martedì 20 febbraio 2007

1.3 Analisi della Parola come strumento conoscitivo

Lo strumento conoscitivo che abbiamo chiamato Parola può essere ulteriormente analizzato. Abbiamo infatti due modalità di conoscenza acquisita tramite Parola. In un caso,che può apparirci più familiare,abbiamo una persona esperta che ci comunica qualcosa. In tal caso,il contenuto della sua comunicazione è conoscenza valida proprio perché la persona è un esperto. Questo viene chiamato in sanscrito āptavacana,ossia "affermazione" (vacana) di un esperto (āpta). Capirete subito che definirlo "esperto" è riduttivo e in effetti le caratteristiche dell'apta sono triplici.
Da una parte deve conoscere ciò di cui parla, deve poi essere onesto nel riferirlo e infine, deve voler comunicare ciò che sa. Rifletteteci e scoprirete che ciascuna di queste tre caratteristiche sembra proprio indispensabile. Un eremita, seppur saggio e sincero, che non abbia alcun desiderio di insegnare ad altri ciò che sa, non è un apta, come non è un apta chi conosca la materia ma sia animato per scopi propri dalla volontà di distorcere i fatti. Infine una persona, seppur in buona fede, che non conosca ciò di cui parla non potrà comunicare conoscenza. Vedremo come questa analisi sia elaborata nel Nyaya e nella scuola epistemologica buddhista e vedremo anche quali obiezioni possano esservi mosse.
Il caso or ora esaminato è quello della Parola pronunciata da una persona, includendo nella definizione di "persona" anche Dio stesso. La Parola in questo senso è pauruseya, ossia "umana", "legata a un autore personale". C'è però un altro caso, almeno in India, ossia il Veda. Questo è il testo sacro riconosciuto da tutte le scuole filosofiche e religiose indiane,tranne Giainisti e Buddhisti. Tutte le scuole del così detto "Induismo" non pongono affatto in discussione la necessità per ognuno di eseguire i sacrifici e i rituali prescritti nel Veda. La giornata di ogni indiano delle tre classi superiori è perciò scandita da prescrizioni vediche e al Veda vengono spesso attribuite anche pratiche che hanno avuto origine successivamente. Anche gli autori di cui trattiamo fanno parte dello stesso ambito culturale e nessuno di loro discute l'autorità del Veda.
Vedremo però che questa è spiegata in maniere diverse.
Alcune scuole indiane, come il già citato Nyāya, sostengono che il Veda sia stato composto da Dio. La sua autorità deriva perciò da Dio e dunque anche il Veda è un caso di āptavacana. Altre scuole (le due Purva Mimamsa e il Vedanta) sostengono invece che non abbiamo alcun elemento per dire che il Veda sia opera di Dio. Tutto quello che abbiamo è il Veda stesso e la sua incontrastata autorità. La Parola in questa seconda accezione,dunque,non dipende da Dio né da nessun altro autore personale. Essa è strumento conoscitivo di per sé. Infatti, considerare il Veda parola di Dio, significherebbe renderlo relativo. Dio avrebbe potuto dirlo altrimenti, o non pronunciarlo affatto, e di fatto potrebbero esistere altri Veda. Si apre così la strada a relativizzare l'importanza del Veda. In effetti sulla base della considerazione del Veda come un caso di aptavacana, alcune scuole teiste hanno sostenuto che anche le proprie scritture fossero opera di Dio e che andassero quindi considerate alla stregua del Veda. L'unico modo per salvaguardare l'unicità del Veda è quindi quello di collocarlo su tutt'altro livello. Fra l'altro, far dipendere l'autorità del Veda da Dio significa di fatto abbassare il Veda al rango di autorità secondaria, derivata. La Mīmāṃsā spiegherà perciò che la parola vedica è apauruṣeya, ossia "non umana","non legata a un autore personale". È un'autorità completamente a priori.
Quanto ho appena detto potrebbe contrastare con la premessa generale che ho svolto, riguardo la maggiore propensione all'esperienza della filosofia indiana. Pensate però a quanto sopra detto circa la centralità del Veda nella vita quotidiana in India. Esso è centrale per tutti, siano essi teisti o no. Alcuni potranno rispettarlo in quanto parola di Dio, ma di fatto la sua autorità non deriva da ciò. La sua autorità c'è e basta, e c'è da sempre. La filosofia indiana, che mira a spiegare i dati, non può evitare questo dato di fatto. La Parola intesa come strumento conoscitivo che non deriva la propria autorità da un autore, è detta anche śāstra, ossia "insegnamento".
Questo secondo modo di intendere la Parola come strumento conoscitivo può apparire piuttosto estraneo alla nostra tradizione. Si rifletta però se non esistano casi simili anche in Occidente, per esempio i codici di leggi. Anche in questi casi, il valore delle leggi non dipende affatto da chi le ha formulate, che potrebbe essere un deputato inetto o ignorante, e che comunque non ha alcuna voce in capitolo per quanto attiene l'interpretazione delle norme. Quello che vorrei suggerire è che non è affatto detto che con apauruṣeya si intenda "senza nessun autore" in senso stretto. Potrebbe invece essere inteso come "non dipendente da un autore" in riferimento al suo essere strumento conoscitivo. L'autore potrebbe anche esserci, ma sarebbe solo un accidente, non un elemento costitutivo dell'autorità del testo in questione. Secondo un'altra interpretazione dello stesso concetto di apauruṣeyatva, l'autorità del contenuto sovrasta il parlante stesso.
Ringrazio alcuni studenti per avermi fatto riflettere su altri esempi di autorità indipendente da un autore. In particolare, l'esempio citato dell'opinione comune merita riflessione ulteriore. In India alcune scuole filosofiche minori parlano in proposito di uno strumento conoscitivo ad hoc, detto "tradizione" e che incorpora tutti i casi del tipo "si dice che le arance facciano bene" o "una mela al giorno leva il medico di torno". I massimi difensori della Parola indipendente da un autore (i Mīmāṃsaka), però, rifiutano questo strumento conoscitivo perché spesso si rivela inaffidabile, a meno che non si possa verificare l'affidabilità di chi parla (e allora tornerebbe a essere un caso di Parola come strumento conoscitivo perché pronunciata da un esperto). Si è parlato anche del caso del diritto naturale. Un esempio interessante, perché rafforza l'impressione che la normatività possa esistere a prescindere da un autore. Tuttavia non si tratta in senso stretto di Parola in quanto strumento conoscitivo perché la Parola si configura sempre come una comunicazione verbale (o scritta, ma comunque attraverso il medium del linguaggio).

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