La vera controversia si accende perciò intorno al terzo mezzo per acquisire conoscenza, ossia la comunicazione, la Parola. Se riflettiamo in proposito, ci rendiamo facilmente conto che la maggior parte delle nostre conoscenze ci deriva in realtà da quanto abbiamo letto o udito. Nessuno di noi è mai in grado di ricostruire da solo un edificio conoscitivo, dipendiamo continuamente da quanto abbiamo appreso. Anche nel momento in cui cominciamo a mettere in dubbio, non possiamo evitare di farlo a partire da ipotesi che abbiamo acquisito, oltre che da un linguaggio, che è la forma stessa del nostro pensiero e che abbiamo appreso da altri.
Abbiamo così individuato alcuni importanti punti di demarcazione fra filosofia indiana e occidentale. Quest'ultima, come vedevamo prima, se non altro a partire dal Cinquecento (Bacone, Cartesio, Newton, l'Illuminismo...) vede con sfavore le conoscenze acquisite di seconda mano e persegue spesso l'utopico progetto di una fondazione autonoma del sapere. Qui ci riconnettiamo con la maggiore base empirica, quotidiana, della filosofia indiana, che da questo punto di vista è molto più legata a spiegare i dati di fatto invece di immaginare scenari diversi. La filosofia indiana, dunque, non nega l'inevitabilità della conoscenza acquisita attraverso parole, piuttosto alcune scuole negano l'irriducibilità della Parola come strumento conoscitivo. Tali scuole (la scuola epistemologica buddhista e il Vaisesika) sostengono infatti che anche la Parola intesa come strumento conoscitivo si basi in realtà su un'inferenza. Io credo che x perché me lo dice la persona Y. Inferisco dunque la correttezza di x sulla base dell'affidabilità di Y. Le altre scuole (Sāṅkhya, Nyāya, Vedānta, Mīmāṃsā) si oppongono a tale posizione, sia nel merito sia nel metodo. Queste sostengono al contrario che la Parola sia uno strumento a sé e che tale inferenza sia solo, al più, una costruzione a posteriori, che non rende conto dell'immediatezza con cui, nel sentire Y dire che x, noi formiamo in noi la credenza x. Per quanto riguarda il metodo, poi, si sostiene che l'inferenza attraverso l'affidabilità della persona che parla, presenti delle fallacie. Analizzeremo in dettaglio critiche e repliche, ma per ora restiamo ancora sui termini generali della questione. Sostenere che la Parola sia uno strumento conoscitivo indipendente e irriducibile all'inferenza significa considerare che la comunicazione verbale (ossia mediante frasi) sia un qualcosa di peculiare e diverso da altri modi di comunicazione indiretta, che rientrerebbero nell'inferenza. Se un cartello stradale rappresenta una freccia bianca, per esempio, io ne inferisco che è possibile svoltare nella direzione della freccia. Questo non rappresenta un caso di Parola come strumento conoscitivo ed è infatti facilmente ricostruibile come un'inferenza (sulla struttura dell'inferenza in India si veda infra, il cap. 3.5 sulla controversia in merito fra Nyāya e Vaiśeṣika). I sostenitori della Parola come strumento conoscitivo sostengono che invece nel suo caso non ci sia bisogno di un passaggio inferenziale e che comunque, se anche ci fosse, un passaggio intermedio non potrebbe essere costruito in forma inferenziale.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
Sull'importanza cognitiva della parola mi viene in mente l'aneddoto del da'samas tvam asi (in questa versione citata da Jiivagosvaamii e spiegatami dal mio insegnante in India): dieci piccoli indiani salgono sulla zattera per attraversare il fiume. Uno di loro si vuole accertare che tutti siano a bordo, ma ne conta solo nove. "Dov'è il decimo?", chiede. Uno dei nove, indubbiamente un testimone aapta risponde: "il decimo sei tu". Non ostante l'apparente ingenuità, la storiella fa riflettere su come la parola (1) produca spesso una conoscenza immediata, fulminante, (2) implichi un soggetto cognitivo e un oggetto cognitivo (l'io comunicativo e il tu ricettivo) e (3) necessiti di un "noi" che condividano un gioco linguistico.
Posta un commento