Oltre alle obiezioni che ho presentato sopra circa alcuni singoli punti dell'esposizione di I., propongo ora alcune obiezioni sollevate (soprattutto da L.), nel corso della discussione in classe.
1) Il rifiuto del Buddha di rispondere a domande metafisiche può a sua volta essere interpretato in senso dogmatico. Sostenere infatti che una certa risposta non serve al cammino di liberazione significa decidere a priori cosa serva e cosa no e imporlo ai propri discepoli. La scelta degli ambiti rilevanti per la liberazione è una scelta a priori imposta solo sulla base dell'autorità del Buddha.
2) Sarebbe difficile spiegare gli sviluppi dogmatici successivi (nel Buddhismo Mahāyāna, Vajrāyāna, in Tibet etc.) se non avessero come base già il pensiero originario del Buddha.
3) L'ottuplice sentiero, come il cammino di salvezza presentato dal Buddha, non è autoevidente. Lo si accetta perché ci si fida della Parola del Buddha.
Il punto 2) mi pare sia filosoficamente debole (è difficile sostenere che tutti gli sviluppi di una religione debbano essere presenti in nuce nel pensiero del suo fondatore). Tanto più nel caso del Buddhismo, dato che il Mahāyāna e le altre scuole di Buddhismo sviluppatesi a relativa distanza dal Buddha storico hanno adottato testi canonici diversi, sostenendo per esempio di aver ritrovato discorsi del Buddha andati perduti o non rivelati perché la gente dell'epoca non era pronta. Nello specifico, però, Chiara Neri mi suggerisce che il termine "onnisciente" (sarvajña in sanscrito) è presente e riferito al Buddha già nel Canone Theravāda, anche se solo in testi canonici tardi. Inoltre, esso è riferito al Buddha, ma il Buddha non lo dice di sé.
In generale, la discussione sul rapporto fra fede e ragione pare infiammare molto gli animi. Forse perché ci si accosta al Buddhismo con il pregiudizio positivo che esso sia una sorta di Illuminismo all'interno della cultura indiana. Poi, o se ne rimane delusi, o lo si considera comunque un miglioramento (dal momento che avrebbe sostituito a dogmi irriflessi, tipo la teoria vedica del sacrificio, altri dogmi più ragionati, come le quattro nobili verità), o si tende a difenderne l'antidogmatismo e l'apertura alla ragione umana. Per quel che vale il mio parere, però, mi chiedo se sia mai esistito un principio d'autorità dogmatico nella teoria della Parola come strumento conoscitivo. Utilizzare lo strumento conoscitivo della Parola non è infatti irrazionale, giacché è invece pienamente razionale conoscere i limiti delle proprie facoltà e approfittare di un altro strumento conoscitivo per andare oltre a tali limiti.
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1 commento:
Per quanto riguarda le tre obiezioni di L. la prima, ossia “l’idea che il rifiuto di rispondere a domande metafisiche possa essere interpretata in senso dogmatico” o “che la scelta degli ambiti rilevanti per la liberazione è una scelta a priori imposta solo sulla base dell'autorità del Buddha” è un’obiezione che può essere facilmente confutata dal fatto che il criterio per la scelta di cosa sia rilevante per la liberazione non è il mero arbitrio del Buddha, bensì il frutto esperienziale del suo percorso, che viene proposto secondo un criterio di sperimentabilità. Il Dhamma stesso con degli epiteti formulari è definito sandiṭṭhiko (visibile) e ehipassiko (vieni e vedi) cfr. DN (II, 93); DN (II, 4); MN (I, 37); SN (I, 9); SN (IV, 41-2). Ciò mi sembra risponda anche alla terza obiezione proposta.
Per quanto riguarda la seconda questione, ossia l’idea che “Sarebbe difficile spiegare gli sviluppi dogmatici successivi (nel Buddhismo Mahāyāna, Vajrāyāna, in Tibet etc.) se non avessero come base già il pensiero originario del Buddha”, mi sembra che sia già stata adeguatamente confutata da Elisa, ma potrebbe essere ulteriormente invalidata da spiegazioni di tipo storico che coinvolgono le diverse stratificazioni, testuali e intertestuali, del Canone Pāli. Il concetto di fede non-dogmatica, o comunque l’invito all’utilizzo dell’autovalutazione dell’insegnamento, nei sutta più antichi potrebbe essere più enfatizzato, anche come critica alla fidelizzazione prodotta dalla ritualità vedica, mentre in testi più tardi potrebbe essersi sviluppato un maggior senso di venerazione per la figura del Buddha stesso ed esser sorta l’esigenza di dare maggior spazio all’idea di fede. Ma tali ipotesi non possono essere ancora confermate da una cronologia affidabile del Canone.
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