martedì 20 febbraio 2007

Presentazione del corso II semestre 2006-2007

A partire dall'esordio degli studi sul Sudasia, abbiamo assistito a vari tipi di approccio. Prendo qui in considerazione in particolare due tipi di dinamiche, che riassumo secondo le loro direttrici ideali, ossia "dall'Occidente verso l'India" e "dentro l'India". Nel primo caso, si è tentato di studiare il Sudasia utilizzando categorie tipiche del panorama culturale occidentale. Si sono così solidificati paradigmi come quello di "induismo" (che, conseguentemente, è stato detto "politeista"). A un livello teorico più raffinato, è in quest'ottica che alcuni filosofi di tradizione anglosassone si sono avvicinati alla scuola indiana della Nuova Logica, che pareva loro più simile al proprio modo di fare filosofia. Alla Nuova Logica si è chiesto di offrire risposte ai quesiti rimasti insoluti in Occidente.
A questo primo periodo ne è seguito uno successivo di presa di distanza da un approccio metodologico considerato troppo ingenuo perché troppo eurocentrico. E' il periodo inaugurato dal saggio Orientalism di Edward Said, in cui si stigmatizzava un'idea dell'Oriente creata a uso e consumo delle proiezioni di sé occidentali. In questo corso tenterò un esperimento diverso, "dall'India verso l'Occidente", ossia considerare un argomento della tradizione filosofica occidentale alla luce dei paradigmi elaborati dalla filosofia indiana. Tale procedimento inverso si giustifica perché l'argomento che tratterò è stato oggetto di esami più sistematici nella filosofia indiana. Analizzare perciò testi occidentali in tale ottica può permettere di riconoscere somiglianze di famiglia prima insospettate e allo stesso tempo consente di porre in luce le differenze fra approccio occidentale e indiano. Quest'ultimo punto mi pare importante perché è in base a casi come questo che lo studio della filosofia indiana assume senso autonomo per i filosofi occidentali, che invece di trovarvi (solo) nuove risposte alle proprie domande possono rintracciarvi paradigmi e punti di vista originali.
Parlerò infatti della comunicazione verbale, nei suoi vari aspetti, e del suo ruolo nella costruzione filosofica. In particolare,

1) Una lezione preliminare sarà dedicata al ruolo dell'epistemologia in India. Ogni discorso, anche valoriale passa attraverso categorie epistemologiche. D'altra parte, questo significa che l'epistemologia è abbastanza elastica da poter prestare i propri strumenti a discussioni di tema etico, religioso etc. A partire da queste parole, probabilmente si potrebbe pensare a quello che in Occidente è stato Spinoza con la sua \textit{Ethica}. Ma nel caso indiano non sono tanto teologia etc. a conformarsi alla logica, quanto quest'ultima a non confinarsi alle così dette discipline analitiche. Dopo questa premessa spero sia chiaro perché la comunicazione verbale è vista anzitutto come strumento epistemico. La seconda parte della lezione sarà dedicata alle categorie con cui la filosofia indiana affronta il tema della comunicazione verbale, ossia autorialità e non autorialità, distinzione tra ambito epistemico e ambito deontico etc.
2) Alcune lezioni saranno dedicate al modo in cui le principali scuole della filosofia indiana si sono occupate di comunicazione verbale. Anzitutto parlerò della posizione del Nyaya, per cui la comunicazione verbale è accettata in quanto pronunciata da un esperto, e del Sankhya (che poco si differenzia dalla prima). Accennerò a cosa questo comporti nel rapporto con le Sacre Scritture, i Veda, che quindi hanno autorità, ma solo in quanto pronunciati da Dio. In base a ciò, è anche sempre possibile che la Rivelazione continui e di questo principio si sono effettivamente servite varie scuole per legittimare i propri testi sacri.
3) Parlerò qui della posizione della Bhattamimamsa, per cui la comunicazione di un esperto è accettata, ma riveste un ruolo secondario rispetto a quello della Parola vedica, e della Prabhakaramimamsa, che accetta solo la Parola vedica. Cercherò di spiegare le conseguenze di questa posizione in campo etico. Accenni saranno dedicati anche al prosieguo delle posizioni delle due scuole mīmāṃsaka nel Vedānta teista e no.
4) Parlerò poi dei tentativi riduzionisti di Vaisesika e Buddhisti e di come sostengano che la conoscenza che deriviamo da una comunicazione verbale sia di natura inferenziale.
5) Ancora sul tema dell'inferenzialità, discuterò i controargomenti del naiyāyika Jayanta Bhatta e di altri autori.
6) Appreso l'uso delle categorie indiane, cercherò di provare ad applicarle a singoli casi della storia della filosofia occidentale, come H.-G. Gadamer, Th. Reid, M. Dummett. Anche gli studenti saranno invitati a partecipare.

7 commenti:

Anonimo ha detto...

La presentazione mi stimola una riflessione su occidente e oriente. Sebbene da Halbfass (Heidegger) apprendiamo che è sempre più difficile parlare di una contrapposizione tra questi due poli, e quindi di un loro incontro, mi chiedo quanto uno studio di filosofia antica ci permetta di sfuggire a tale impossibilità dii cogliere un oriente 'altro' da noi nel mondo moderno.

elisa freschi ha detto...

Sono d'accordo con Alessandro. Recuperare (in questo senso assume un significato l'opera filologica) la filosofia di un'epoca precedente l'"occidentalizzazione" del mondo è un aiuto alla tutela delle differenze teoriche. Resta il dubbio se sia possibile, per noi ormai coinvolti a tutti i livelli nell'occidentalizzazione, recuperare un Altro che non sia condizionato dai nostri a priori occidentalizzanti.

Alessandro ha detto...

La ricerca di un'epoche priva di pregiudizi occidentalizzanti, mi sembra ormai assodato, non è praticabile, ché il condizionamento dell'oggetto da parte del soggetto interpretante è inevitabile. Può la consapevolezza del condizionamento essere migliorata? O attraverso un'oggettivazione del condizionamento non si fa altro che regredire a condizionamenti di secondo grado, in un regresso infinito di tortuosità del pensiero? L'oggettivazione riflessiva è una virtù filosofica che allarga la visione degli orizzonti o una spirale che porta alla paralisi?

Anonimo ha detto...

sono profana e mi risulta abbastanza faticoso capire tutto quello che c'è scritto sul blog, perchè non è la mia area di competenza. in ogni caso, la presentazione del corso mi sembra molto accattivante e stimolante. siamo soliti usare i nostri (e con "nostri" intendo ereditati dalla cultura occidentale) schemi per capire tutte le cose, e se qualcosa mal si adatta ad essi la "bolliamo" come non valida. mi sembra dunque assai interessante "partire" da lontano per "arrivare" vicino. sebbene la verbalità non sia poi così lontana da noi, se consideriamo l'incipit del Vangelo di Giovanni: ma la sua provenienza mi sembrerebbe plausibile da una cultura antica che a quel tempo avesse avuto il tempo di crescere e formarsi. potrebbe essere un discorso interessante...
come seconda cosa, debbo dire che invidio molto gli studenti che hanno a disposizione uno strumento così felice come questo blog per confrontarsi tra loro e con l'insegnante. spero di vederlo un po' più utilizzato, per quando ripasserò... auguri ad elisa, che è coraggiosa a proporre una cosa nuova!

elisa freschi ha detto...

Ringrazio Shanti per i commenti, insieme stimolanti e originali. Sul logos in Giovanni mi piacerebbe avere uno spazio particolare per discutere. Certamente ci sono alcune evocative somiglianze con la concezione mimamsaka, per cui la Parola vedica sembra essere essa stessa Dio. E interessante mi pare anche il fatto che nel logos del prologo di Giovanni non c'è distanza fra la Parola e la sua realizzazione. Questa capacità esecutiva intrinseca nella Parola è stata analizzata nella Mimamsa e definita come arthibhavana ("forza incoativa", capacità di porre in essere un risultato), mentre non so di trattazioni estese in ambito occidentale.

Anonimo ha detto...

“Verbum caro factum est et habitavit in nobis”. Questo l’incipit del Vangelo di Giovanni. La Parola diventa incontrabile, un fatto, accessibile e concretissimo. Sono certo che estesissime trattazioni “da occidente” in merito nella letteratura e nella saggistica cristiana e cattolica siano abbondanti.

Colgo l’occasione però per condividere al riguardo la trattazione non per forma scritta, bensì artistica forse più geniale che sia mai stata prodotta sull’argomento. La espongo così come è stata spiegata a me.

Mi riferisco alla famosissima Pietà, di Michelagelo Buonarroti, esposta nella Basilica di San Pietro a Roma.

La chiave di lettura e decodifica dell’opera è nascosta in primo luogo nelle dimensioni e nelle proporzioni, in secondo luogo nelle fattezze.

Guardando attentamente il gruppo marmoreo, si scopre che, se la Madonna si alzasse in piedi, risulterebbe enorme, immensa, sovrumana, sproporzionata rispetto al Cristo che tiene tra le braccia. Le sue fattezze inoltre, sebbene cariche di dolore, non sono umane, bensì trasfigurate, angelicate, divine. Il suo volto è del tutto privo di qualsiasi caratteristica umana non ha difetti, è perfetto.

Il Cristo di contro è un corpo morto, del tutto umano, non ha assolutamente nulla di divino. Si indulge nei particolari di quel corpo martoriato. Le sue dimensioni sono del tutto umane.

Michelangelo si pose esplicitamente l’obiettivo di realizzare un manifesto del Cristianesimo, di rappresentare nel marmo esattamente l’inizio del Vangelo di Giovanni. Di raccontare, scolpendolo nella pietra ed immortalandolo per sempre come ciò che è umano diventa divino, e viceversa; quel passaggio cruciale in cui avviene l’inversione umano-divino e divino-umano, stabilendo così un contatto, o meglio, una coincidenza impossibile tra la Parola e la sua realizzazione storica.

La Pietà non è una trattazione teorica ovviamente. Ma è sicuramente una lettura fatta da ovest.

elisa freschi ha detto...

ringrazio sdc per la suggestiva lettura della Pieta' michelangiolesca (dove pero' non mi e' del tutto chiaro l'elemento della trasfigurazione divina della Madonna: emblema della grazia redentrice di Cristo?), che non conoscevo.
Sdc fa anche bene a rimproverarmi indirettamente per aver detto che non conosco trattazioni occidentali. In realta' il mio obiettivo era piu' limitato, ossia pensavo all'assenza di trattazioni dedicate alla capacita' del linguaggio di attivare chi lo ascolta e, quindi, di tradursi in azione. Dal punto di vista indiano, si tratta di una banalita' constatabile da qualunque parlante. Mi chiedo se lo stesso valga anche in Occidente, al di fuori di trattazioni mistiche o neoplatoniche.