrispondere all'autorevolezza, mentre la Mīmāṃsā potrebbe essere chiamata a difendere l'autorità del Veda? Ma una tale distinzione ha senso solo se attribuita dall'esterno e con chiari intenti denigratori alla Mīmāṃsā. Di fatto, in che senso e da chi sarebbe imposta l'autorità del Veda?
Circa 4), anche ammesso che appena iniziato a percorrere il cammino buddhista si possa riscontrare su di sé, a livello di esperienza, il risultato positivo conseguito, resta il problema di perché si inizi a percorrerlo. Inoltre, chiedendo scusa per l'irriverenza, mi chiedo che differenza ci sia allora fra il Buddhismo e un qualsiasi corso antistress di cui pure si può esperire su di sé il benefico impatto. Mi pare invece che il Buddhismo miri a essere di più e a volersi confrontare non solo sul piano della pratica, forte di una struttura teorica (le quattro nobili verità etc.) che mostra come quello buddhista sia un cammino sui lunghi tempi più proficuo di un breve corso di rilassamento. Ma se vuol convincere anche a tale livello, il Buddhismo non può rifugiarsi nel suo aspetto pratico per evitare domande di tipo filosofico.
Punto di partenza è stato l'intervento di I.
1) Sostiene I. che nei Nikāya manchi totalmente un atteggiamento dogmatico, e che anzi fidarsi in modo dogmatico della Parola del Buddha sia considerato un impedimento. L'adepto non deve infatti aderire alla dottrina del Buddha acriticamente e in un testo (quale?) si dice: "Quando capite da voi stessi cos'e' giusto, seguitelo!".
2) I testi canonici esaltano l'importanza, addirittura l'essenzialità della fede. Ma śraddhā (o saddhā in pāli), continua I., non indica la fede dogmatica. All'interno di saddhā l'allievo ha il diritto e il dovere di criticare ciò che ha udito.
3) Per comprendere l'apparente contraddizione del ruolo essenziale della fede e della contemporanea avversione al dogmatismo, si può far appello, ancora secondo I., alla coppia "autorità"/"autorevolezza". La prima è imposta e prevede un consenso dovuto e totale, mentre nella seconda il consenso è attribuito consciamente in base a elementi precisi che si condividano.
4) Infine, sostiene I., i contenuti della Parola del Buddha non fanno riferimento a una conoscenza solo intellettuale, bensì sono legati alla realizzazione nell'esperienza (per usare un esempio freudiano che bene mi pare illustrare la contrapposizione fra conoscenza intellettuale e psicanalisi come esperienza: "nessuno si è mai saziato leggendo il menu di un ristorante").
Elenco ora alcune mie obiezioni, miranti non a demolire la tesi di I., bensì ad approfondire la nostra prospettica sul problema.
Circa 1) si può però notare che è di nuovo un'autorità, il Buddha, a dirci di capire da noi cosa sia giusto fare e di seguirlo. Stiamo quindi obbedendo a una sua indicazione quando ci mettiamo alla ricerca. È un assunto simile a quello su cui si sono basati e si basano molti scienziati cristiani nel sostenere che sia stato Dio stesso a mettere nell'uomo la sete di conoscere e a legittimare quindi la ricerca della conoscenza.
Circa 2), mi chiedo se mai esista una fede dogmatica. Certo non all'interno della Parola come strumento conoscitivo, ma forse si tratta in generale di uno specchietto per le allodole più che di un'alternativa reale.
Circa 3), mi chiedo, nel caso la coppia autorità/autorevolezza esista anche in India, quali siano i termini atti a esprimerla (anche se non si può del tutto escludere che un concetto esista anche indipendentemente da un termine). In caso non ci siano termini per indicare l'autorità come contrapposta all'autorevolezza, mi chiedo se esista una tale autorità. Il Nyāyabhāṣya definisce l'āptatva, che mi pare corrispondere all'autorevolezza, mentre la Mīmāṃsā potrebbe essere chiamata a difendere l'autorità del Veda? Ma una tale distinzione ha senso solo se attribuita dall'esterno e con chiari intenti denigratori alla Mīmāṃsā. Di fatto, in che senso e da chi sarebbe imposta l'autorità del Veda?
Circa 4), anche ammesso che appena iniziato a percorrere il cammino buddhista si possa riscontrare su di sé, a livello di esperienza, il risultato positivo conseguito, resta il problema di perché si inizi a percorrerlo. Inoltre, chiedendo scusa per l'irriverenza, mi chiedo che differenza ci sia allora fra il Buddhismo e un qualsiasi corso antistress di cui pure si può esperire su di sé il benefico impatto. Mi pare invece che il Buddhismo miri a essere di più e a volersi confrontare non solo sul piano della pratica, forte di una struttura teorica (le quattro nobili verità etc.) che mostra come quello buddhista sia un cammino sui lunghi tempi più proficuo di un breve corso di rilassamento. Ma se vuol convincere anche a tale livello, il Buddhismo non può rifugiarsi nel suo aspetto pratico per evitare domande di tipo filosofico.
Etichette:
apta,
dharma,
scuola epistemologica buddhista,
Veda
mercoledì 2 maggio 2007
11.4 Confronto schematico fra Chakrabarti e Fricker
Riassumendo, sia Chakrabarti che Fricker condividono l'approccio di fondo, ossia:
a) è possibile ottenere conoscenza tramite testimonianza,
b) la testimonianza deve essere necessariamente di autore umano e legata ad ambiti verificabili,
c) l'orizzonte di riferimento in base al quale giudicare è il gioco linguistico del linguaggio sociale come enunciato da Wittgenstein.
Arindam Chakrabarti propone tre argomenti (in massima parte rielaborati a partire dalla tradizione indiana) in favore dell'autonomia della testimonianza come strumento conoscitivo:
1) La testimonianza non può essere ridotta a inferenza,
-perché la verifica dell'attendibilità del teste porta a circolarità,
-perché non è possibile costruire coerentemente l'inferenza.
2) La comprensione senza accettazione è solo un caso eccezionale, chi la applicasse sempre non avrebbe capito il gioco linguistico in cui si trova.
3) La conoscenza ottenuta tramite testimonianza differisce da quella ottenuta inferenzialmente:
-è diretta,
–non include il fatto che il parlante sappia l'italiano etc. (questo argomento è l'unico che mi pare assente in India),
–non si limita a "so che Y sa che x", bensì giunge a "x".
Quest'ultimo punto è l'unico non demolito (vedremo con quale successo) da E. Fricker, esso appare convincente, specie nella sua complessità. Le singole articolazioni, però, sono opinabili (non è detto che tutti condivideremmo l'impressione che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza sia diretta) o possono apparire sofistiche (come l'ultimo argomento).
Elizabeth Fricker si oppone a Chakrabarti come segue:
1) La testimonianza non può essere ricondotta a un'inferenza generale, ma solo perché essa non è un tipo a sé di inferenza. Si tratta invece di ricondurre a inferenza i singoli casi di testimonianza, e questo è possibile. Bisogna perciò localizzare il problema e riformulare l'inferenza in tale chiave. Ciò implica la rinuncia a tentare di fondare l'intero edificio della nostra conoscenza prescindendo dalla testimonianza.
2) Non credere a una testimonianza finché non sia stata verificata l'attendibilità del teste è una nostra precisa responsabilità epistemica. Chi semplicemente non prende in considerazione il problema (forse come i mīmāṃsaka nei confronti del Veda?) non ha capito il gioco linguistico e quindi non può nemmeno essere detto "conoscere" qualcosa.
Se la localizzazione del problema, con la conseguente rinuncia al fondazionalismo, sembra rendere le pretese di Fricker molto moderate, il punto 2) porta invece a conseguenze radicali.
La versione offerta da Fricker coglie in effetti alcuni punti scoperti dell'argomentazione di Chakrabarti (la cui difesa dell'autonomia della testimonianza, largamente coincidente con quella offerta dal Nyāya, non è l'unica possibile), in particolare circa l'attendibilità del teste. Se veramente essa è necessaria anche per il Nyāya, perché non dire che deve essere preliminarmente accertata?
a) è possibile ottenere conoscenza tramite testimonianza,
b) la testimonianza deve essere necessariamente di autore umano e legata ad ambiti verificabili,
c) l'orizzonte di riferimento in base al quale giudicare è il gioco linguistico del linguaggio sociale come enunciato da Wittgenstein.
Arindam Chakrabarti propone tre argomenti (in massima parte rielaborati a partire dalla tradizione indiana) in favore dell'autonomia della testimonianza come strumento conoscitivo:
1) La testimonianza non può essere ridotta a inferenza,
-perché la verifica dell'attendibilità del teste porta a circolarità,
-perché non è possibile costruire coerentemente l'inferenza.
2) La comprensione senza accettazione è solo un caso eccezionale, chi la applicasse sempre non avrebbe capito il gioco linguistico in cui si trova.
3) La conoscenza ottenuta tramite testimonianza differisce da quella ottenuta inferenzialmente:
-è diretta,
–non include il fatto che il parlante sappia l'italiano etc. (questo argomento è l'unico che mi pare assente in India),
–non si limita a "so che Y sa che x", bensì giunge a "x".
Quest'ultimo punto è l'unico non demolito (vedremo con quale successo) da E. Fricker, esso appare convincente, specie nella sua complessità. Le singole articolazioni, però, sono opinabili (non è detto che tutti condivideremmo l'impressione che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza sia diretta) o possono apparire sofistiche (come l'ultimo argomento).
Elizabeth Fricker si oppone a Chakrabarti come segue:
1) La testimonianza non può essere ricondotta a un'inferenza generale, ma solo perché essa non è un tipo a sé di inferenza. Si tratta invece di ricondurre a inferenza i singoli casi di testimonianza, e questo è possibile. Bisogna perciò localizzare il problema e riformulare l'inferenza in tale chiave. Ciò implica la rinuncia a tentare di fondare l'intero edificio della nostra conoscenza prescindendo dalla testimonianza.
2) Non credere a una testimonianza finché non sia stata verificata l'attendibilità del teste è una nostra precisa responsabilità epistemica. Chi semplicemente non prende in considerazione il problema (forse come i mīmāṃsaka nei confronti del Veda?) non ha capito il gioco linguistico e quindi non può nemmeno essere detto "conoscere" qualcosa.
Se la localizzazione del problema, con la conseguente rinuncia al fondazionalismo, sembra rendere le pretese di Fricker molto moderate, il punto 2) porta invece a conseguenze radicali.
La versione offerta da Fricker coglie in effetti alcuni punti scoperti dell'argomentazione di Chakrabarti (la cui difesa dell'autonomia della testimonianza, largamente coincidente con quella offerta dal Nyāya, non è l'unica possibile), in particolare circa l'attendibilità del teste. Se veramente essa è necessaria anche per il Nyāya, perché non dire che deve essere preliminarmente accertata?
martedì 1 maggio 2007
11.3 Chakrabarti sull'impossibilita' di ridurre la testimonianza a inferenza
Se si vuole ridurre la testimonianza a un caso di inferenza, sostiene Chakrabarti, bisogna aver chiaro che cosa viene inferito (vocaboli o contenuti mentali del parlante?). Si ricorderà che in ambito indiano la prima strada (riferire l'inferenza ai vocaboli) è stata tentata dal Vaiśeṣika (§7.2), mentre la seconda dalla Prābhākara Mīmāṃsā (cap. 7.1) e dalla scuola epistemologica buddhista (§7.4). Data la maggior fortuna di queste ultime scuole, parto dal tentativo di ridurre la testimonianza a un'inferenza riguardante il contenuto mentale del parlante. Tenendo a mente l'esempio "sulla montagna c'è fuoco perché c'è fumo" avremmo allora:
La frase "Irene è nata a Palermo" (locus, come la montagna)
è stata pronunciata in seguito alla conoscenza da parte del parlante della relazione fra soggetto e predicato (probandum, come il fuoco),
perché i vocaboli sono legate da contiguità, appropriatezza e aspettativa reciproca (probans, come il fumo).
Chakrabarti formula così l'inferenza seguendo gli schemi classici indiani (forse si potrebbe tentare con miglior fortuna proponendo modelli alternativi). Quello qui riportato è, infatti, molto simile al procedimento della Prābhākara Mīmāṃsā. Ma come intendere le tre caratteristiche dei vocaboli? La contiguità consiste nell'essere pronunciati uno dopo l'altro e Chakrabarti la considera non problematica (anche se in seno alla Mīmāṃsā si sono invece sviluppate ampie polemiche circa se la contiguità si riferisca a vocaboli o a concetti). L'aspettitiva reciproca è quella che fa sì che continuiamo ad ascoltare dopo "Irene è nata a..." o dopo "A Palermo è nata..." sapendo che sta per arrivare un altro vocabolo. Ma queste due caratteristiche da sole non bastano a concludere che la frase è stata pronunciata sulla base di una credenza vera nel parlante. Infatti, frasi perfettamente formate possono essere pronunciate da un pappagallo che ripeta quanto ha udito, o da un mentitore inaffidabile. Perciò, secondo Chakrabarti, l'onere di dimostrare che la frase è dovuta a una credenza vera nel parlante ricade sull'appropriatezza. Questa è definita come assenza di contraddizione fra i vocaboli presenti. Intesa in senso ristretto, la mancanza di contraddizione si limita a escludere casi tipo "innaffia con il fuoco" e non serve quindi all'uopo. Intesa in senso lato, può concidere con la verisimiglianza (la frase "Irene è nata a Palermo" suonerebbe allora composta da vocaboli dotati di appropriatezza se l'ascoltatore non fosse a conoscenza del contrario). Ma per essere certi dell'assenza di contraddizioni, si finirebbe per dover sapere che "Irene è nata a Palermo" è vero e si ricadrebbe perciò nella circolarità.
Infine, nota Chakrabarti, anche se fosse possibile inferire un contenuto mentale sulla base di una frase, non se ne trarrebbe la nostra conoscenza di tale contenuto. Verremmo perciò a sapere che nel parlante è presente il contenuto mentale "Irene è nata a Palermo", ma continueremmo a non conoscere che Irene è nata a Palermo!
Quest'ultimo argomento di Chakrabarti (che a sua volta lo riprende da un celebre Naiyāyika, Gaṅgeśa) può apparire sofistico. In effetti, non sembra esserci una vera differenza fra sapere che un parlante affidabile sostiene che Irene è nata a Palermo e sapere che Irene è nata a Palermo. Ma alcune piccole differenze ci sono (sono state enunciate alla fine di §11.1), e forse bastano, specie se unite alla nostra sensazione di acquisire conoscenza in modo diretto tramite la Parola come strumento conoscitivo.
Se non vogliamo postulare l'esistenza di contenuti mentali indipendenti da vocaboli e referenti esterni, vorremo invece dire che l'inferenza si riferisce a vocaboli. Avremo allora:
Irene (locus, come la montagna)
è nata a Palermo (probandum, come il fuoco),
perché è richiamata dal vocabolo "Irene" in una frase in cui compare anche "è nata a Palermo" e in cui i due vocaboli sono in rapporto di contiguità, appropriatezza e reciproca aspettativa.
Ma è chiaramente inaccettabile dire che ogni volta che una frase è ben formata il suo contenuto è vero, mentre se l'appropriatezza fosse intesa in senso forte avremmo di nuovo un caso di circolarità.
Dimostrato così che l'inferenza non è sostenibile né riguardo i vocaboli, né riguardo i contenuti mentali del parlante, Chakrabarti solleva un'obiezione più generale, ossia che il probans in un'inferenza dovrebbe essere noto prima dell'inizio dell'inferenza. Nell'argomento circostanziato (si veda 11.1) di Fricker, però, se si conoscesse già il probans (la frase è stata pronunciata nel momento t da un parlante che in tale momento e a tale riguardo era sincero e competente), l'inferenza sarebbe del tutto inutile.
Resta il problema della comprensione senza accettazione, che viene meglio spiegata dalle riduzioni della Parola come strumento conoscitivo a inferenza. Sostiene però Chakrabarti che questi siano casi particolari e che non ci sia bisogno, per spiegare a cosa si riferisca una frase falsa, di postulare l'esistenza di contenuti mentali oltre agli oggetti esterni. Il Nyāya propone infatti di interpretare ogni conoscenza falsa come una costruzione errata a partire da elementi realmente esistenti.
Concludo tirando le somme. Al di là della controversia formale sui tentativi di ridurre la testimonianza a inferenza, Chakrabarti si fonda sull'assunto che la comprensione senza accettazione sia un'eccezione e che la testimonianza sia uno strumento conoscitivo affidabile tanto quanto gli altri (che pure non sono infallibili). È possibile mettere in dubbio questi due assunti? Elizabeth Fricker lo fa, sostenendo che comprendere senza accettare prima di aver verificato l'attendibilità del parlante sia una nostra responsabilità epistemica. Inoltre, dato che molte frasi risultano non essere vere, non è giustificato trarne conoscenza valida, come dalla premessa "tutti gli uccelli volano". Tuttavia, Chakrabarti ha buon gioco a ricordare che anche gli altri strumenti conoscitivi non sono infallibili. Se dovesse superare tale criterio, anche la percezione sensibile non dovrebbe essere riconosciuta come strumento conoscitivo valido e si giungerebbe a una paralisi.
Per quanto riguarda la comprensione senza accettazione. Chakrabarti sostiene che manchi nei bambini (ma su questo si vedano i miei dubbi esposti al termine del capitolo dedicato a Fricker) e che ciò mostri come sia un atteggiamento complesso, derivato dalla comprensione con accettazione e non della forma base di comprensione. Fricker può replicare sostenendo che i bambini non conoscono ancora le regole del gioco linguistico e che perciò il loro comportamento linguistico è fuori dai paradigmi del linguaggio.
La frase "Irene è nata a Palermo" (locus, come la montagna)
è stata pronunciata in seguito alla conoscenza da parte del parlante della relazione fra soggetto e predicato (probandum, come il fuoco),
perché i vocaboli sono legate da contiguità, appropriatezza e aspettativa reciproca (probans, come il fumo).
Chakrabarti formula così l'inferenza seguendo gli schemi classici indiani (forse si potrebbe tentare con miglior fortuna proponendo modelli alternativi). Quello qui riportato è, infatti, molto simile al procedimento della Prābhākara Mīmāṃsā. Ma come intendere le tre caratteristiche dei vocaboli? La contiguità consiste nell'essere pronunciati uno dopo l'altro e Chakrabarti la considera non problematica (anche se in seno alla Mīmāṃsā si sono invece sviluppate ampie polemiche circa se la contiguità si riferisca a vocaboli o a concetti). L'aspettitiva reciproca è quella che fa sì che continuiamo ad ascoltare dopo "Irene è nata a..." o dopo "A Palermo è nata..." sapendo che sta per arrivare un altro vocabolo. Ma queste due caratteristiche da sole non bastano a concludere che la frase è stata pronunciata sulla base di una credenza vera nel parlante. Infatti, frasi perfettamente formate possono essere pronunciate da un pappagallo che ripeta quanto ha udito, o da un mentitore inaffidabile. Perciò, secondo Chakrabarti, l'onere di dimostrare che la frase è dovuta a una credenza vera nel parlante ricade sull'appropriatezza. Questa è definita come assenza di contraddizione fra i vocaboli presenti. Intesa in senso ristretto, la mancanza di contraddizione si limita a escludere casi tipo "innaffia con il fuoco" e non serve quindi all'uopo. Intesa in senso lato, può concidere con la verisimiglianza (la frase "Irene è nata a Palermo" suonerebbe allora composta da vocaboli dotati di appropriatezza se l'ascoltatore non fosse a conoscenza del contrario). Ma per essere certi dell'assenza di contraddizioni, si finirebbe per dover sapere che "Irene è nata a Palermo" è vero e si ricadrebbe perciò nella circolarità.
Infine, nota Chakrabarti, anche se fosse possibile inferire un contenuto mentale sulla base di una frase, non se ne trarrebbe la nostra conoscenza di tale contenuto. Verremmo perciò a sapere che nel parlante è presente il contenuto mentale "Irene è nata a Palermo", ma continueremmo a non conoscere che Irene è nata a Palermo!
Quest'ultimo argomento di Chakrabarti (che a sua volta lo riprende da un celebre Naiyāyika, Gaṅgeśa) può apparire sofistico. In effetti, non sembra esserci una vera differenza fra sapere che un parlante affidabile sostiene che Irene è nata a Palermo e sapere che Irene è nata a Palermo. Ma alcune piccole differenze ci sono (sono state enunciate alla fine di §11.1), e forse bastano, specie se unite alla nostra sensazione di acquisire conoscenza in modo diretto tramite la Parola come strumento conoscitivo.
Se non vogliamo postulare l'esistenza di contenuti mentali indipendenti da vocaboli e referenti esterni, vorremo invece dire che l'inferenza si riferisce a vocaboli. Avremo allora:
Irene (locus, come la montagna)
è nata a Palermo (probandum, come il fuoco),
perché è richiamata dal vocabolo "Irene" in una frase in cui compare anche "è nata a Palermo" e in cui i due vocaboli sono in rapporto di contiguità, appropriatezza e reciproca aspettativa.
Ma è chiaramente inaccettabile dire che ogni volta che una frase è ben formata il suo contenuto è vero, mentre se l'appropriatezza fosse intesa in senso forte avremmo di nuovo un caso di circolarità.
Dimostrato così che l'inferenza non è sostenibile né riguardo i vocaboli, né riguardo i contenuti mentali del parlante, Chakrabarti solleva un'obiezione più generale, ossia che il probans in un'inferenza dovrebbe essere noto prima dell'inizio dell'inferenza. Nell'argomento circostanziato (si veda 11.1) di Fricker, però, se si conoscesse già il probans (la frase è stata pronunciata nel momento t da un parlante che in tale momento e a tale riguardo era sincero e competente), l'inferenza sarebbe del tutto inutile.
Resta il problema della comprensione senza accettazione, che viene meglio spiegata dalle riduzioni della Parola come strumento conoscitivo a inferenza. Sostiene però Chakrabarti che questi siano casi particolari e che non ci sia bisogno, per spiegare a cosa si riferisca una frase falsa, di postulare l'esistenza di contenuti mentali oltre agli oggetti esterni. Il Nyāya propone infatti di interpretare ogni conoscenza falsa come una costruzione errata a partire da elementi realmente esistenti.
Concludo tirando le somme. Al di là della controversia formale sui tentativi di ridurre la testimonianza a inferenza, Chakrabarti si fonda sull'assunto che la comprensione senza accettazione sia un'eccezione e che la testimonianza sia uno strumento conoscitivo affidabile tanto quanto gli altri (che pure non sono infallibili). È possibile mettere in dubbio questi due assunti? Elizabeth Fricker lo fa, sostenendo che comprendere senza accettare prima di aver verificato l'attendibilità del parlante sia una nostra responsabilità epistemica. Inoltre, dato che molte frasi risultano non essere vere, non è giustificato trarne conoscenza valida, come dalla premessa "tutti gli uccelli volano". Tuttavia, Chakrabarti ha buon gioco a ricordare che anche gli altri strumenti conoscitivi non sono infallibili. Se dovesse superare tale criterio, anche la percezione sensibile non dovrebbe essere riconosciuta come strumento conoscitivo valido e si giungerebbe a una paralisi.
Per quanto riguarda la comprensione senza accettazione. Chakrabarti sostiene che manchi nei bambini (ma su questo si vedano i miei dubbi esposti al termine del capitolo dedicato a Fricker) e che ciò mostri come sia un atteggiamento complesso, derivato dalla comprensione con accettazione e non della forma base di comprensione. Fricker può replicare sostenendo che i bambini non conoscono ancora le regole del gioco linguistico e che perciò il loro comportamento linguistico è fuori dai paradigmi del linguaggio.
Etichette:
inferenza,
Mimamsa,
Nyaya,
scuola epistemologica buddhista,
Vaisesika
11.2 Fricker e la riduzione del problema generale a problema locale
Elizabeth Fricker prende le mosse contestando l'assunto di fondo di Chakrabarti (si veda la fine del cap. 11.3), ossia la generale affidabilità della testimonianza come certificata da tutti noi. Sostiene infatti Fricker (si noti come Fricker e Chakrabarti si avversino sulla base di condivise categorie wittgesteiniane, non a caso provengono da Oxford):
"Qualunque partecipante competente ai giochi linguistici della società sa anche quanto inaffidabile possa essere il parlante e non è perciò disposto a conoscere qualcosa semplicemente perché è stato detto, senza verificare l'attendibilità del testimone" (questa tesi sarà d'ora in poi abbreviata con C).
Obiettivo polemico di Fricker è perciò l'idea secondo la quale
"È legittimo trarre conoscenza da una testimonianza anche senza previa verifica dell'affidabilità del parlante" (d'ora in poi abbreviata, seguendo Fricker, in PR).
PR non equivale a dire, con Reid, che gli uomini dicono generalmente la verità, né, con Wittgenstein, che dire la verità è una regola del gioco linguistico. Tali due tesi possono essere argomenti in favore di PR, ma non coincidono con questa e per questo Fricker non vi si sofferma. PR può essere contestata sostenendo che non sia possibile acquisire conoscenza tramite testimonianza, ma Fricker accetta questo e si limita invece a mostrare la necessità di una previa verifica dell'affidabilità del parlante mostrando che C. Poiché anche Chakrabarti riconosce, al contrario della Mīmāṃsā, un ruolo al parlante, tutto sta nella necessità di tale PREVIA verifica.
Fricker cerca perciò una premessa inferenziale da cui far discendere la conoscenza ottenuta da un parlante. Tale premessa deve permettere di passare legittimamente (e non automaticamente, come vorrebbe PR) da "X ha detto che y" a "y". Ovviamente, tale premessa non può essere "X ha detto veridicemente che y", dato che tale premessa includerebbe già la conclusione "y". Fricker sostiene inoltre che non abbia senso cercare una premessa generale da cui far discendere come conseguenza inferenziale la validità di quanto affermato da un parlante (è forse per questo motivo che i tentativi di scuola epistemologica buddhista e Prābhākara Mīmāṃsā sono falliti). È invece possibile stabilire caso per caso, in base a quanto conosciamo, indipendentemente dal parlante, circa l'argomento di cui questi parla e il parlante stesso, che in tale determinato caso il parlante è affidabile e trarne perciò inferenzialmente conoscenza valida. Questo potrebbe sembrare un risultato modesto, ma, sostiene Fricker, l'unica questione veramente rilevante sul piano epistemologico non è ridurre in astratto la testimonianza a inferenza, bensì farlo in concreto. Tale localizzazione è giustificata perché la testimonianza non è, secondo Fricker, uno strumento conoscitivo a sé, di cui vadano quindi cercate regole proprie. Al contrario, i singoli casi di conoscenza acquisita tramite testimonianza sono singoli casi di inferenza e come tali vanno trattati. La localizzazione rende l'argomento di Fricker immune a molte delle critiche dei sostenitori della Parola come strumento conoscitivo circa l'impossibilità di ridurre in generale la testimonianza a inferenza.
Localizzare il problema permette anche di evitare di doversi cimentare con il tentativo secondo me impossibile di rifondare la nostra conoscenza facendo a meno della testimonianza. Tutto quello che Fricker vuole realizzare è dimostrare inferenzialmente un singolo caso di testimonianza. In un tale caso localizzato, quanto sappiamo ex ante circa l'affidabilità del parlante e quanto sappiamo ex ante circa l'argomento di cui parla costituiscono il tribunale cui deve sottoporsi la testimonianza prima di essere accettata come conoscenza. Tali elementi possono a loro volta derivare da testimonianza. In tal senso, Fricker evita l'approccio fondazionalista in favore di un coerentismo (il coerentismo mira a dimostrare che la consocenza forma un insieme coerente, anche se indimostrabile uscendo al di fuori di questo) che mira a inferire un singolo contenuto di testimonianza all'interno dell'insieme coerente delle nostre conoscenze.
Proseguo ora mostrando le fasi del ragionamento di Fricker. Anzitutto, Fricker si oppone alla tesi di Chakrabarti, di molte scuole indiane, di Reid e di Wittgenstein, secondo cui siamo legittimati a dar credito a quanto udiamo, anche prima di verificare l'attendibilità del parlante. Si comportano senza considerare del tutto l'affidabilità del parlante, secondo Fricker, solo i bambini o comunque chi non ha capito le regole del gioco linguistico come istituzione sociale. Tali persone non possono nemmeno comprendere appieno il senso di "conoscere" e quindi non possono legittimamente sostenere di conoscere che x perché Y lo ha detto loro. Circa i casi (come quello di Chakrabarti etc.) in cui l'uditore sappia che è necessario che il parlante sia affidabile, ma sostenga che ci si possa fidare prima di accertarlo, Fricker afferma che l'uditore dovrebbe essere pronto ad abbandonare la credenza formata in base alla frase che ha udito se venisse a sapere che il parlante in tal caso non è competente o non è sincero. La differenza fra l'approccio di Chakrabarti e quello di Fricker sembra allora ridursi a se l'uditore debba accertare preventivamente l'assenza di elementi che contraddicano l'attendibilità del parlante o se debba solo essere pronto ad abbandonare la credenza sorta da quanto udito in caso tali elementi dovessero sopraggiungere. Tale differenza, sostiene Fricker, è quella che identifica i creduloni (che intitola il proprio intervento, appunto, "Contro la creduloneria").
Ribadisce infatti Fricker che se una buona percentuale di frasi non sono pronunciate da parlanti competenti e affidabili, allora non è epistemologicamente giustificato concludere che le frasi comunichino generalmente conoscenza valida, così come non sarebbe corretto inferire da "gli uccelli volano" che "questo uccello vola", giacché c'è una significativa percentuale di uccelli che non vola. L'argomento sembra cogente, ma mi chiedo se funzioni anche al di fuori della prospettiva della testimonianza come caso di inferenza. Inoltre, è un argomento scettico e come ogni argomento scettico è efficace, ma se coerentemente applicato rischia di portare alla paralisi e all'impossibilità di spiegare il fatto che in effetti gli esseri umani acquistino conoscenza.
Per evitare di incorrere nelle fallacie evidenziate da Chakrabarti (§11.3) nei tentativi indiani di ridurre la Parola come strumento conoscitivo a inferenza, oltre a localizzare il proprio tentativo Fricker riformula l'inferenza come segue:
1) Il parlante ha detto che f,
2) la frase pronunciata è sincera,
3) il parlante è competente rispetto all'argomento della frase e in questa determinata occasione
4) f è vera.
Come si vede, la sincerità è messa in relazione alla frase invece che al parlante in modo da ridurre al minimo i requisiti. Non ci interessa infatti che il parlante in generale sia sincero per quanto riguarda l'argomento trattato. Ci basta che questa singola sua frase sia sincera (certo, ci si potrebbe chiedere se sia possibile definire cosa sia per una frase essere "sincera" in modo distinto dall'essere "vera" o dall'essere pronunciata da un parlante sincero circa l'argomento trattato). Inoltre, la competenza è definita come segue: "Il parlante è competente se, qualora il parlante dicesse sinceramente che f in una determinata occasione O, allora si darebbe che f". In questo modo, la competenza è, ritiene Fricker, definita in modo non circolare.
In generale, l'argomento circostanziato di Fricker appare sensato e sostenibile. Non sarebbe applicabile al Veda o a ogni caso di Parola come strumento conoscitivo usata in senso non descrittivo o in ambito non ordinario. Prevede inoltre una responsabilità epistemica da parte dell'uditore che può essere richiesta, mi pare, solo in casi di eccezionale importanza (per esempio in tribunale), ma che non si dà nell'esperienza ordinaria. Questa, infatti, sarebbe paralizzata se ogni volta dovessimo inferire la validità di ciò che ci viene detto. uttavia, sostiene Fricker che di fatto anche nell'esperienza ordinaria noi mettiamo in atto automaticamente delle strategie cognitive volte a valutare l'attendibilità del teste con cui stiamo parlando. Il fatto che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza appaia diretta a Chakrabarti sarebbe quindi solo dovuto alla rapidità di tali operazioni. Fricker sostiene anche che sarebbe in linea di principio possibile analizzare scientificamente tali strategie in modo da poter render conto in modo completamente diverso, ma più esatto, del processo di acquisizione della conoscenza.
Questo punto della controversia Fricker/Chakrabarti è forse quello su cui è più difficile ottenere un consenso comune. Trattandosi infatti delle strategie che ogni singolo mette in atto, riconoscerle come tali dovrebbe spettare a ognuno (dato che, come mostra Bochenski nel testo citato al punto 23 della bibliografia, sulle nostre autopercezioni l'autorità ultima siamo noi stessi). Tuttavia, alcuni sono convinti di attuare strategie psicologiche atte a selezionare il teste cui rivolgersi chiedendo un'informazione e poi a valutare l'informazione stessa, mentre altri escludono di mettere in atto tali strategie nel contesto, per esempio, di un dialogo. I primi proseguono sostenendo che strategie simili sono presenti in forma embrionale anche fra i bambini, i secondi le considerano un'ipotesi artificiale e che non tiene conto degli scambi comunicativi complessi (sarà infatti possibile selezionare un teste cui chiedere una singola informazione, ma la comunicazione ordinaria è fatta molto più spesso di dialoghi a più voci, di interlocutori che non ci scegliamo etc.).
"Qualunque partecipante competente ai giochi linguistici della società sa anche quanto inaffidabile possa essere il parlante e non è perciò disposto a conoscere qualcosa semplicemente perché è stato detto, senza verificare l'attendibilità del testimone" (questa tesi sarà d'ora in poi abbreviata con C).
Obiettivo polemico di Fricker è perciò l'idea secondo la quale
"È legittimo trarre conoscenza da una testimonianza anche senza previa verifica dell'affidabilità del parlante" (d'ora in poi abbreviata, seguendo Fricker, in PR).
PR non equivale a dire, con Reid, che gli uomini dicono generalmente la verità, né, con Wittgenstein, che dire la verità è una regola del gioco linguistico. Tali due tesi possono essere argomenti in favore di PR, ma non coincidono con questa e per questo Fricker non vi si sofferma. PR può essere contestata sostenendo che non sia possibile acquisire conoscenza tramite testimonianza, ma Fricker accetta questo e si limita invece a mostrare la necessità di una previa verifica dell'affidabilità del parlante mostrando che C. Poiché anche Chakrabarti riconosce, al contrario della Mīmāṃsā, un ruolo al parlante, tutto sta nella necessità di tale PREVIA verifica.
Fricker cerca perciò una premessa inferenziale da cui far discendere la conoscenza ottenuta da un parlante. Tale premessa deve permettere di passare legittimamente (e non automaticamente, come vorrebbe PR) da "X ha detto che y" a "y". Ovviamente, tale premessa non può essere "X ha detto veridicemente che y", dato che tale premessa includerebbe già la conclusione "y". Fricker sostiene inoltre che non abbia senso cercare una premessa generale da cui far discendere come conseguenza inferenziale la validità di quanto affermato da un parlante (è forse per questo motivo che i tentativi di scuola epistemologica buddhista e Prābhākara Mīmāṃsā sono falliti). È invece possibile stabilire caso per caso, in base a quanto conosciamo, indipendentemente dal parlante, circa l'argomento di cui questi parla e il parlante stesso, che in tale determinato caso il parlante è affidabile e trarne perciò inferenzialmente conoscenza valida. Questo potrebbe sembrare un risultato modesto, ma, sostiene Fricker, l'unica questione veramente rilevante sul piano epistemologico non è ridurre in astratto la testimonianza a inferenza, bensì farlo in concreto. Tale localizzazione è giustificata perché la testimonianza non è, secondo Fricker, uno strumento conoscitivo a sé, di cui vadano quindi cercate regole proprie. Al contrario, i singoli casi di conoscenza acquisita tramite testimonianza sono singoli casi di inferenza e come tali vanno trattati. La localizzazione rende l'argomento di Fricker immune a molte delle critiche dei sostenitori della Parola come strumento conoscitivo circa l'impossibilità di ridurre in generale la testimonianza a inferenza.
Localizzare il problema permette anche di evitare di doversi cimentare con il tentativo secondo me impossibile di rifondare la nostra conoscenza facendo a meno della testimonianza. Tutto quello che Fricker vuole realizzare è dimostrare inferenzialmente un singolo caso di testimonianza. In un tale caso localizzato, quanto sappiamo ex ante circa l'affidabilità del parlante e quanto sappiamo ex ante circa l'argomento di cui parla costituiscono il tribunale cui deve sottoporsi la testimonianza prima di essere accettata come conoscenza. Tali elementi possono a loro volta derivare da testimonianza. In tal senso, Fricker evita l'approccio fondazionalista in favore di un coerentismo (il coerentismo mira a dimostrare che la consocenza forma un insieme coerente, anche se indimostrabile uscendo al di fuori di questo) che mira a inferire un singolo contenuto di testimonianza all'interno dell'insieme coerente delle nostre conoscenze.
Proseguo ora mostrando le fasi del ragionamento di Fricker. Anzitutto, Fricker si oppone alla tesi di Chakrabarti, di molte scuole indiane, di Reid e di Wittgenstein, secondo cui siamo legittimati a dar credito a quanto udiamo, anche prima di verificare l'attendibilità del parlante. Si comportano senza considerare del tutto l'affidabilità del parlante, secondo Fricker, solo i bambini o comunque chi non ha capito le regole del gioco linguistico come istituzione sociale. Tali persone non possono nemmeno comprendere appieno il senso di "conoscere" e quindi non possono legittimamente sostenere di conoscere che x perché Y lo ha detto loro. Circa i casi (come quello di Chakrabarti etc.) in cui l'uditore sappia che è necessario che il parlante sia affidabile, ma sostenga che ci si possa fidare prima di accertarlo, Fricker afferma che l'uditore dovrebbe essere pronto ad abbandonare la credenza formata in base alla frase che ha udito se venisse a sapere che il parlante in tal caso non è competente o non è sincero. La differenza fra l'approccio di Chakrabarti e quello di Fricker sembra allora ridursi a se l'uditore debba accertare preventivamente l'assenza di elementi che contraddicano l'attendibilità del parlante o se debba solo essere pronto ad abbandonare la credenza sorta da quanto udito in caso tali elementi dovessero sopraggiungere. Tale differenza, sostiene Fricker, è quella che identifica i creduloni (che intitola il proprio intervento, appunto, "Contro la creduloneria").
Ribadisce infatti Fricker che se una buona percentuale di frasi non sono pronunciate da parlanti competenti e affidabili, allora non è epistemologicamente giustificato concludere che le frasi comunichino generalmente conoscenza valida, così come non sarebbe corretto inferire da "gli uccelli volano" che "questo uccello vola", giacché c'è una significativa percentuale di uccelli che non vola. L'argomento sembra cogente, ma mi chiedo se funzioni anche al di fuori della prospettiva della testimonianza come caso di inferenza. Inoltre, è un argomento scettico e come ogni argomento scettico è efficace, ma se coerentemente applicato rischia di portare alla paralisi e all'impossibilità di spiegare il fatto che in effetti gli esseri umani acquistino conoscenza.
Per evitare di incorrere nelle fallacie evidenziate da Chakrabarti (§11.3) nei tentativi indiani di ridurre la Parola come strumento conoscitivo a inferenza, oltre a localizzare il proprio tentativo Fricker riformula l'inferenza come segue:
1) Il parlante ha detto che f,
2) la frase pronunciata è sincera,
3) il parlante è competente rispetto all'argomento della frase e in questa determinata occasione
4) f è vera.
Come si vede, la sincerità è messa in relazione alla frase invece che al parlante in modo da ridurre al minimo i requisiti. Non ci interessa infatti che il parlante in generale sia sincero per quanto riguarda l'argomento trattato. Ci basta che questa singola sua frase sia sincera (certo, ci si potrebbe chiedere se sia possibile definire cosa sia per una frase essere "sincera" in modo distinto dall'essere "vera" o dall'essere pronunciata da un parlante sincero circa l'argomento trattato). Inoltre, la competenza è definita come segue: "Il parlante è competente se, qualora il parlante dicesse sinceramente che f in una determinata occasione O, allora si darebbe che f". In questo modo, la competenza è, ritiene Fricker, definita in modo non circolare.
In generale, l'argomento circostanziato di Fricker appare sensato e sostenibile. Non sarebbe applicabile al Veda o a ogni caso di Parola come strumento conoscitivo usata in senso non descrittivo o in ambito non ordinario. Prevede inoltre una responsabilità epistemica da parte dell'uditore che può essere richiesta, mi pare, solo in casi di eccezionale importanza (per esempio in tribunale), ma che non si dà nell'esperienza ordinaria. Questa, infatti, sarebbe paralizzata se ogni volta dovessimo inferire la validità di ciò che ci viene detto. uttavia, sostiene Fricker che di fatto anche nell'esperienza ordinaria noi mettiamo in atto automaticamente delle strategie cognitive volte a valutare l'attendibilità del teste con cui stiamo parlando. Il fatto che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza appaia diretta a Chakrabarti sarebbe quindi solo dovuto alla rapidità di tali operazioni. Fricker sostiene anche che sarebbe in linea di principio possibile analizzare scientificamente tali strategie in modo da poter render conto in modo completamente diverso, ma più esatto, del processo di acquisizione della conoscenza.
Questo punto della controversia Fricker/Chakrabarti è forse quello su cui è più difficile ottenere un consenso comune. Trattandosi infatti delle strategie che ogni singolo mette in atto, riconoscerle come tali dovrebbe spettare a ognuno (dato che, come mostra Bochenski nel testo citato al punto 23 della bibliografia, sulle nostre autopercezioni l'autorità ultima siamo noi stessi). Tuttavia, alcuni sono convinti di attuare strategie psicologiche atte a selezionare il teste cui rivolgersi chiedendo un'informazione e poi a valutare l'informazione stessa, mentre altri escludono di mettere in atto tali strategie nel contesto, per esempio, di un dialogo. I primi proseguono sostenendo che strategie simili sono presenti in forma embrionale anche fra i bambini, i secondi le considerano un'ipotesi artificiale e che non tiene conto degli scambi comunicativi complessi (sarà infatti possibile selezionare un teste cui chiedere una singola informazione, ma la comunicazione ordinaria è fatta molto più spesso di dialoghi a più voci, di interlocutori che non ci scegliamo etc.).
Etichette:
inferenza,
Mimamsa,
scuola epistemologica buddhista
11.1 Arindam Chakrabarti difende l'autonomia della testimonianza
Chakrabarti basa la sua argomentazione su una premessa che abbiamo visto sviluppata anche in ambito indiano, ossia l'impossibilità di separare la mera comprensione di una frase (quella che nel capitolo 7 abbiamo definito "comprensione senza accettazione") dal considerarne vero il contenuto. Se ciò fosse possibile, sarebbe lecito dire che la testimonianza è in realtà un caso di inferenza. Si potrebbe infatti inferire da una frase udita (ma non ancora accettata come vera) il contenuto mentale corrispondente nella mente del parlante e da tale contenuto, se il parlante è affidabile, la presenza di un referente esterno. Invece, continua Chakrabarti, nei casi normali noi comprendiamo direttamente il contenuto di una frase, senza passare dal passaggio intermedio di una comprensione senza accettazione. Quando questa si verifica, per esempio nel caso di barzellette o di parlanti notoriamente inaffidabili, essa si configura come un'eccezione alla regola.
Ricordo che la posizione di Chakrabarti esclude volutamente tutti i casi di testimonianza divina o riguardante ambiti non verificabili dall'uomo. Come già il Nyāya, quindi, anche Chakrabarti non può prescindere da un autore affidabile. Tuttavia, sostiene che dire "conosco che x perché me lo ha detto il signor Y, il quale è un parlate affidabile" non si configuri come inferenza. Esso è semplicemente un modo di render ragione della propria credenza e se ciò bastasse a definire un'inferenza anche le nostre conoscenze percettive diverrebbero tali (dato che anche nel caso della percezione possiamo spiegare i motivi che ci spingono a credere che, per esempio, vediamo davanti ai nostri occhi un foglio bianco). Quest'ultimo passaggio evidenzia infatti come dire "lo so perché me lo ha detto il signor Y" non giustifichi la mia conoscenza che x, la quale è stata ottenuta direttamente dalla frase di Y, bensì la mia consapevolezza di conoscere che x. Con un esempio, Irene mi dice di essere nata a Palermo e io conosco immediatamente che Irene è nata a Palermo. Se mi si chiede come faccio a saperlo rispondo "perché me lo ha detto Irene, la quale per quanto riguarda se stessa è senz'altro una parlante affidabile". Questo non è la premessa da cui ho inferito che Irene sia nata a Palermo (conoscenza di primo grado). Tutt'al più può essere la premessa per cui ho inferito di conoscere che Irene è nata a Palermo (conoscenza di secondo grado).
Questa è la tesi generale. Espongo ora alcuni dettagli. Chakrabarti dedica un breve spazio alla confutazione di chi potrebbe voler ricondurre la testimonianza alla percezione diretta o alla memoria. Contro la prima tesi, nota che se la testimonianza fosse un caso di percezione sensibile, farebbe parte del contenuto della testimonianza tutto quello che udiamo (il tono della voce, l'accento di chi parla etc.) e non solo, per esempio, il fatto che Irene sia nata a Palermo. Inoltre, il contenuto della testimonianza è fissato una volta per tutte dal modo in cui è stato espresso dal parlante. Quello della percezione sensibile, invece, può essere rielaborato. Se ho visto un gatto poggiato su un tappeto, posso per esempio descrivere la mia esperienza anche come "ho visto un tappeto sotto il gatto" o in altri modi ancora. Contro l'idea che la testimonianza sia un caso di memoria, Chakrabarti si limita a notare che possiamo conoscere tramite testimonianza cose che non abbiamo già esperito.
Ma veniamo al cuore della disputa Chakrabarti/Fricker, ossia la riduzione della testimonianza all'inferenza.
Chakrabarti considera prima il caso base:
1) Il parlante P è affidabile,
2) P ha detto che f,
3) f è vera.
Tale riduzione all'inferenza non è sostenibile, perché non tiene conto di conoscenze ottenute tramite parlanti inaffidabili (per esempio i rapporti di una spia, ma anche il caso di un mentitore abituale che non sappia di star dicendo la verità). Più radicale è poi il problema determinato dal fatto di come sia possibile stabilire l'attendibilità del parlante. Si ricorderà che secondo il Nyāya l'attendibilità del teste è data da tre criteri, il desiderio di comunicare, la sincerità e la competenza. Il primo criterio non è preso in considerazione da Chakrabarti, che si rivolge a uomini normali e che quindi possono essere presupposti (al contrario di eremiti etc.) come desiderosi di comunicare. La sincerità non è definita da Chakrabarti, ma mi pare sia considerata come la corrispondenza fra ciò che il parlante pensa e ciò che dice. Ora, ogni prova della sincerità del parlante nel passato è quindi necessariamente linguistica e non può essere acquisita dall'esterno. La competenza viene invece intesa come la corrispondenza fra i contenuti mentali del parlate e i dati di fatto esterni. Ma anche in questo caso, per poter giudicare dei contenuti mentali del parlante abbiamo solo le sue parole. Per cui, nel caso di parlanti usualmente mentitori o incompetenti, non saremmo mai in grado di stabilire con certezza né il primo né il secondo tipo di corrispondenza.
Chakrabarti passa perciò a considerare una versione minore del primo tentativo di riduzione. È l'argomento circostanziato, elaborato da Elizabeth Fricker (per cui si vedano i capp. 11 e 11.2):
I) Il parlante P ha detto che f nel momento t,
II) nel momento t il parlante P era sincero e competente riguardo f,
III) f è vera.
Si noti che tale argomento non può essere accusato di circolarità, perché la conclusione non è contenuta già in una delle sue premesse, bensì solo nelle premesse messe insieme. Si potrebbe chiamare anche questo un caso di circolarità, ma allora si dovrebbe concludere che tutti i ragionamenti deduttivi sono circolari.
Più problematico, sempre secondo Chakrabarti, è stabilire se sia effettivamente possibile stabilire I) senza aver stabilito III). Inoltre, tramite testimonianza io vengo a conoscere qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto a quanto conoscerei tramite l'inferenza I/II/III. Di più perché quando Irene mi dice di essere nata a Palermo io non conosco solo che Irene, la quale è sincera e competente, pensa di essere nata a Palermo. Io conosco che Irene è nata a Palermo. Di meno, perché della testimonianza non fanno parte tutti i contenuti accessori che farebbero parte dell'inferenza I/II/III, ossia il fatto che Irene sia convinta della propria sicilianità, il fatto che voglia parlarmi apertamente delle sue origini, il fatto che sappia parlare in italiano etc.
Ricordo che la posizione di Chakrabarti esclude volutamente tutti i casi di testimonianza divina o riguardante ambiti non verificabili dall'uomo. Come già il Nyāya, quindi, anche Chakrabarti non può prescindere da un autore affidabile. Tuttavia, sostiene che dire "conosco che x perché me lo ha detto il signor Y, il quale è un parlate affidabile" non si configuri come inferenza. Esso è semplicemente un modo di render ragione della propria credenza e se ciò bastasse a definire un'inferenza anche le nostre conoscenze percettive diverrebbero tali (dato che anche nel caso della percezione possiamo spiegare i motivi che ci spingono a credere che, per esempio, vediamo davanti ai nostri occhi un foglio bianco). Quest'ultimo passaggio evidenzia infatti come dire "lo so perché me lo ha detto il signor Y" non giustifichi la mia conoscenza che x, la quale è stata ottenuta direttamente dalla frase di Y, bensì la mia consapevolezza di conoscere che x. Con un esempio, Irene mi dice di essere nata a Palermo e io conosco immediatamente che Irene è nata a Palermo. Se mi si chiede come faccio a saperlo rispondo "perché me lo ha detto Irene, la quale per quanto riguarda se stessa è senz'altro una parlante affidabile". Questo non è la premessa da cui ho inferito che Irene sia nata a Palermo (conoscenza di primo grado). Tutt'al più può essere la premessa per cui ho inferito di conoscere che Irene è nata a Palermo (conoscenza di secondo grado).
Questa è la tesi generale. Espongo ora alcuni dettagli. Chakrabarti dedica un breve spazio alla confutazione di chi potrebbe voler ricondurre la testimonianza alla percezione diretta o alla memoria. Contro la prima tesi, nota che se la testimonianza fosse un caso di percezione sensibile, farebbe parte del contenuto della testimonianza tutto quello che udiamo (il tono della voce, l'accento di chi parla etc.) e non solo, per esempio, il fatto che Irene sia nata a Palermo. Inoltre, il contenuto della testimonianza è fissato una volta per tutte dal modo in cui è stato espresso dal parlante. Quello della percezione sensibile, invece, può essere rielaborato. Se ho visto un gatto poggiato su un tappeto, posso per esempio descrivere la mia esperienza anche come "ho visto un tappeto sotto il gatto" o in altri modi ancora. Contro l'idea che la testimonianza sia un caso di memoria, Chakrabarti si limita a notare che possiamo conoscere tramite testimonianza cose che non abbiamo già esperito.
Ma veniamo al cuore della disputa Chakrabarti/Fricker, ossia la riduzione della testimonianza all'inferenza.
Chakrabarti considera prima il caso base:
1) Il parlante P è affidabile,
2) P ha detto che f,
3) f è vera.
Tale riduzione all'inferenza non è sostenibile, perché non tiene conto di conoscenze ottenute tramite parlanti inaffidabili (per esempio i rapporti di una spia, ma anche il caso di un mentitore abituale che non sappia di star dicendo la verità). Più radicale è poi il problema determinato dal fatto di come sia possibile stabilire l'attendibilità del parlante. Si ricorderà che secondo il Nyāya l'attendibilità del teste è data da tre criteri, il desiderio di comunicare, la sincerità e la competenza. Il primo criterio non è preso in considerazione da Chakrabarti, che si rivolge a uomini normali e che quindi possono essere presupposti (al contrario di eremiti etc.) come desiderosi di comunicare. La sincerità non è definita da Chakrabarti, ma mi pare sia considerata come la corrispondenza fra ciò che il parlante pensa e ciò che dice. Ora, ogni prova della sincerità del parlante nel passato è quindi necessariamente linguistica e non può essere acquisita dall'esterno. La competenza viene invece intesa come la corrispondenza fra i contenuti mentali del parlate e i dati di fatto esterni. Ma anche in questo caso, per poter giudicare dei contenuti mentali del parlante abbiamo solo le sue parole. Per cui, nel caso di parlanti usualmente mentitori o incompetenti, non saremmo mai in grado di stabilire con certezza né il primo né il secondo tipo di corrispondenza.
Chakrabarti passa perciò a considerare una versione minore del primo tentativo di riduzione. È l'argomento circostanziato, elaborato da Elizabeth Fricker (per cui si vedano i capp. 11 e 11.2):
I) Il parlante P ha detto che f nel momento t,
II) nel momento t il parlante P era sincero e competente riguardo f,
III) f è vera.
Si noti che tale argomento non può essere accusato di circolarità, perché la conclusione non è contenuta già in una delle sue premesse, bensì solo nelle premesse messe insieme. Si potrebbe chiamare anche questo un caso di circolarità, ma allora si dovrebbe concludere che tutti i ragionamenti deduttivi sono circolari.
Più problematico, sempre secondo Chakrabarti, è stabilire se sia effettivamente possibile stabilire I) senza aver stabilito III). Inoltre, tramite testimonianza io vengo a conoscere qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto a quanto conoscerei tramite l'inferenza I/II/III. Di più perché quando Irene mi dice di essere nata a Palermo io non conosco solo che Irene, la quale è sincera e competente, pensa di essere nata a Palermo. Io conosco che Irene è nata a Palermo. Di meno, perché della testimonianza non fanno parte tutti i contenuti accessori che farebbero parte dell'inferenza I/II/III, ossia il fatto che Irene sia convinta della propria sicilianità, il fatto che voglia parlarmi apertamente delle sue origini, il fatto che sappia parlare in italiano etc.
11. Fra filosofia indiana e occidentale: la disputa Fricker/Chakrabarti
Come già accennato, Arindam Chakrabarti ha una doppia formazione, da paṇḍit indiano tradizionale (ha studiato con un maestro logica, ossia Nyāya, ma anche molte altre discipline) e da filosofo analitico (ha preso un dottorato a Oxford, studiando con M. Dummett e P. Strawson). Nel volume (Knowing from Words, citato al punto 21 della bibliografia) da lui curato assieme a Bimal Krishna Matilal ha tentato di mettere a confronto voci soprattutto occidentali sul problema della conoscenza ottenuta tramite parole, in termini occidentali la testimonianza. Da bravo filosofo analitico ha volutamente tralasciato gli ambiti trascendenti e sovrumani. Viene perciò presa in considerazione nel testo solo la conoscenza legata a un autore umano (pauruṣeya) e ad ambiti in cui è (almeno in linea di principio) possibile una verifica. A partire da tali premesse, Chakrabarti sostiene che sia possibile riconoscere la testimonianza come uno strumento conoscitivo distinto e non riducibile ad altri, soprattutto non riducibile all'inferenza. Gli si oppone, in Knowing from Words come in altri scritti, Elizabeth Fricker, che ha avuto il merito di essere fra i primi filosofi occidentali a occuparsi della testimonianza da un punto di vista prettamente epistemologico. Anche Fricker conviene che sia possibile acquisire conoscenza valida tramite testimonianza (tale conclusione non è ovvia, se si pensa che in Occidente la conoscenza è normalmente definita come "credenza vera giustificata" e che molti filosofi, da Platone a Locke, non sono stati disposti ad ammettere "lo so perché me lo ha detto x" fra le possibile giustificazioni atte a conferire a una credenza il rango di conoscenza). Dunque, la posta in gioco, per quanto riguarda lo scopo di questo corso, è la possiblità di riconoscere alla Parola un ruolo di strumento conoscitivo autonomo anche all'interno degli stretti vincoli imposti dalla filosofia analitica, ossia autore umano e ambito circoscritto dal criterio della verificabilità.
Iscriviti a:
Post (Atom)