martedì 27 febbraio 2007

1.4 Ambiti di applicazione della Parola come strumento conoscitivo

Questo "capitolo" introduce, ancor piu' del precedente, alcune categorie generalmente estranee al pensiero generalmente "occidentale". Come dicevo all'inizio (cap. 1, "Ruolo dell'epistemologia in India") il discorso epistemologico indiano include la possibilita' di applicare l'epistemologia ad ambiti non solo di discorso descrittivo (rispondente alle categorie di vero e falso). Poiché filosofia indiana e occidentale tendono a concordare circa le sfere in cui sia possibile utilizzare percezione diretta e inferenza (in quanto questa si basa su quella), l'allargamento degli ambiti conoscibili riguarda strettamente la Parola come strumento conoscitivo. E' comunemente accettato che questa sia la chiave per accedere a contenuti conoscitivi inattingibili dalla percezione diretta (e quindi anche dall'inferenza) e detti perciò a-laukika, e le varie scuole si dividono solo circa l'importanza di tali contenuti. Quelle che mirano a negare alla Parola un valore autonomo di strumento conoscitivo considerano l'ambito alaukika come limitato a "curiosità" poco rilevanti. Al contrario, le scuole che sostengono l'importanza della Parola come strumento conoscitivo vi attribuiscono potestà più o meno esclusiva nell'ambito alaukika letto come tutto ciò che non riguarda il mondo dei fatti bruti. In particolare, il Nyaya interpreta la negazione della mondanità nella definizione di a-laukika come negazione dei dati di fatto in favore del contenuto valoriale degli stessi, mentre la Mimamsa considera la dimensione alaukika come la dimensione di ciò che potrebbe o dovrebbe essere contrapposto a ciò che è. Tali ambiti, nel caso delle scuole che negano la Parola come strumento conoscitivo sono invece attingibili tramite intuizione intellettuale, yogipratyaksa.
Ricollegandoci al nostro tema principale, le scuole che parlano del Veda come śāstra e come parola apauruṣeya sostengono anche che il Veda fornisca solo conoscenza di tipo prescrittivo. L'autorita' del Veda non e' quindi di tipo epistemico (intendendo epistemico nel senso ristretto occidentale, ossia in riferimento a un certo patrimonio di conoscenze di cui si possa facilmente dire che sono vere o false), bensi' di tipo deontico. Questo termine si riferisce a cio' che deve essere. Un esempio di autorita' deontica e non epistemica e' costituito da un ufficiale rispetto al suo esercito. I soldati possono tranquillamente pensare che il loro ufficiale sia un inetto e non credere a nessuno dei contenuti conoscitivi da lui enunciati, tuttavia gli obbediscono quando sono sul campo di battaglia. L'autorita' dell'ufficiale e' percio' deontica. Al contrario, un professore puo' avere grande autorita' epistemica rispetto ai suoi allievi, ma nessuna autorita' deontica se non riesce a farsi obbedire. Con una formula sintetica, l'autorità epistemica di cui può godere una comunicazione verbale risiede nel contenuto delle nozioni comunicate, mentre l'autorità deontica è immanente allo stesso atto in cui si comunica qualcosa. In questo senso la Mīmāṃsā potrà dire che il Veda fa conoscere un dover essere e non un significato già stabilito.
Altre scuole, soprattutto il Sāṅkhya e le scuole buddhiste, tentano di marginalizzare l'importanza della Parola come strumento conoscitivo all'interno del cammino di realizzazione da loro proposto che vuol essere sottratto all'autorità deontica e valoriale del Veda. Anche queste scuole non possono negare che ci siano ambiti non raggiungibili tramite percezione diretta e inferenza, tuttavia tentano (vedi cap. 5 per una mia valutazione sull'esito di tale tentativo) di ridurne l'impatto, con un duplice procedimento. Da una parte, queste ampliano il raggio d'azione della percezione diretta includendovi la percezione mentale (yogipratyaksa), dall'altra confinano il dominio proprio della Parola come strumento conoscitivo a temi che non hanno rilevanza né per la conoscenza empirica, né per la liberazione.
Seguiamo in concreto una di queste argomentazioni. La Mīmāṃsā afferma che solo un'autorità deontica, il Veda, può dirci cosa debba essere fatto per raggiungere una condizione di gioia, detta Paradiso (svarga). Il Nyāya spiega che il Paradiso può essere conosciuto solo tramite la Parola vedica, in questo modo ponendo come contenuto della Parola vedica un contenuto che è assieme deontico (nel senso che per ogni soggetto agente e conoscente la condizione di gioia dev'essere realizzata e non esiste indipendentemente dal suo dover essere realizzata) e valoriale (la condizione di gioia/Paradiso non è un fatto esprimibile nei termini di vero o falso). A un livello successivo, il Sāṅkhya riprende l'argomentazione del Nyāya sostenendo che la Parola come strumento conoscitivo è indispensabile per conoscere "ninfe celesti, Kuru settentrionali etc." (v. più avanti nel cap. relativo al Sāṅkhya). Si è in tal modo ontologizzato quelle che erano categorie deontiche e valoriali, rendendole così irrilevanti per il cammino verso la liberazione. Di un procedimento simile si servirà il Buddhismo.
Questioni simili sono state affrontate anche in Occidente, soprattutto riguardo alcuni passi dell'Antico Testamento. Quale attitudine adottare nei confronti di passi storici della Bibbia in cui si raccontino vicende moralmente neutre? Agostino spiega, per esempio, che non può dire di sapere (scire), né di comprendere (intelligere) cosa siano le sarabellae, di cui pure si parla nell'Antico Testamento, ma di credere anche in tante cose che non è in grado di conoscere, né di comprendere, data l'utilità per la salvezza del credere. Quale sarebbe l'attitudine di un Sāṅkhya, di un Naiyāyika, di un Mīmāṃsaka?

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