D'altronde, la complessità dei temi in gioco è evidenziata anche da I. quando parla, ispirandosi all'articolo di Giuliano Giustarini pubblicato in "RiSS" 1 (2006), del ruolo di śraddhā.
Se infatti è vero che il Buddha stesso paragona il proprio insegnamento a una zattera, da gettar via non appena si sia giunti sull'altra riva, è pur vero che su tale zattera si deve decidere di salire e pensare che funzioni. È perciò necessaria śraddhā, almeno inizialmente. Nel canone si trovano poi espressioni tipo saddhavimutta (corrispondente al sanscrito śraddhāvimukta), ossia "liberato tramite la fede" e si parla di fede nelle qualità del Buddha. Quindi, forse all'inizio la fede ha un ruolo preponderante, sostiene I.. In generale, prosegue I., il Buddha si muove sul filo dell'opposizione fra non dogmatismo e necessità di dare ascolto e seguire un maestro. Tale sottile filo sarebbe secondo Irene evidenziato nel Mahāparinibbānasutta, laddove il Buddha poco prima della morte dice ai suoi discepoli: «Siate una luce (dīpa), non cercate altro rifugio, avendo l'insegnamento come vostra luce». I discepoli devono quindi tenere se stessi o l'insegnamento (il dharma) come propria luce? Secondo I. il Buddha lascia volutamente aperto questo interrogativo data la duplice esigenza di mantenere l'antidogmatismo e di far sì che si dia ascolto al maestro. Inoltre, sostiene I., l'interrogativo resta aperto anche perché rispondervi non è centrale per il Buddha, dato l'atteggiamento antimetafisico che gli ha fatto rifiutare una risposta a tante altre questioni di tipo metafisico postagli da discepoli o avversari.
Su quest'ultimo punto, però, ho un'obiezione. Infatti, l'avversione alla metafisica, che ha fatto sì che il Buddha non rispondesse a molte domande che gli parevano riguardare temi non rilevanti, non mi pare c'entri in questo caso. Seguire il dharma o se stessi non è una questione astratta e puramente speculativa, bensì ha forti conseguenze pratiche.
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7 commenti:
La questione se seguire l’insegnamento, il Dhamma, o se stessi, guardando attentamente, è in realtà un falsa questione, poiché in ultima istanza l’insegnamento e colui che lo pratica, in fondo, sono la stessa cosa. Infatti, il Buddha letteralmente dice: “Abitate in voi stessi come in un’isola (dīpa), prendete rifugio in voi stessi e non in un altro! Che il Dhamma sia la vostra isola, il vostro rifugio e non altro” (attad²p± viharatha attasaraº± anaññasaraº±, dhammad²p± dhammasaraº± anaññasaraº± cfr. DN II, 100). Il fatto che la traduzione corretta del termine dīpa sia “isola” e non “lampada” si deduce dal commentario cfr. Sumaṅgalavilāsinī (II, 548).
E’ l’insegnamento, quindi, che deve essere seguito, ma in modo autonomo. Un altro esempio significativo, che racchiude un po’ l’essenza del concetto di fede nel Buddismo, è il Vīmaṃsaka-sutta (MN numero 47). In questo sutta il Buddha dice che un monaco che desidera “conoscere” dovrebbe essere in grado di esaminare le qualità di un Tathāgata e gli stati mentali che traspaiono dal suo comportamento e dalle sue parole, al fine di capire se egli sia un perfettamente risvegliato. Solo dopo questa disamina un monaco confida e sviluppa la fede nell’insegnamento e nel Tathāgata.
In conclusione, la fede nel Buddha e nel suo insegnamento è qualcosa di saldo e radicato che però affonda le sue radici in una profonda comprensione intellettuale ed esperienziale.
Continua a non essermi del tutto chiaro in che senso l'insegnamento e colui che lo pratica siano la stessa cosa. Significa forse che esiste un solo modo di praticare l'insegnamento e che quindi per questo non può esserci divergenza fra praticanti? Se così fosse, somiglierebbe alla lettura libera delle Sacre Scritture di cui parla Lutero. Libera, appunto, ma libera di essere nell'unico modo possibile, quello corretto e voluto da Dio. Mutatis mutandis, il Buddha non concepisce la possibilità di difformità dal suo insegnamento nel caso lo si pratichi davvero. Ma perché il Buddha si fida così tanto della pratica dei suoi "discepoli"? La storia del Buddhismo (come di ogni altra religione) è piena di casi di devianza. Forse la frase sull'essere un'isola è destinata solo ad allievi già tanto ben avviati sul cammino da non poter più deviare? Pure, essi non sono ancora Bodhisattva.
Difficile rispondere a questa domanda perché in realtà le scritture Canoniche non offrono molti spunti in questo senso.
Nel Mahāparinibbāna-sutta il Buddha sostiene sufficiente l’insegnamento che ha dato (prima della raccomandazione “abitate in voi stessi come un’isola, etc.” il Beato dice di non aver insegnato il Dhamma come un maestro per pochi (o come un maestro dal pugno chiuso) (ācariyamuṭṭhi), e non ritiene opportuno designare un successore che sia garante dell’ortodossia del suo insegnamento. Le parole “abitate in voi stessi come un’isola, etc.”, non sono un monito indirizzato solo ad allievi avanzati e non ad altri, piuttosto personalmente dedurrei da questo sutta che il Buddha “mettesse in conto” una sorta di “selezione naturale” in quanto dice: “Coloro che, ora e dopo la mia morte, dimoreranno come un’isola per se stessi, e prenderanno rifugio in se stessi, dimoreranno nel Dhamma come un isola e si rifugeranno in esso e non in altro, o Ānanda, coloro diverranno i monaci migliori (tamatagge) e lo saranno in virtù del desiderio di imparare (sikkhākāmā)”. Cfr. DN (II, 101)”.
Da quanto leggo e sento da colleghi buddhologi concludo che anche nel buddhismo, come in ogni altra tradizione religiosa di cui so qualcosa, il corto circuito tra fede irrazionale e razionalizzazione della stessa è irrisolvibile. Come può un non Tathaagata esaminare con cognizione di causa gli stati mentali di un Tathaagata? Come fa un non risvegliato a capire chi è perfettamente risvegliato? Mi sembra logicamente impossibile e contrario al senso comune ("It takes one to know one”). Credere che sia possibile riconoscere un Buddha o comunque qualcuno spiritualmente perfetto dalla prospettiva di una piattaforma materiale mi pare in sé un atto di fede. Se si obbiettasse che il monaco che esamina il Tathaagata non è un materialista, avendo egli desiderio di emancipazione, rispondo che in tal caso esiste già un seme di fede in lui (nel Buddha, nel canone, nel sentiero religioso ecc.) che caratterizza la sua spiritualità. Lo studio eziologico della fede scivola facilmente nel regresso infinito e nella petitio principii. Come ha mostrato Lutero, le ambiguità logiche si risolvono solo in dottrine di servo arbitrio e grazia immotivata, pur con altre conseguenze teologiche molto inquietanti. Forse la consapevolezza dell’impossibilità di una riduzione a schemi razionali della dinamica della fede religiosa può essere un livello di comprensione (filosoficamente) superiore.
Quando il Buddha nel Vīmaṃsaka-sutta propone di esaminare un Tathāgata non si pone tanto il problema di come ciò sia possibile da un punto di vista ontologico, ma probabilmente vuole invitare in modo pragmatico il suo auditorio ad essere attento e scrupoloso nella valutazione di un Risvegliato, fornendo così allo stesso tempo dei criteri di stima dello stesso e un lista delle “qualità” più importanti da raggiungere. Il Buddha risolve il problema, che viene posto da lui stesso, dell’impossibilità analizzare la mente di qualcun altro (realizzato o meno) semplicemente indicando ai monaci di esaminare le qualità di un Tathāgata investigando gli stati mentali che appaiono dal suo comportamento e dalle sue parole, capendo da quanto tempo tali stati mentali sono presenti, le motivazioni per cui costui osserva la disciplina, la sua equanimità, etc. cfr. MN (I, 318).
Invece, per rispondere alla questione “se esista già un seme di fede in chi esamina il Tathāgata perché c’è in lui un desiderio di emancipazione”, bisognerebbe forse domandarsi se esiste già un seme di fede ogni volta che si desidera stimare qualcuno e, forse, ancor prima di rispondere a questa domanda ci si dovrebbe chiedere che cosa sia la fede e qual è il significato più opportuno da dare in questo contesto a questa parola. Se per fede è da intendersi una manifestazione di interesse, più o meno profonda, verso qualcuno o qualcosa, certamente, esiste già un seme di fede in chi decide di esaminare un Tathāgata. Se, viceversa, per fede si intende il credere con convinzione assoluta in qualcuno o di qualcosa, in una prospettiva Canonica, essa è qualcosa che si sviluppa in base a dei processi progressivi di comprensione.
Per tutte le peculiari caratteristiche del concetto di fede nel Buddhismo antico, di cui si è già parlato anche nel blog, da Jayatilleke tale fede è stata definita con l’espressione, che sembra un po’ un ossimoro: “rational faith”, ma al di là di questi salutari presupposti fondati sulla ragione-comprensione, personalmente ritengo che Alessandro abbia ragione quando sostiene che in ogni sentiero religioso “la consapevolezza dell’impossibilità di una riduzione a schemi razionali della dinamica della fede religiosa può essere un livello di comprensione (filosoficamente) superiore”.
Leggo per caso questo interessante blog, che ha l’innegabile merito di far pensare…
L’insegnamento e chi lo pratica sono la stessa cosa? Forse. Verrebbe in realtà da dire che “tendono” ad essere la stessa cosa. Se si prescinde dalla dinamica del processo in divenire sarebbe ben complicato, forse prossimo all’impossibile, incontrare alcunché di affascinante. E quindi di scarsa utilità pratica, ovvero, per dirla più aulicamente, di rilevanza marginale per le nostra esistenza. Il genere umano è privo di uomini e donne compiutamente Santi, o Risvegliati. A saper guardare invece, è forse possibile un incontro con chi, lealmente, con fatica e sforzo ed errori, “tende” a ciò che, magari insegna. Che ha già percorso un pezzo di strada.
Vale la pena salire sulla zattera? Bisogna ben deciderlo… Questo mi sembra invece un falso problema. Come chiedersi se vale la pena innamorarsi di quella donna o di quell’uomo. Verrebbe da dire che solo un incontro con qualcosa o qualcuno capace di sedurre il nostro cuore, di corrispondere a ciò che di più profondo c’è in noi, sia la discriminante, il solo innesco possibile del seguire, dell’ascoltare, dello “stare con”. Le corrispondenze al nostro cuore, quando accadono, sono autoevidenti. Ci si trova sulla zattera nonostante noi. Non possiamo non seguire: sarebbe un inaccettabile, di più, un innaturale tradimento di sé. Sulla bontà dell’essere a bordo, e quindi del restare, dell’investire in sforzi, fatica, e spendere pezzi di sé, la modalità sperimentale appare essere l’unica cartina tornasole accettabile.
Il che mi porta ad un’ultima considerazione. Ragione o dogma? Ragionevolezza verrebbe da dire. E’ ragionevole? Mi piace immaginare la ragione come un occhio spalancato sulla realtà, è non come un mero strumento di misura. Come voler pesare un kilo di frutta utilizzando un metro, e conseguentemente decidere che la forza di gravità non esiste, anziché esser stimolato dal peso che avverto trasportando quella busta ad indagare, a capirne qualcosa di più. Ad usarla come misura delle cose la ragione uccide se stessa. “(…) la consapevolezza dell’impossibilità di una riduzione a schemi razionali della dinamica della fede religiosa può essere un livello di comprensione (filosoficamente) superiore” è un fatto. Purché non diventi un limite, ma, di contro, stimolo, urgenza interiore e fattivamente pragmatica. Forse non ci è possibile portare a coincidere in noi insegnamento e prassi. Sicuramente non possiamo comprendere ogni cosa. Ma abbiamo il dovere di provarci.
secondo me (ma è solo un parere personale) sdc ha ragione nel sostenere che in realtà non si decide di salire sulla zattera o meno. E sono anche personalmente d'accordo sull'analogia fra intrapresa di un cammino religioso e inizio di un rapporto sentimentale. Mi pare, però (ma su questo spero di ottenere risposte da Chiara, I. o C.P.), che l'impostazione buddhista sia diversa e che si pensi che sia possibile scegliere il Buddha come proprio maestro perché convinti dai suoi argomenti. Non ci sarebbe quindi il trovarsi sulla zattera e A PARTIRE DA tale a priori inevitabile il tentativo di comprendere quanto più possibile il senso di tale prospettiva (comprendere che deve essere tentato, come sollecita sdc), bensì la possibilità di comprendere PRIMA di salire e anzi di salire perché si è compreso.
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