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lunedì 21 maggio 2007

Il Buddha fra filosofia e pratica

Sostiene I. che il Buddha storico non volesse tanto fare della filosofia né tanto meno della metafisica, bensì solo mostrare un metodo, un cammino verso la salvezza. Ho già esposto (nel capitolo "Fede e Ragione nel Buddhismo") alcuni problemi sollevati da questo approccio, che qui riassumo in breve:
-un cammino per arrivare dove? se il punto non è l'obiettivo, ma il fatto di star meglio mentre lo si pratica, il Buddhismo rischia di essere l'equivalente di un corso antistress, con la conseguenza di poter essere abbandonato se "non funziona". Se invece prendiamo sul serio il fatto che il Buddha sia davvero un risvegliato, allora il cammino buddhista è un cammino di fede, fede nella possibilità di tale risveglio, nel suo essersi realizzato nel Buddha storico, nel suo essere accessibile anche per noi e così via.
-il Buddhismo non si è limitato a dare istruzioni pratiche, bensì ha voluto cimentarsi sull'agone filosofico. Possibile che si tratti solo di una conseguenza indesirata?

I. risponde (o potrebbe rispondere) che il pensiero del Buddha mira appunto a mettere in crisi il nostro modo di pensare ordinario, per spingerlo alla corda e mostrargli i propri limiti. Una volta esperiti tali limiti, saremo infatti disposti a non contare più solo sul pensiero dialettico e discorsivo come strada per la salvezza. E' un'interpretazione nagarjuniana e moderna del Buddha. Un Buddha come maestro pratico, quasi un compagno di strada più anziano ed esperto. Tanto moderno, però, da rischiare, mi pare, di essere troppo vicino a noi e meno al suo contesto storico. Ovviamente, un pensatore o un maestro buddhisti hanno pieno diritto di riattualizzare il pensiero del Buddha per renderlo fruibile e utile ai buddhisti di oggi e non solo a quelli dei secoli e millenni trascorsi. Tale operazione però deve essere distinta da un'indagine che sostenga di ricostruire il pensiero originale del Buddha. Il modo d'intendere il Buddhismo proposto da I. (per come l'ho qui rappresentato) mi sembra cioè intelligente ed efficace, ma dubito che si identifichi con il pensiero originale del Buddha. Questo non è un limite dell'interpretazione di I., giacché la vitalità di una religione sta proprio nella sua capacità di adattarsi ai tempi e il tentativo di ritornare sempre al pensiero originale del fondatore della propria religione per poter giustificare le proprie teorie è a forte rischio di fondamentalismo.
Per tornare al Buddha storico, egli era immerso in un mondo in cui chi proponesse un diverso cammino era venerato e ascoltato non come un compagno più anziano, bensì come un maestro realizzato e dubito che egli soggettivamente non avesse questa impressione di sé. Quindi, benvenute le riattualizzazioni del Buddhismo, ma non se pretendono di essere l'unica interpretazione autentica del pensiero del Buddha.

mercoledì 16 maggio 2007

Fede e ragione (terza parte): possibili obiezioni

Oltre alle obiezioni che ho presentato sopra circa alcuni singoli punti dell'esposizione di I., propongo ora alcune obiezioni sollevate (soprattutto da L.), nel corso della discussione in classe.
1) Il rifiuto del Buddha di rispondere a domande metafisiche può a sua volta essere interpretato in senso dogmatico. Sostenere infatti che una certa risposta non serve al cammino di liberazione significa decidere a priori cosa serva e cosa no e imporlo ai propri discepoli. La scelta degli ambiti rilevanti per la liberazione è una scelta a priori imposta solo sulla base dell'autorità del Buddha.
2) Sarebbe difficile spiegare gli sviluppi dogmatici successivi (nel Buddhismo Mahāyāna, Vajrāyāna, in Tibet etc.) se non avessero come base già il pensiero originario del Buddha.
3) L'ottuplice sentiero, come il cammino di salvezza presentato dal Buddha, non è autoevidente. Lo si accetta perché ci si fida della Parola del Buddha.
Il punto 2) mi pare sia filosoficamente debole (è difficile sostenere che tutti gli sviluppi di una religione debbano essere presenti in nuce nel pensiero del suo fondatore). Tanto più nel caso del Buddhismo, dato che il Mahāyāna e le altre scuole di Buddhismo sviluppatesi a relativa distanza dal Buddha storico hanno adottato testi canonici diversi, sostenendo per esempio di aver ritrovato discorsi del Buddha andati perduti o non rivelati perché la gente dell'epoca non era pronta. Nello specifico, però, Chiara Neri mi suggerisce che il termine "onnisciente" (sarvajña in sanscrito) è presente e riferito al Buddha già nel Canone Theravāda, anche se solo in testi canonici tardi. Inoltre, esso è riferito al Buddha, ma il Buddha non lo dice di sé.
In generale, la discussione sul rapporto fra fede e ragione pare infiammare molto gli animi. Forse perché ci si accosta al Buddhismo con il pregiudizio positivo che esso sia una sorta di Illuminismo all'interno della cultura indiana. Poi, o se ne rimane delusi, o lo si considera comunque un miglioramento (dal momento che avrebbe sostituito a dogmi irriflessi, tipo la teoria vedica del sacrificio, altri dogmi più ragionati, come le quattro nobili verità), o si tende a difenderne l'antidogmatismo e l'apertura alla ragione umana. Per quel che vale il mio parere, però, mi chiedo se sia mai esistito un principio d'autorità dogmatico nella teoria della Parola come strumento conoscitivo. Utilizzare lo strumento conoscitivo della Parola non è infatti irrazionale, giacché è invece pienamente razionale conoscere i limiti delle proprie facoltà e approfittare di un altro strumento conoscitivo per andare oltre a tali limiti.