Riassumento, una volta ammesso che la Parola è uno strumento autonomo per acquisire conoscenza, ossia non una specie di inferenza o di percezione auditiva, essa può essere analizzata secondo queste categorie:
1) dal punto di vista dell'autorialità
–comunicazione di un esperto. Dovremo allora chiederci come definire l'esperto e come identificarlo. Si tratta di due problemi diversi, perché oltre alla definizione a priori è necessario anche immaginare che un ascoltatore possa essere in grado di distinguere la comunicazione di un esperto da quella di un non esperto. In ogni caso, la comunicazione di un esperto può riguardare ambito epistemico o ambito deontico.
-comunicazione indipendente da un autore. In India l'esempio per eccellenza è il Veda, in Occidente possiamo pensare ai nostri codici di leggi. Ai loro autori non si chiede infatti di essere creativi, bensì di essere il più possibile trasparenti. Una legge non viene obbedita o meno a seconda che il parlamentare che l'ha proposta sia esperto o meno. Anche nel caso della comunicazione indipendente da un autore, il contenuto può teoricamente essere epistemico o deontico. Di fatto, però, l'indipendenza da un autore non intacca l'autorità deontica, mentre tende a mettere fortemente in crisi l'autorità epistemica. Secondo la mia opinione, questo avviene perché le proposizioni riguardanti ciò che deve essere non sono derivabili dai fatti. Sono quindi comunque fuori dalla portata della conoscenza umana. Al contrario, le proposizioni riguardanti fatti sono, in linea di principio, alla portata della conoscenza umana. In tal caso, quindi, chi sia la persona che ne parla diviene rilevante. Nei termini di Agostino (v. cap. 1.4), l'autorità epistemica riguarda un contenuto di cui si può dire (intelligo et) scio, mentre di un contenuto deontico si deve dire (intelligo et) credo.
2) dal punto di vista del contenuto (in termini occidentali)
-contenuto epistemico, se fornisce una nozione traducibile in termini di linguaggio descrittivo. A sua volta questo può esprimere dati di fatto (esprimibili in proposizioni di cui si possa dire che sono vere o false), o valori.
-contenuto deontico, se non fornisce nozioni, ma ordini ed è quindi esprimibile attraverso prescrizioni o imperativi.
3) dal punto di vista del contenuto (in termini indiani)
-contenuto laukika (mondano, riguardante l'esperienza ordinaria).
-contenuto alaukika (trascendente, ultraempirico).
Purtroppo la partizione 2 non è del tutto sovrapponibile a 3. Da una parte, il linguaggio descrittivo per coincidere con l'ambito laukika deve limitarsi a soli dati di fatto direttamente esperibili, dall'altra è possibile che da un punto di vista indiano esistano un aspetto laukika e uno alaukika anche all'interno del discorso prescrittivo. Infatti, in India è normale l'inclusione di discorsi che non riguardino dati di fatto all'interno dell'epistemologia ordinaria.
mercoledì 28 febbraio 2007
martedì 27 febbraio 2007
1.4 Ambiti di applicazione della Parola come strumento conoscitivo
Questo "capitolo" introduce, ancor piu' del precedente, alcune categorie generalmente estranee al pensiero generalmente "occidentale". Come dicevo all'inizio (cap. 1, "Ruolo dell'epistemologia in India") il discorso epistemologico indiano include la possibilita' di applicare l'epistemologia ad ambiti non solo di discorso descrittivo (rispondente alle categorie di vero e falso). Poiché filosofia indiana e occidentale tendono a concordare circa le sfere in cui sia possibile utilizzare percezione diretta e inferenza (in quanto questa si basa su quella), l'allargamento degli ambiti conoscibili riguarda strettamente la Parola come strumento conoscitivo. E' comunemente accettato che questa sia la chiave per accedere a contenuti conoscitivi inattingibili dalla percezione diretta (e quindi anche dall'inferenza) e detti perciò a-laukika, e le varie scuole si dividono solo circa l'importanza di tali contenuti. Quelle che mirano a negare alla Parola un valore autonomo di strumento conoscitivo considerano l'ambito alaukika come limitato a "curiosità" poco rilevanti. Al contrario, le scuole che sostengono l'importanza della Parola come strumento conoscitivo vi attribuiscono potestà più o meno esclusiva nell'ambito alaukika letto come tutto ciò che non riguarda il mondo dei fatti bruti. In particolare, il Nyaya interpreta la negazione della mondanità nella definizione di a-laukika come negazione dei dati di fatto in favore del contenuto valoriale degli stessi, mentre la Mimamsa considera la dimensione alaukika come la dimensione di ciò che potrebbe o dovrebbe essere contrapposto a ciò che è. Tali ambiti, nel caso delle scuole che negano la Parola come strumento conoscitivo sono invece attingibili tramite intuizione intellettuale, yogipratyaksa.
Ricollegandoci al nostro tema principale, le scuole che parlano del Veda come śāstra e come parola apauruṣeya sostengono anche che il Veda fornisca solo conoscenza di tipo prescrittivo. L'autorita' del Veda non e' quindi di tipo epistemico (intendendo epistemico nel senso ristretto occidentale, ossia in riferimento a un certo patrimonio di conoscenze di cui si possa facilmente dire che sono vere o false), bensi' di tipo deontico. Questo termine si riferisce a cio' che deve essere. Un esempio di autorita' deontica e non epistemica e' costituito da un ufficiale rispetto al suo esercito. I soldati possono tranquillamente pensare che il loro ufficiale sia un inetto e non credere a nessuno dei contenuti conoscitivi da lui enunciati, tuttavia gli obbediscono quando sono sul campo di battaglia. L'autorita' dell'ufficiale e' percio' deontica. Al contrario, un professore puo' avere grande autorita' epistemica rispetto ai suoi allievi, ma nessuna autorita' deontica se non riesce a farsi obbedire. Con una formula sintetica, l'autorità epistemica di cui può godere una comunicazione verbale risiede nel contenuto delle nozioni comunicate, mentre l'autorità deontica è immanente allo stesso atto in cui si comunica qualcosa. In questo senso la Mīmāṃsā potrà dire che il Veda fa conoscere un dover essere e non un significato già stabilito.
Altre scuole, soprattutto il Sāṅkhya e le scuole buddhiste, tentano di marginalizzare l'importanza della Parola come strumento conoscitivo all'interno del cammino di realizzazione da loro proposto che vuol essere sottratto all'autorità deontica e valoriale del Veda. Anche queste scuole non possono negare che ci siano ambiti non raggiungibili tramite percezione diretta e inferenza, tuttavia tentano (vedi cap. 5 per una mia valutazione sull'esito di tale tentativo) di ridurne l'impatto, con un duplice procedimento. Da una parte, queste ampliano il raggio d'azione della percezione diretta includendovi la percezione mentale (yogipratyaksa), dall'altra confinano il dominio proprio della Parola come strumento conoscitivo a temi che non hanno rilevanza né per la conoscenza empirica, né per la liberazione.
Seguiamo in concreto una di queste argomentazioni. La Mīmāṃsā afferma che solo un'autorità deontica, il Veda, può dirci cosa debba essere fatto per raggiungere una condizione di gioia, detta Paradiso (svarga). Il Nyāya spiega che il Paradiso può essere conosciuto solo tramite la Parola vedica, in questo modo ponendo come contenuto della Parola vedica un contenuto che è assieme deontico (nel senso che per ogni soggetto agente e conoscente la condizione di gioia dev'essere realizzata e non esiste indipendentemente dal suo dover essere realizzata) e valoriale (la condizione di gioia/Paradiso non è un fatto esprimibile nei termini di vero o falso). A un livello successivo, il Sāṅkhya riprende l'argomentazione del Nyāya sostenendo che la Parola come strumento conoscitivo è indispensabile per conoscere "ninfe celesti, Kuru settentrionali etc." (v. più avanti nel cap. relativo al Sāṅkhya). Si è in tal modo ontologizzato quelle che erano categorie deontiche e valoriali, rendendole così irrilevanti per il cammino verso la liberazione. Di un procedimento simile si servirà il Buddhismo.
Questioni simili sono state affrontate anche in Occidente, soprattutto riguardo alcuni passi dell'Antico Testamento. Quale attitudine adottare nei confronti di passi storici della Bibbia in cui si raccontino vicende moralmente neutre? Agostino spiega, per esempio, che non può dire di sapere (scire), né di comprendere (intelligere) cosa siano le sarabellae, di cui pure si parla nell'Antico Testamento, ma di credere anche in tante cose che non è in grado di conoscere, né di comprendere, data l'utilità per la salvezza del credere. Quale sarebbe l'attitudine di un Sāṅkhya, di un Naiyāyika, di un Mīmāṃsaka?
Ricollegandoci al nostro tema principale, le scuole che parlano del Veda come śāstra e come parola apauruṣeya sostengono anche che il Veda fornisca solo conoscenza di tipo prescrittivo. L'autorita' del Veda non e' quindi di tipo epistemico (intendendo epistemico nel senso ristretto occidentale, ossia in riferimento a un certo patrimonio di conoscenze di cui si possa facilmente dire che sono vere o false), bensi' di tipo deontico. Questo termine si riferisce a cio' che deve essere. Un esempio di autorita' deontica e non epistemica e' costituito da un ufficiale rispetto al suo esercito. I soldati possono tranquillamente pensare che il loro ufficiale sia un inetto e non credere a nessuno dei contenuti conoscitivi da lui enunciati, tuttavia gli obbediscono quando sono sul campo di battaglia. L'autorita' dell'ufficiale e' percio' deontica. Al contrario, un professore puo' avere grande autorita' epistemica rispetto ai suoi allievi, ma nessuna autorita' deontica se non riesce a farsi obbedire. Con una formula sintetica, l'autorità epistemica di cui può godere una comunicazione verbale risiede nel contenuto delle nozioni comunicate, mentre l'autorità deontica è immanente allo stesso atto in cui si comunica qualcosa. In questo senso la Mīmāṃsā potrà dire che il Veda fa conoscere un dover essere e non un significato già stabilito.
Altre scuole, soprattutto il Sāṅkhya e le scuole buddhiste, tentano di marginalizzare l'importanza della Parola come strumento conoscitivo all'interno del cammino di realizzazione da loro proposto che vuol essere sottratto all'autorità deontica e valoriale del Veda. Anche queste scuole non possono negare che ci siano ambiti non raggiungibili tramite percezione diretta e inferenza, tuttavia tentano (vedi cap. 5 per una mia valutazione sull'esito di tale tentativo) di ridurne l'impatto, con un duplice procedimento. Da una parte, queste ampliano il raggio d'azione della percezione diretta includendovi la percezione mentale (yogipratyaksa), dall'altra confinano il dominio proprio della Parola come strumento conoscitivo a temi che non hanno rilevanza né per la conoscenza empirica, né per la liberazione.
Seguiamo in concreto una di queste argomentazioni. La Mīmāṃsā afferma che solo un'autorità deontica, il Veda, può dirci cosa debba essere fatto per raggiungere una condizione di gioia, detta Paradiso (svarga). Il Nyāya spiega che il Paradiso può essere conosciuto solo tramite la Parola vedica, in questo modo ponendo come contenuto della Parola vedica un contenuto che è assieme deontico (nel senso che per ogni soggetto agente e conoscente la condizione di gioia dev'essere realizzata e non esiste indipendentemente dal suo dover essere realizzata) e valoriale (la condizione di gioia/Paradiso non è un fatto esprimibile nei termini di vero o falso). A un livello successivo, il Sāṅkhya riprende l'argomentazione del Nyāya sostenendo che la Parola come strumento conoscitivo è indispensabile per conoscere "ninfe celesti, Kuru settentrionali etc." (v. più avanti nel cap. relativo al Sāṅkhya). Si è in tal modo ontologizzato quelle che erano categorie deontiche e valoriali, rendendole così irrilevanti per il cammino verso la liberazione. Di un procedimento simile si servirà il Buddhismo.
Questioni simili sono state affrontate anche in Occidente, soprattutto riguardo alcuni passi dell'Antico Testamento. Quale attitudine adottare nei confronti di passi storici della Bibbia in cui si raccontino vicende moralmente neutre? Agostino spiega, per esempio, che non può dire di sapere (scire), né di comprendere (intelligere) cosa siano le sarabellae, di cui pure si parla nell'Antico Testamento, ma di credere anche in tante cose che non è in grado di conoscere, né di comprendere, data l'utilità per la salvezza del credere. Quale sarebbe l'attitudine di un Sāṅkhya, di un Naiyāyika, di un Mīmāṃsaka?
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martedì 20 febbraio 2007
1.3 Analisi della Parola come strumento conoscitivo
Lo strumento conoscitivo che abbiamo chiamato Parola può essere ulteriormente analizzato. Abbiamo infatti due modalità di conoscenza acquisita tramite Parola. In un caso,che può apparirci più familiare,abbiamo una persona esperta che ci comunica qualcosa. In tal caso,il contenuto della sua comunicazione è conoscenza valida proprio perché la persona è un esperto. Questo viene chiamato in sanscrito āptavacana,ossia "affermazione" (vacana) di un esperto (āpta). Capirete subito che definirlo "esperto" è riduttivo e in effetti le caratteristiche dell'apta sono triplici.
Da una parte deve conoscere ciò di cui parla, deve poi essere onesto nel riferirlo e infine, deve voler comunicare ciò che sa. Rifletteteci e scoprirete che ciascuna di queste tre caratteristiche sembra proprio indispensabile. Un eremita, seppur saggio e sincero, che non abbia alcun desiderio di insegnare ad altri ciò che sa, non è un apta, come non è un apta chi conosca la materia ma sia animato per scopi propri dalla volontà di distorcere i fatti. Infine una persona, seppur in buona fede, che non conosca ciò di cui parla non potrà comunicare conoscenza. Vedremo come questa analisi sia elaborata nel Nyaya e nella scuola epistemologica buddhista e vedremo anche quali obiezioni possano esservi mosse.
Il caso or ora esaminato è quello della Parola pronunciata da una persona, includendo nella definizione di "persona" anche Dio stesso. La Parola in questo senso è pauruseya, ossia "umana", "legata a un autore personale". C'è però un altro caso, almeno in India, ossia il Veda. Questo è il testo sacro riconosciuto da tutte le scuole filosofiche e religiose indiane,tranne Giainisti e Buddhisti. Tutte le scuole del così detto "Induismo" non pongono affatto in discussione la necessità per ognuno di eseguire i sacrifici e i rituali prescritti nel Veda. La giornata di ogni indiano delle tre classi superiori è perciò scandita da prescrizioni vediche e al Veda vengono spesso attribuite anche pratiche che hanno avuto origine successivamente. Anche gli autori di cui trattiamo fanno parte dello stesso ambito culturale e nessuno di loro discute l'autorità del Veda.
Vedremo però che questa è spiegata in maniere diverse.
Alcune scuole indiane, come il già citato Nyāya, sostengono che il Veda sia stato composto da Dio. La sua autorità deriva perciò da Dio e dunque anche il Veda è un caso di āptavacana. Altre scuole (le due Purva Mimamsa e il Vedanta) sostengono invece che non abbiamo alcun elemento per dire che il Veda sia opera di Dio. Tutto quello che abbiamo è il Veda stesso e la sua incontrastata autorità. La Parola in questa seconda accezione,dunque,non dipende da Dio né da nessun altro autore personale. Essa è strumento conoscitivo di per sé. Infatti, considerare il Veda parola di Dio, significherebbe renderlo relativo. Dio avrebbe potuto dirlo altrimenti, o non pronunciarlo affatto, e di fatto potrebbero esistere altri Veda. Si apre così la strada a relativizzare l'importanza del Veda. In effetti sulla base della considerazione del Veda come un caso di aptavacana, alcune scuole teiste hanno sostenuto che anche le proprie scritture fossero opera di Dio e che andassero quindi considerate alla stregua del Veda. L'unico modo per salvaguardare l'unicità del Veda è quindi quello di collocarlo su tutt'altro livello. Fra l'altro, far dipendere l'autorità del Veda da Dio significa di fatto abbassare il Veda al rango di autorità secondaria, derivata. La Mīmāṃsā spiegherà perciò che la parola vedica è apauruṣeya, ossia "non umana","non legata a un autore personale". È un'autorità completamente a priori.
Quanto ho appena detto potrebbe contrastare con la premessa generale che ho svolto, riguardo la maggiore propensione all'esperienza della filosofia indiana. Pensate però a quanto sopra detto circa la centralità del Veda nella vita quotidiana in India. Esso è centrale per tutti, siano essi teisti o no. Alcuni potranno rispettarlo in quanto parola di Dio, ma di fatto la sua autorità non deriva da ciò. La sua autorità c'è e basta, e c'è da sempre. La filosofia indiana, che mira a spiegare i dati, non può evitare questo dato di fatto. La Parola intesa come strumento conoscitivo che non deriva la propria autorità da un autore, è detta anche śāstra, ossia "insegnamento".
Questo secondo modo di intendere la Parola come strumento conoscitivo può apparire piuttosto estraneo alla nostra tradizione. Si rifletta però se non esistano casi simili anche in Occidente, per esempio i codici di leggi. Anche in questi casi, il valore delle leggi non dipende affatto da chi le ha formulate, che potrebbe essere un deputato inetto o ignorante, e che comunque non ha alcuna voce in capitolo per quanto attiene l'interpretazione delle norme. Quello che vorrei suggerire è che non è affatto detto che con apauruṣeya si intenda "senza nessun autore" in senso stretto. Potrebbe invece essere inteso come "non dipendente da un autore" in riferimento al suo essere strumento conoscitivo. L'autore potrebbe anche esserci, ma sarebbe solo un accidente, non un elemento costitutivo dell'autorità del testo in questione. Secondo un'altra interpretazione dello stesso concetto di apauruṣeyatva, l'autorità del contenuto sovrasta il parlante stesso.
Ringrazio alcuni studenti per avermi fatto riflettere su altri esempi di autorità indipendente da un autore. In particolare, l'esempio citato dell'opinione comune merita riflessione ulteriore. In India alcune scuole filosofiche minori parlano in proposito di uno strumento conoscitivo ad hoc, detto "tradizione" e che incorpora tutti i casi del tipo "si dice che le arance facciano bene" o "una mela al giorno leva il medico di torno". I massimi difensori della Parola indipendente da un autore (i Mīmāṃsaka), però, rifiutano questo strumento conoscitivo perché spesso si rivela inaffidabile, a meno che non si possa verificare l'affidabilità di chi parla (e allora tornerebbe a essere un caso di Parola come strumento conoscitivo perché pronunciata da un esperto). Si è parlato anche del caso del diritto naturale. Un esempio interessante, perché rafforza l'impressione che la normatività possa esistere a prescindere da un autore. Tuttavia non si tratta in senso stretto di Parola in quanto strumento conoscitivo perché la Parola si configura sempre come una comunicazione verbale (o scritta, ma comunque attraverso il medium del linguaggio).
Da una parte deve conoscere ciò di cui parla, deve poi essere onesto nel riferirlo e infine, deve voler comunicare ciò che sa. Rifletteteci e scoprirete che ciascuna di queste tre caratteristiche sembra proprio indispensabile. Un eremita, seppur saggio e sincero, che non abbia alcun desiderio di insegnare ad altri ciò che sa, non è un apta, come non è un apta chi conosca la materia ma sia animato per scopi propri dalla volontà di distorcere i fatti. Infine una persona, seppur in buona fede, che non conosca ciò di cui parla non potrà comunicare conoscenza. Vedremo come questa analisi sia elaborata nel Nyaya e nella scuola epistemologica buddhista e vedremo anche quali obiezioni possano esservi mosse.
Il caso or ora esaminato è quello della Parola pronunciata da una persona, includendo nella definizione di "persona" anche Dio stesso. La Parola in questo senso è pauruseya, ossia "umana", "legata a un autore personale". C'è però un altro caso, almeno in India, ossia il Veda. Questo è il testo sacro riconosciuto da tutte le scuole filosofiche e religiose indiane,tranne Giainisti e Buddhisti. Tutte le scuole del così detto "Induismo" non pongono affatto in discussione la necessità per ognuno di eseguire i sacrifici e i rituali prescritti nel Veda. La giornata di ogni indiano delle tre classi superiori è perciò scandita da prescrizioni vediche e al Veda vengono spesso attribuite anche pratiche che hanno avuto origine successivamente. Anche gli autori di cui trattiamo fanno parte dello stesso ambito culturale e nessuno di loro discute l'autorità del Veda.
Vedremo però che questa è spiegata in maniere diverse.
Alcune scuole indiane, come il già citato Nyāya, sostengono che il Veda sia stato composto da Dio. La sua autorità deriva perciò da Dio e dunque anche il Veda è un caso di āptavacana. Altre scuole (le due Purva Mimamsa e il Vedanta) sostengono invece che non abbiamo alcun elemento per dire che il Veda sia opera di Dio. Tutto quello che abbiamo è il Veda stesso e la sua incontrastata autorità. La Parola in questa seconda accezione,dunque,non dipende da Dio né da nessun altro autore personale. Essa è strumento conoscitivo di per sé. Infatti, considerare il Veda parola di Dio, significherebbe renderlo relativo. Dio avrebbe potuto dirlo altrimenti, o non pronunciarlo affatto, e di fatto potrebbero esistere altri Veda. Si apre così la strada a relativizzare l'importanza del Veda. In effetti sulla base della considerazione del Veda come un caso di aptavacana, alcune scuole teiste hanno sostenuto che anche le proprie scritture fossero opera di Dio e che andassero quindi considerate alla stregua del Veda. L'unico modo per salvaguardare l'unicità del Veda è quindi quello di collocarlo su tutt'altro livello. Fra l'altro, far dipendere l'autorità del Veda da Dio significa di fatto abbassare il Veda al rango di autorità secondaria, derivata. La Mīmāṃsā spiegherà perciò che la parola vedica è apauruṣeya, ossia "non umana","non legata a un autore personale". È un'autorità completamente a priori.
Quanto ho appena detto potrebbe contrastare con la premessa generale che ho svolto, riguardo la maggiore propensione all'esperienza della filosofia indiana. Pensate però a quanto sopra detto circa la centralità del Veda nella vita quotidiana in India. Esso è centrale per tutti, siano essi teisti o no. Alcuni potranno rispettarlo in quanto parola di Dio, ma di fatto la sua autorità non deriva da ciò. La sua autorità c'è e basta, e c'è da sempre. La filosofia indiana, che mira a spiegare i dati, non può evitare questo dato di fatto. La Parola intesa come strumento conoscitivo che non deriva la propria autorità da un autore, è detta anche śāstra, ossia "insegnamento".
Questo secondo modo di intendere la Parola come strumento conoscitivo può apparire piuttosto estraneo alla nostra tradizione. Si rifletta però se non esistano casi simili anche in Occidente, per esempio i codici di leggi. Anche in questi casi, il valore delle leggi non dipende affatto da chi le ha formulate, che potrebbe essere un deputato inetto o ignorante, e che comunque non ha alcuna voce in capitolo per quanto attiene l'interpretazione delle norme. Quello che vorrei suggerire è che non è affatto detto che con apauruṣeya si intenda "senza nessun autore" in senso stretto. Potrebbe invece essere inteso come "non dipendente da un autore" in riferimento al suo essere strumento conoscitivo. L'autore potrebbe anche esserci, ma sarebbe solo un accidente, non un elemento costitutivo dell'autorità del testo in questione. Secondo un'altra interpretazione dello stesso concetto di apauruṣeyatva, l'autorità del contenuto sovrasta il parlante stesso.
Ringrazio alcuni studenti per avermi fatto riflettere su altri esempi di autorità indipendente da un autore. In particolare, l'esempio citato dell'opinione comune merita riflessione ulteriore. In India alcune scuole filosofiche minori parlano in proposito di uno strumento conoscitivo ad hoc, detto "tradizione" e che incorpora tutti i casi del tipo "si dice che le arance facciano bene" o "una mela al giorno leva il medico di torno". I massimi difensori della Parola indipendente da un autore (i Mīmāṃsaka), però, rifiutano questo strumento conoscitivo perché spesso si rivela inaffidabile, a meno che non si possa verificare l'affidabilità di chi parla (e allora tornerebbe a essere un caso di Parola come strumento conoscitivo perché pronunciata da un esperto). Si è parlato anche del caso del diritto naturale. Un esempio interessante, perché rafforza l'impressione che la normatività possa esistere a prescindere da un autore. Tuttavia non si tratta in senso stretto di Parola in quanto strumento conoscitivo perché la Parola si configura sempre come una comunicazione verbale (o scritta, ma comunque attraverso il medium del linguaggio).
1.2 La Parola come strumento per acquisire conoscenza
La vera controversia si accende perciò intorno al terzo mezzo per acquisire conoscenza, ossia la comunicazione, la Parola. Se riflettiamo in proposito, ci rendiamo facilmente conto che la maggior parte delle nostre conoscenze ci deriva in realtà da quanto abbiamo letto o udito. Nessuno di noi è mai in grado di ricostruire da solo un edificio conoscitivo, dipendiamo continuamente da quanto abbiamo appreso. Anche nel momento in cui cominciamo a mettere in dubbio, non possiamo evitare di farlo a partire da ipotesi che abbiamo acquisito, oltre che da un linguaggio, che è la forma stessa del nostro pensiero e che abbiamo appreso da altri.
Abbiamo così individuato alcuni importanti punti di demarcazione fra filosofia indiana e occidentale. Quest'ultima, come vedevamo prima, se non altro a partire dal Cinquecento (Bacone, Cartesio, Newton, l'Illuminismo...) vede con sfavore le conoscenze acquisite di seconda mano e persegue spesso l'utopico progetto di una fondazione autonoma del sapere. Qui ci riconnettiamo con la maggiore base empirica, quotidiana, della filosofia indiana, che da questo punto di vista è molto più legata a spiegare i dati di fatto invece di immaginare scenari diversi. La filosofia indiana, dunque, non nega l'inevitabilità della conoscenza acquisita attraverso parole, piuttosto alcune scuole negano l'irriducibilità della Parola come strumento conoscitivo. Tali scuole (la scuola epistemologica buddhista e il Vaisesika) sostengono infatti che anche la Parola intesa come strumento conoscitivo si basi in realtà su un'inferenza. Io credo che x perché me lo dice la persona Y. Inferisco dunque la correttezza di x sulla base dell'affidabilità di Y. Le altre scuole (Sāṅkhya, Nyāya, Vedānta, Mīmāṃsā) si oppongono a tale posizione, sia nel merito sia nel metodo. Queste sostengono al contrario che la Parola sia uno strumento a sé e che tale inferenza sia solo, al più, una costruzione a posteriori, che non rende conto dell'immediatezza con cui, nel sentire Y dire che x, noi formiamo in noi la credenza x. Per quanto riguarda il metodo, poi, si sostiene che l'inferenza attraverso l'affidabilità della persona che parla, presenti delle fallacie. Analizzeremo in dettaglio critiche e repliche, ma per ora restiamo ancora sui termini generali della questione. Sostenere che la Parola sia uno strumento conoscitivo indipendente e irriducibile all'inferenza significa considerare che la comunicazione verbale (ossia mediante frasi) sia un qualcosa di peculiare e diverso da altri modi di comunicazione indiretta, che rientrerebbero nell'inferenza. Se un cartello stradale rappresenta una freccia bianca, per esempio, io ne inferisco che è possibile svoltare nella direzione della freccia. Questo non rappresenta un caso di Parola come strumento conoscitivo ed è infatti facilmente ricostruibile come un'inferenza (sulla struttura dell'inferenza in India si veda infra, il cap. 3.5 sulla controversia in merito fra Nyāya e Vaiśeṣika). I sostenitori della Parola come strumento conoscitivo sostengono che invece nel suo caso non ci sia bisogno di un passaggio inferenziale e che comunque, se anche ci fosse, un passaggio intermedio non potrebbe essere costruito in forma inferenziale.
Abbiamo così individuato alcuni importanti punti di demarcazione fra filosofia indiana e occidentale. Quest'ultima, come vedevamo prima, se non altro a partire dal Cinquecento (Bacone, Cartesio, Newton, l'Illuminismo...) vede con sfavore le conoscenze acquisite di seconda mano e persegue spesso l'utopico progetto di una fondazione autonoma del sapere. Qui ci riconnettiamo con la maggiore base empirica, quotidiana, della filosofia indiana, che da questo punto di vista è molto più legata a spiegare i dati di fatto invece di immaginare scenari diversi. La filosofia indiana, dunque, non nega l'inevitabilità della conoscenza acquisita attraverso parole, piuttosto alcune scuole negano l'irriducibilità della Parola come strumento conoscitivo. Tali scuole (la scuola epistemologica buddhista e il Vaisesika) sostengono infatti che anche la Parola intesa come strumento conoscitivo si basi in realtà su un'inferenza. Io credo che x perché me lo dice la persona Y. Inferisco dunque la correttezza di x sulla base dell'affidabilità di Y. Le altre scuole (Sāṅkhya, Nyāya, Vedānta, Mīmāṃsā) si oppongono a tale posizione, sia nel merito sia nel metodo. Queste sostengono al contrario che la Parola sia uno strumento a sé e che tale inferenza sia solo, al più, una costruzione a posteriori, che non rende conto dell'immediatezza con cui, nel sentire Y dire che x, noi formiamo in noi la credenza x. Per quanto riguarda il metodo, poi, si sostiene che l'inferenza attraverso l'affidabilità della persona che parla, presenti delle fallacie. Analizzeremo in dettaglio critiche e repliche, ma per ora restiamo ancora sui termini generali della questione. Sostenere che la Parola sia uno strumento conoscitivo indipendente e irriducibile all'inferenza significa considerare che la comunicazione verbale (ossia mediante frasi) sia un qualcosa di peculiare e diverso da altri modi di comunicazione indiretta, che rientrerebbero nell'inferenza. Se un cartello stradale rappresenta una freccia bianca, per esempio, io ne inferisco che è possibile svoltare nella direzione della freccia. Questo non rappresenta un caso di Parola come strumento conoscitivo ed è infatti facilmente ricostruibile come un'inferenza (sulla struttura dell'inferenza in India si veda infra, il cap. 3.5 sulla controversia in merito fra Nyāya e Vaiśeṣika). I sostenitori della Parola come strumento conoscitivo sostengono che invece nel suo caso non ci sia bisogno di un passaggio inferenziale e che comunque, se anche ci fosse, un passaggio intermedio non potrebbe essere costruito in forma inferenziale.
1.1 I mezzi per acquisire conoscenza
Un discorso epistemologico è presente all'esordio di qualsiasi trattato in India, a proposito di architettura o di grammatica o di qualunque altro argomento. Ciò perché l'epistemologia ha maglie abbastanza larghe da poter fondare discorsi di vario ambito e di diverso grado di certezza (diremmo in Occidente). Non c'è una distinzione a priori fra scienza e prassi, fra medicina e culinaria come nella Repubblica di Platone. All'inizio di ogni trattato ci si interroga infatti su quali siano i mezzi epistemici tramite i quali si è giunti alle conclusioni racchiuse nel trattato stesso. Fra i mezzi per acquisire conoscenza il primo in tutti gli elenchi è la percezione sensibile, accettata da tutte le scuole (tranne pochi scettici). Segue l'inferenza, nome che è più o meno largamente interpretato dalle varie scuole, ma che in generale indica il procedimento tramite cui partendo da una premessa
apossiamo giungere a una conseguenzab,pur senza aver acquisito ulteriori dati sensibili. L'esempio più citato è questo: Sulla montagna c'è fuoco perché c'è fumo. Come vedete, un esempio empirico, tratto dall'esperienza quotidiana e che non
costituisce un esempio di deduzione a priori (Uno dei problemi dell'inferenza aristotelica è il fatto che non esclude conseguenze formalmente corrette ma che non si danno nella realtà, del tipo "Tutti coloro che abitano in case sono mammiferi, i marziani abitano in case, i marziani sono mammiferi". Al contrario, l'inferenza indiana scarta gli insiemi vuoti fra i suoi membri). Anche questo mezzo conoscitivo è accettato da quasi tutte le scuole, tranne alcuni materialisti che pretendono di fondare tutto sulla percezione sensibile.
apossiamo giungere a una conseguenzab,pur senza aver acquisito ulteriori dati sensibili. L'esempio più citato è questo: Sulla montagna c'è fuoco perché c'è fumo. Come vedete, un esempio empirico, tratto dall'esperienza quotidiana e che non
costituisce un esempio di deduzione a priori (Uno dei problemi dell'inferenza aristotelica è il fatto che non esclude conseguenze formalmente corrette ma che non si danno nella realtà, del tipo "Tutti coloro che abitano in case sono mammiferi, i marziani abitano in case, i marziani sono mammiferi". Al contrario, l'inferenza indiana scarta gli insiemi vuoti fra i suoi membri). Anche questo mezzo conoscitivo è accettato da quasi tutte le scuole, tranne alcuni materialisti che pretendono di fondare tutto sulla percezione sensibile.
1. Ruolo dell'epistemologia in India
Parleremo del ruolo della Parola nella filosofia indiana all'interno di una cornice epistemologica, perché tale è l'approccio indiano al problema. Infatti (chiedo scusa anticipatamente per le semplificazioni brutali) in Occidente il percorso in direzione della conquista di una conoscenza veramente certa ha fatto sì che si purificasse la conoscenza da opinioni infondate, credenze, pregiudizi etc.. Spesso questo porta a concludere che dell'intero deposito delle conoscenze comuni e degli esperti,ben poco possa esser salvato e sia necessaria una radicale rifondazione.
Al contrario, in India l'epistemologia non perde la propria base dichiaratamente empirica,da senso comune. L'indagine epistemologica,specie delle scuole che si rifanno al Veda (vedremo come le scuole buddhiste siano più estremiste), si confronta continuamente con esempi e controesempi tratti dalla comunicazione e dall'esperienza ordinaria. Suo scopo principale è spiegare i meccanismi tramite i quali di fatto noi acquisiamo conoscenza. Si mira perciò a giustificare il nostro
patrimonio di conoscenza più che a gettarlo a mare e ricostituirlo su basi più salde.
Allo stesso tempo, l'ambito dell'epistemologia si allarga anche sul versante opposto, ossia a tutti i contenuti conoscitivi che non si configurano come dati di fatto. L'epistemogia in India si applica per esempio all'ambito dei valori (intesi come diversi dai "fatti"; un esempio di valore è il concetto di bello, non a caso considerato al di fuori dell'ambito della conoscenza certa in Occidente). Anzi, in genere, le principali scuole filosofiche (si pensi all'esordio del Nyaya-sutra) presentano l'indagine sui fatti come premessa per un'indagine valoriale consapevole. Si dice percio' nel Nyaya-sutra che bisogna conoscere rettamente un oggetto per poi poter decidere se esso vada perseguito o evitato.
L'epistemologia si applica inoltre al discorso non descrittivo bensì prescrittivo. Questo si differenzia dal primo perche' ingiunge un'azione invece di descrivere un fatto. Si pensi per esempio a "La mucca e' legata" e "Lega la mucca!". Nel primo caso possiamo facilmente verificare se la proposizione sia vera o falsa. Nel secondo, invece, la questione e' piu' complessa. Alcuni filosofi hanno proposto che anche a questo tipo di proposizioni siano applicabili i criteri di vero e falso (cosi' Stig Kanger, che propone di interpretare vero e falso in ambito prescrittivo avendo come punto di riferimento il "regno dei fini" kantiano), ma intuitivamente ci si rende ben conto che "Lega la mucca!" non puo' essere falsa nello stesso modo in cui puo' esserlo "la mucca e' legata".
In generale, l'epistemologia indiana contempla la possibilità di un proprio uso mondano (laukika) o ultramondano, trascendente (alaukika, si pensi al neotestamentario invisibilia), a seconda che a essere oggetto di indagine siano fatti esperibili o meno.
Al contrario, in India l'epistemologia non perde la propria base dichiaratamente empirica,da senso comune. L'indagine epistemologica,specie delle scuole che si rifanno al Veda (vedremo come le scuole buddhiste siano più estremiste), si confronta continuamente con esempi e controesempi tratti dalla comunicazione e dall'esperienza ordinaria. Suo scopo principale è spiegare i meccanismi tramite i quali di fatto noi acquisiamo conoscenza. Si mira perciò a giustificare il nostro
patrimonio di conoscenza più che a gettarlo a mare e ricostituirlo su basi più salde.
Allo stesso tempo, l'ambito dell'epistemologia si allarga anche sul versante opposto, ossia a tutti i contenuti conoscitivi che non si configurano come dati di fatto. L'epistemogia in India si applica per esempio all'ambito dei valori (intesi come diversi dai "fatti"; un esempio di valore è il concetto di bello, non a caso considerato al di fuori dell'ambito della conoscenza certa in Occidente). Anzi, in genere, le principali scuole filosofiche (si pensi all'esordio del Nyaya-sutra) presentano l'indagine sui fatti come premessa per un'indagine valoriale consapevole. Si dice percio' nel Nyaya-sutra che bisogna conoscere rettamente un oggetto per poi poter decidere se esso vada perseguito o evitato.
L'epistemologia si applica inoltre al discorso non descrittivo bensì prescrittivo. Questo si differenzia dal primo perche' ingiunge un'azione invece di descrivere un fatto. Si pensi per esempio a "La mucca e' legata" e "Lega la mucca!". Nel primo caso possiamo facilmente verificare se la proposizione sia vera o falsa. Nel secondo, invece, la questione e' piu' complessa. Alcuni filosofi hanno proposto che anche a questo tipo di proposizioni siano applicabili i criteri di vero e falso (cosi' Stig Kanger, che propone di interpretare vero e falso in ambito prescrittivo avendo come punto di riferimento il "regno dei fini" kantiano), ma intuitivamente ci si rende ben conto che "Lega la mucca!" non puo' essere falsa nello stesso modo in cui puo' esserlo "la mucca e' legata".
In generale, l'epistemologia indiana contempla la possibilità di un proprio uso mondano (laukika) o ultramondano, trascendente (alaukika, si pensi al neotestamentario invisibilia), a seconda che a essere oggetto di indagine siano fatti esperibili o meno.
0. Perché parlare di Parola come fondamento della filosofia?
Ho scelto questo tema per due ordini di motivi. Anzitutto, perché, sebbene non ce ne accorgiamo, è tramite la Parola (maiuscolo per indicare la Parola come comunicazione di contenuto conoscitivo e non solo un singolo vocabolo) come strumento conoscitivo che abbiamo appreso la più parte delle nostre nozioni. Conosciamo il nostro nome, chi siano i nostri genitori, la nostra data di nascita e tanti particolari circa la nostra infanzia, perché ci sono stati raccontati. Deriva da una comunicazione verbale la stessa presunzione della nostra identità, che non è affatto un dato scontato e che ci deriva da quanto altri ci hanno raccontato (non hanno percezione della propria identità i bambini piccoli, cui non è ancora stato insegnato). A scuola, dai giornali, all'università, tramite libri o televisione o computer abbiamo incamerato milioni di nozioni, senza verificarle di prima mano. Non mettiamo in dubbio la geografia e la storia, per esempio, sebbene queste si basino su quanto altri ci dicono esistere o essere esistito in luoghi o tempi che sfuggono alla nostra indagine diretta. La scienza procede ormai attraverso gruppi di ricerca in cui ogni ricercatore si occupa di una fase e si basa per il resto su quanto riferito dai suoi colleghi, magari tramite grafici o statistiche, ma comunque senza verificarlo di prima mano. Sul piano della vita quotidiana, poi, la posizione scettica di chi volesse semplicemente non fidarsi di quanto gli viene detto, porta a un'assoluta paralisi. Provate a immaginare se doveste verificare ogni informazione, dall'ora che appare sulla sveglia quando vi svegliate al nome della via scritto sulla targa di marmo, alla destinazione dell'autobus... Troppe informazioni che non faremmo mai a tempo a verificare o che, anche volendo, non potremmo verificare (si pensi all'onomastica, per cui sembra difficile poter risalire a un momento fondante indipendente da quanto viene detto o riferito).In breve, per esprimere in modo chiaro la mia posizione, secondo me la Parola (intesa come ciò che apprendiamo perché ci viene detto o letto) è alla base del nostro patrimonio conoscitivo. Vedremo che alcune scuole filosofiche indiane e occidentali tentano di contestare quest'assunto e ci tengo a mettere in chiaro la mia posizione di modo da non influenzarvi in modo sottile e impercettibile.
Ma la Parola non è solo importante quanto alla mole di informazioni ottenute per suo tramite (lo squilibrio fra quanto conosciamo perché ci viene detto e quanto acquisiamo direttamente,tramite percezione o inferenza è clamoroso).
Essa è anche fondamentale, in senso proprio. In Occidente siamo abituati a pensare che al fondamento della nostra conoscenza possa essere la conoscenza di prima mano, ottenuta tramite percezione sensibile. Ma questa è limitata nello spazio e nel tempo. Inoltre, essa è spesso condizionata dalla Parola. Proviamo a immaginare di camminare in un bosco. Se conosciamo gli alberi, siamo in grado di vedere che vi sono querce, faggi e noci. Se invece nessuno ce lo ha mai detto, vedremo semplicemente degli "alberi". Non si tratta solo di non conoscerne il nome. Se nessuno ci ha reso attenti alle particolari forme delle foglie, per esempio, noi semplicemente non siamo in grado di distinguerle e percepirle.
Questo sull'importanza della Parola in genere, per quanto riguarda il corso di religioni e filosofie dell'India in particolare, poi, aggiungo che la Parola è stata presa in considerazione da tutte le scuole filosofiche indiane. Alcune l'hanno avversata strenuamente, magari sostenendo una posizione scettica, ma tutte si sono dovute confrontare con questa. Perciò, la Parola è stata oggetto di analisi e riflessioni costanti. Al contrario, in Occidente indagini riguardanti la Parola esistono ma restano piuttosto slegate (si parla di principio di autorità, di validità della storia, di testimonianza, di Testi Sacri...). Quindi, la Parola offre un'occasione interessante per osservare come si sviluppino polemiche e discussioni all'interno delle scuole filosofiche e religiose indiane. E allo stesso tempo essa costituisce un ambito in cui la filosofia indiana può offrire alla filosofia occidentale strumenti di analisi più elaborati e raffinati. Mentre di solito la filosofia indiana ha offerto a quella occidentale spunti e soluzioni a problemi particolari, prendendone viceversa in prestito intere categorie, in questo caso si tratterebbe di valutare l'esperimento di trasferire alla filosofia occidentale un paradigma di riferimento di quella indiana.
Ma la Parola non è solo importante quanto alla mole di informazioni ottenute per suo tramite (lo squilibrio fra quanto conosciamo perché ci viene detto e quanto acquisiamo direttamente,tramite percezione o inferenza è clamoroso).
Essa è anche fondamentale, in senso proprio. In Occidente siamo abituati a pensare che al fondamento della nostra conoscenza possa essere la conoscenza di prima mano, ottenuta tramite percezione sensibile. Ma questa è limitata nello spazio e nel tempo. Inoltre, essa è spesso condizionata dalla Parola. Proviamo a immaginare di camminare in un bosco. Se conosciamo gli alberi, siamo in grado di vedere che vi sono querce, faggi e noci. Se invece nessuno ce lo ha mai detto, vedremo semplicemente degli "alberi". Non si tratta solo di non conoscerne il nome. Se nessuno ci ha reso attenti alle particolari forme delle foglie, per esempio, noi semplicemente non siamo in grado di distinguerle e percepirle.
Questo sull'importanza della Parola in genere, per quanto riguarda il corso di religioni e filosofie dell'India in particolare, poi, aggiungo che la Parola è stata presa in considerazione da tutte le scuole filosofiche indiane. Alcune l'hanno avversata strenuamente, magari sostenendo una posizione scettica, ma tutte si sono dovute confrontare con questa. Perciò, la Parola è stata oggetto di analisi e riflessioni costanti. Al contrario, in Occidente indagini riguardanti la Parola esistono ma restano piuttosto slegate (si parla di principio di autorità, di validità della storia, di testimonianza, di Testi Sacri...). Quindi, la Parola offre un'occasione interessante per osservare come si sviluppino polemiche e discussioni all'interno delle scuole filosofiche e religiose indiane. E allo stesso tempo essa costituisce un ambito in cui la filosofia indiana può offrire alla filosofia occidentale strumenti di analisi più elaborati e raffinati. Mentre di solito la filosofia indiana ha offerto a quella occidentale spunti e soluzioni a problemi particolari, prendendone viceversa in prestito intere categorie, in questo caso si tratterebbe di valutare l'esperimento di trasferire alla filosofia occidentale un paradigma di riferimento di quella indiana.
GEN.: Commenti
Prima dell'inizio delle lezioni ho mostrato il programma come l'ho pubblicato qui ad alcuni conoscenti e amici (una dottoranda in filosofia, due professori di filosofia, uno di materie indologiche...). Tutti mi hanno risposto entusiasticamente. Sarà vero? Attendo verifiche da studenti e lettori occasionali.
GEN.: Valutazione
L'organizzazione del corso richiede la frequenza (almeno 6 incontri su 10) e la partecipazione attiva di studentesse e studenti,secondo le loro diverse capacità e possibilità. Durante il corso le studentesse e gli studenti saranno tenuti a riferire
in classe su argomenti a loro scelta e tali interventi sostituiranno in tutto o in parte l'esame finale. Chi non frequenta è perciò pregato di concordare un programma a parte.
Resto a vostra disposizione per domande o problemi di ogni sorta.
in classe su argomenti a loro scelta e tali interventi sostituiranno in tutto o in parte l'esame finale. Chi non frequenta è perciò pregato di concordare un programma a parte.
Resto a vostra disposizione per domande o problemi di ogni sorta.
Piano delle lezioni
1 Piano delle lezioni
i) Introduzione sul tema di questo corso, sul ruolo dell'epistemologia in India,sullo status della Parola nell'epistemologia indiana e su come essa venga analizzata.
ii) Le scuole filosofiche indiane che accettano la Parola come strumento epistemico purché pronunciata da persona esperta e affidabile (Nyaya e Sankhya).
iii) Le scuole filosofiche indiane che accettano la Parola come strumento epistemico identificandola con l'autorità impersonale dei testi sacri (Bhatta Mimamsa e Prabhakara Mimamsa).
iv) Le scuole filosofiche indiane che negano il valore epistemico della Parola, riconducendola a un caso di inferenza (Scuola epistemologica buddhista o Pramanavada, Vaisesika).
v) Veramente la Parola è riconducibile come strumento epistemico all'inferenza? Le repliche delle scuole che sostengono il valore indipendente della parola.
vi) E'possibile applicare le categorie finora incontrate allo studio dei filosofi occidentali che si sono occupati di temi simili?Trattamento sperimentale delle tesi di Michael Dummett,Hans-Georg Gadamer,Thomas Reid.
i) Introduzione sul tema di questo corso, sul ruolo dell'epistemologia in India,sullo status della Parola nell'epistemologia indiana e su come essa venga analizzata.
ii) Le scuole filosofiche indiane che accettano la Parola come strumento epistemico purché pronunciata da persona esperta e affidabile (Nyaya e Sankhya).
iii) Le scuole filosofiche indiane che accettano la Parola come strumento epistemico identificandola con l'autorità impersonale dei testi sacri (Bhatta Mimamsa e Prabhakara Mimamsa).
iv) Le scuole filosofiche indiane che negano il valore epistemico della Parola, riconducendola a un caso di inferenza (Scuola epistemologica buddhista o Pramanavada, Vaisesika).
v) Veramente la Parola è riconducibile come strumento epistemico all'inferenza? Le repliche delle scuole che sostengono il valore indipendente della parola.
vi) E'possibile applicare le categorie finora incontrate allo studio dei filosofi occidentali che si sono occupati di temi simili?Trattamento sperimentale delle tesi di Michael Dummett,Hans-Georg Gadamer,Thomas Reid.
Presentazione del corso II semestre 2006-2007
A partire dall'esordio degli studi sul Sudasia, abbiamo assistito a vari tipi di approccio. Prendo qui in considerazione in particolare due tipi di dinamiche, che riassumo secondo le loro direttrici ideali, ossia "dall'Occidente verso l'India" e "dentro l'India". Nel primo caso, si è tentato di studiare il Sudasia utilizzando categorie tipiche del panorama culturale occidentale. Si sono così solidificati paradigmi come quello di "induismo" (che, conseguentemente, è stato detto "politeista"). A un livello teorico più raffinato, è in quest'ottica che alcuni filosofi di tradizione anglosassone si sono avvicinati alla scuola indiana della Nuova Logica, che pareva loro più simile al proprio modo di fare filosofia. Alla Nuova Logica si è chiesto di offrire risposte ai quesiti rimasti insoluti in Occidente.
A questo primo periodo ne è seguito uno successivo di presa di distanza da un approccio metodologico considerato troppo ingenuo perché troppo eurocentrico. E' il periodo inaugurato dal saggio Orientalism di Edward Said, in cui si stigmatizzava un'idea dell'Oriente creata a uso e consumo delle proiezioni di sé occidentali. In questo corso tenterò un esperimento diverso, "dall'India verso l'Occidente", ossia considerare un argomento della tradizione filosofica occidentale alla luce dei paradigmi elaborati dalla filosofia indiana. Tale procedimento inverso si giustifica perché l'argomento che tratterò è stato oggetto di esami più sistematici nella filosofia indiana. Analizzare perciò testi occidentali in tale ottica può permettere di riconoscere somiglianze di famiglia prima insospettate e allo stesso tempo consente di porre in luce le differenze fra approccio occidentale e indiano. Quest'ultimo punto mi pare importante perché è in base a casi come questo che lo studio della filosofia indiana assume senso autonomo per i filosofi occidentali, che invece di trovarvi (solo) nuove risposte alle proprie domande possono rintracciarvi paradigmi e punti di vista originali.
Parlerò infatti della comunicazione verbale, nei suoi vari aspetti, e del suo ruolo nella costruzione filosofica. In particolare,
1) Una lezione preliminare sarà dedicata al ruolo dell'epistemologia in India. Ogni discorso, anche valoriale passa attraverso categorie epistemologiche. D'altra parte, questo significa che l'epistemologia è abbastanza elastica da poter prestare i propri strumenti a discussioni di tema etico, religioso etc. A partire da queste parole, probabilmente si potrebbe pensare a quello che in Occidente è stato Spinoza con la sua \textit{Ethica}. Ma nel caso indiano non sono tanto teologia etc. a conformarsi alla logica, quanto quest'ultima a non confinarsi alle così dette discipline analitiche. Dopo questa premessa spero sia chiaro perché la comunicazione verbale è vista anzitutto come strumento epistemico. La seconda parte della lezione sarà dedicata alle categorie con cui la filosofia indiana affronta il tema della comunicazione verbale, ossia autorialità e non autorialità, distinzione tra ambito epistemico e ambito deontico etc.
2) Alcune lezioni saranno dedicate al modo in cui le principali scuole della filosofia indiana si sono occupate di comunicazione verbale. Anzitutto parlerò della posizione del Nyaya, per cui la comunicazione verbale è accettata in quanto pronunciata da un esperto, e del Sankhya (che poco si differenzia dalla prima). Accennerò a cosa questo comporti nel rapporto con le Sacre Scritture, i Veda, che quindi hanno autorità, ma solo in quanto pronunciati da Dio. In base a ciò, è anche sempre possibile che la Rivelazione continui e di questo principio si sono effettivamente servite varie scuole per legittimare i propri testi sacri.
3) Parlerò qui della posizione della Bhattamimamsa, per cui la comunicazione di un esperto è accettata, ma riveste un ruolo secondario rispetto a quello della Parola vedica, e della Prabhakaramimamsa, che accetta solo la Parola vedica. Cercherò di spiegare le conseguenze di questa posizione in campo etico. Accenni saranno dedicati anche al prosieguo delle posizioni delle due scuole mīmāṃsaka nel Vedānta teista e no.
4) Parlerò poi dei tentativi riduzionisti di Vaisesika e Buddhisti e di come sostengano che la conoscenza che deriviamo da una comunicazione verbale sia di natura inferenziale.
5) Ancora sul tema dell'inferenzialità, discuterò i controargomenti del naiyāyika Jayanta Bhatta e di altri autori.
6) Appreso l'uso delle categorie indiane, cercherò di provare ad applicarle a singoli casi della storia della filosofia occidentale, come H.-G. Gadamer, Th. Reid, M. Dummett. Anche gli studenti saranno invitati a partecipare.
A questo primo periodo ne è seguito uno successivo di presa di distanza da un approccio metodologico considerato troppo ingenuo perché troppo eurocentrico. E' il periodo inaugurato dal saggio Orientalism di Edward Said, in cui si stigmatizzava un'idea dell'Oriente creata a uso e consumo delle proiezioni di sé occidentali. In questo corso tenterò un esperimento diverso, "dall'India verso l'Occidente", ossia considerare un argomento della tradizione filosofica occidentale alla luce dei paradigmi elaborati dalla filosofia indiana. Tale procedimento inverso si giustifica perché l'argomento che tratterò è stato oggetto di esami più sistematici nella filosofia indiana. Analizzare perciò testi occidentali in tale ottica può permettere di riconoscere somiglianze di famiglia prima insospettate e allo stesso tempo consente di porre in luce le differenze fra approccio occidentale e indiano. Quest'ultimo punto mi pare importante perché è in base a casi come questo che lo studio della filosofia indiana assume senso autonomo per i filosofi occidentali, che invece di trovarvi (solo) nuove risposte alle proprie domande possono rintracciarvi paradigmi e punti di vista originali.
Parlerò infatti della comunicazione verbale, nei suoi vari aspetti, e del suo ruolo nella costruzione filosofica. In particolare,
1) Una lezione preliminare sarà dedicata al ruolo dell'epistemologia in India. Ogni discorso, anche valoriale passa attraverso categorie epistemologiche. D'altra parte, questo significa che l'epistemologia è abbastanza elastica da poter prestare i propri strumenti a discussioni di tema etico, religioso etc. A partire da queste parole, probabilmente si potrebbe pensare a quello che in Occidente è stato Spinoza con la sua \textit{Ethica}. Ma nel caso indiano non sono tanto teologia etc. a conformarsi alla logica, quanto quest'ultima a non confinarsi alle così dette discipline analitiche. Dopo questa premessa spero sia chiaro perché la comunicazione verbale è vista anzitutto come strumento epistemico. La seconda parte della lezione sarà dedicata alle categorie con cui la filosofia indiana affronta il tema della comunicazione verbale, ossia autorialità e non autorialità, distinzione tra ambito epistemico e ambito deontico etc.
2) Alcune lezioni saranno dedicate al modo in cui le principali scuole della filosofia indiana si sono occupate di comunicazione verbale. Anzitutto parlerò della posizione del Nyaya, per cui la comunicazione verbale è accettata in quanto pronunciata da un esperto, e del Sankhya (che poco si differenzia dalla prima). Accennerò a cosa questo comporti nel rapporto con le Sacre Scritture, i Veda, che quindi hanno autorità, ma solo in quanto pronunciati da Dio. In base a ciò, è anche sempre possibile che la Rivelazione continui e di questo principio si sono effettivamente servite varie scuole per legittimare i propri testi sacri.
3) Parlerò qui della posizione della Bhattamimamsa, per cui la comunicazione di un esperto è accettata, ma riveste un ruolo secondario rispetto a quello della Parola vedica, e della Prabhakaramimamsa, che accetta solo la Parola vedica. Cercherò di spiegare le conseguenze di questa posizione in campo etico. Accenni saranno dedicati anche al prosieguo delle posizioni delle due scuole mīmāṃsaka nel Vedānta teista e no.
4) Parlerò poi dei tentativi riduzionisti di Vaisesika e Buddhisti e di come sostengano che la conoscenza che deriviamo da una comunicazione verbale sia di natura inferenziale.
5) Ancora sul tema dell'inferenzialità, discuterò i controargomenti del naiyāyika Jayanta Bhatta e di altri autori.
6) Appreso l'uso delle categorie indiane, cercherò di provare ad applicarle a singoli casi della storia della filosofia occidentale, come H.-G. Gadamer, Th. Reid, M. Dummett. Anche gli studenti saranno invitati a partecipare.
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