Sostiene I. che il Buddha storico non volesse tanto fare della filosofia né tanto meno della metafisica, bensì solo mostrare un metodo, un cammino verso la salvezza. Ho già esposto (nel capitolo "Fede e Ragione nel Buddhismo") alcuni problemi sollevati da questo approccio, che qui riassumo in breve:
-un cammino per arrivare dove? se il punto non è l'obiettivo, ma il fatto di star meglio mentre lo si pratica, il Buddhismo rischia di essere l'equivalente di un corso antistress, con la conseguenza di poter essere abbandonato se "non funziona". Se invece prendiamo sul serio il fatto che il Buddha sia davvero un risvegliato, allora il cammino buddhista è un cammino di fede, fede nella possibilità di tale risveglio, nel suo essersi realizzato nel Buddha storico, nel suo essere accessibile anche per noi e così via.
-il Buddhismo non si è limitato a dare istruzioni pratiche, bensì ha voluto cimentarsi sull'agone filosofico. Possibile che si tratti solo di una conseguenza indesirata?
I. risponde (o potrebbe rispondere) che il pensiero del Buddha mira appunto a mettere in crisi il nostro modo di pensare ordinario, per spingerlo alla corda e mostrargli i propri limiti. Una volta esperiti tali limiti, saremo infatti disposti a non contare più solo sul pensiero dialettico e discorsivo come strada per la salvezza. E' un'interpretazione nagarjuniana e moderna del Buddha. Un Buddha come maestro pratico, quasi un compagno di strada più anziano ed esperto. Tanto moderno, però, da rischiare, mi pare, di essere troppo vicino a noi e meno al suo contesto storico. Ovviamente, un pensatore o un maestro buddhisti hanno pieno diritto di riattualizzare il pensiero del Buddha per renderlo fruibile e utile ai buddhisti di oggi e non solo a quelli dei secoli e millenni trascorsi. Tale operazione però deve essere distinta da un'indagine che sostenga di ricostruire il pensiero originale del Buddha. Il modo d'intendere il Buddhismo proposto da I. (per come l'ho qui rappresentato) mi sembra cioè intelligente ed efficace, ma dubito che si identifichi con il pensiero originale del Buddha. Questo non è un limite dell'interpretazione di I., giacché la vitalità di una religione sta proprio nella sua capacità di adattarsi ai tempi e il tentativo di ritornare sempre al pensiero originale del fondatore della propria religione per poter giustificare le proprie teorie è a forte rischio di fondamentalismo.
Per tornare al Buddha storico, egli era immerso in un mondo in cui chi proponesse un diverso cammino era venerato e ascoltato non come un compagno più anziano, bensì come un maestro realizzato e dubito che egli soggettivamente non avesse questa impressione di sé. Quindi, benvenute le riattualizzazioni del Buddhismo, ma non se pretendono di essere l'unica interpretazione autentica del pensiero del Buddha.
lunedì 21 maggio 2007
giovedì 17 maggio 2007
Il complesso ruolo del Veda in India
Abbiamo fino a oggi lambito il problema della presenza effettiva del Veda come strumento conoscitivo nei sistemi filosofici e no indiani.
Provo ora ad accennare alcuni spunti in proposito, più per evidenziare la complessità del tema che per offrire una soluzione unitaria. Tanto più che una soluzione unitaria è per definizione impossibile, dati i tanti secoli e i tanti scenari culturali, sociali e geografici diversi cui ci si riferisce. Durante questo corso, D. ha posto in evidenza un movimento trasversale alle varie scuole filosofiche indiane di allontanamento dall'autorità del Veda. Ora in modo più brusco, ora in modo più indolore, ha osservato D., tutte le scuole tentano di sottrarsi a tale ingombrante presenza. Il Buddhismo rompe, il Sāṅkhya lascia al Veda uno spazio angusto e relativo a questioni insignificanti, e persino la Mīmāṃsā limita l'autorità del Veda al solo ambito del dharma. Dal canto suo, il Vedānta afferma che il Veda sia necessario, ma solo strumentalmente. Giunti al brahman, il Veda viene superato anche per il Vedānta.
Questa descrizione è interessante, soprattutto perché provocatoria. Ma, almeno per quanto riguarda Mīmāṃsā e Vedānta, l'autorità del Veda non è sentita come qualcosa da cui sfuggire e le elaborazioni filosofiche di Mīmāṃsā e Vedānta sono funzionali alla sistematizzazione del sapere vedico\footnote{Si ricordi che Śaṅkara non elabora nei dettagli un proprio sistema, considerando di star solo ripetendo quanto ha letto nelle Upaniṣad.} o alla sua apologia. Vi è poi un diffuso movimento contrario di avvicinamento al Veda, che attraversa i sistemi filosofici (si vedano sopra i capitoli dedicati al Sāṅkhya e al Nyāya) e anche le altre scuole di pensiero indiane. Karin Preisendanz, nella sua conferenza romana di giovedì 10 maggio 2007 si è soffermata sulle modalità attraverso cui gli autori della Carakasaṃhitā e di alcuni testi di medicina coevi (circa II secolo a. Ch.) utilizzino stilemi tratti dal rituale vedico per presentarsi come brahmani al pari degli altri. Similmente altre scuole hanno preteso per il proprio testo di riferimento l titolo di "quinto Veda". In tal modo, esse cercavano di legittimarsi attingendo alla principale fonte di legittimazione possibile, l'autorità vedica. D'altro canto, alcune scuole pretendono anche di superare il Veda. In proposito si porta soprattutto l'argomento per cui la tradizione vedica è interrotta, i testi vedici sono divenuti incomprensibili o troppo difficili e la strada da questi proposta (il cammino rituale, karmamārga) è lungo e laborioso. Infine, il Veda è riservato ai dvija, ossia agli appartenenti maschi delle tre classi superiori. Il Nāṭyaśāstra e altre opere di ambito devozionale viṣṇuita, mahādeviano (si veda Rigopoulos 2005 in F. Squarcini 2005) o scivaita (per esempio le Mokṣakārikā, Abhinavagupta...) si presentano invece come leggibili anche da donne o śūdra, comprensibili nel nostro momento di decadenza in cui il Veda è divenuto inaccessibile...
Provo ora ad accennare alcuni spunti in proposito, più per evidenziare la complessità del tema che per offrire una soluzione unitaria. Tanto più che una soluzione unitaria è per definizione impossibile, dati i tanti secoli e i tanti scenari culturali, sociali e geografici diversi cui ci si riferisce. Durante questo corso, D. ha posto in evidenza un movimento trasversale alle varie scuole filosofiche indiane di allontanamento dall'autorità del Veda. Ora in modo più brusco, ora in modo più indolore, ha osservato D., tutte le scuole tentano di sottrarsi a tale ingombrante presenza. Il Buddhismo rompe, il Sāṅkhya lascia al Veda uno spazio angusto e relativo a questioni insignificanti, e persino la Mīmāṃsā limita l'autorità del Veda al solo ambito del dharma. Dal canto suo, il Vedānta afferma che il Veda sia necessario, ma solo strumentalmente. Giunti al brahman, il Veda viene superato anche per il Vedānta.
Questa descrizione è interessante, soprattutto perché provocatoria. Ma, almeno per quanto riguarda Mīmāṃsā e Vedānta, l'autorità del Veda non è sentita come qualcosa da cui sfuggire e le elaborazioni filosofiche di Mīmāṃsā e Vedānta sono funzionali alla sistematizzazione del sapere vedico\footnote{Si ricordi che Śaṅkara non elabora nei dettagli un proprio sistema, considerando di star solo ripetendo quanto ha letto nelle Upaniṣad.} o alla sua apologia. Vi è poi un diffuso movimento contrario di avvicinamento al Veda, che attraversa i sistemi filosofici (si vedano sopra i capitoli dedicati al Sāṅkhya e al Nyāya) e anche le altre scuole di pensiero indiane. Karin Preisendanz, nella sua conferenza romana di giovedì 10 maggio 2007 si è soffermata sulle modalità attraverso cui gli autori della Carakasaṃhitā e di alcuni testi di medicina coevi (circa II secolo a. Ch.) utilizzino stilemi tratti dal rituale vedico per presentarsi come brahmani al pari degli altri. Similmente altre scuole hanno preteso per il proprio testo di riferimento l titolo di "quinto Veda". In tal modo, esse cercavano di legittimarsi attingendo alla principale fonte di legittimazione possibile, l'autorità vedica. D'altro canto, alcune scuole pretendono anche di superare il Veda. In proposito si porta soprattutto l'argomento per cui la tradizione vedica è interrotta, i testi vedici sono divenuti incomprensibili o troppo difficili e la strada da questi proposta (il cammino rituale, karmamārga) è lungo e laborioso. Infine, il Veda è riservato ai dvija, ossia agli appartenenti maschi delle tre classi superiori. Il Nāṭyaśāstra e altre opere di ambito devozionale viṣṇuita, mahādeviano (si veda Rigopoulos 2005 in F. Squarcini 2005) o scivaita (per esempio le Mokṣakārikā, Abhinavagupta...) si presentano invece come leggibili anche da donne o śūdra, comprensibili nel nostro momento di decadenza in cui il Veda è divenuto inaccessibile...
mercoledì 16 maggio 2007
Fede e ragione (terza parte): possibili obiezioni
Oltre alle obiezioni che ho presentato sopra circa alcuni singoli punti dell'esposizione di I., propongo ora alcune obiezioni sollevate (soprattutto da L.), nel corso della discussione in classe.
1) Il rifiuto del Buddha di rispondere a domande metafisiche può a sua volta essere interpretato in senso dogmatico. Sostenere infatti che una certa risposta non serve al cammino di liberazione significa decidere a priori cosa serva e cosa no e imporlo ai propri discepoli. La scelta degli ambiti rilevanti per la liberazione è una scelta a priori imposta solo sulla base dell'autorità del Buddha.
2) Sarebbe difficile spiegare gli sviluppi dogmatici successivi (nel Buddhismo Mahāyāna, Vajrāyāna, in Tibet etc.) se non avessero come base già il pensiero originario del Buddha.
3) L'ottuplice sentiero, come il cammino di salvezza presentato dal Buddha, non è autoevidente. Lo si accetta perché ci si fida della Parola del Buddha.
Il punto 2) mi pare sia filosoficamente debole (è difficile sostenere che tutti gli sviluppi di una religione debbano essere presenti in nuce nel pensiero del suo fondatore). Tanto più nel caso del Buddhismo, dato che il Mahāyāna e le altre scuole di Buddhismo sviluppatesi a relativa distanza dal Buddha storico hanno adottato testi canonici diversi, sostenendo per esempio di aver ritrovato discorsi del Buddha andati perduti o non rivelati perché la gente dell'epoca non era pronta. Nello specifico, però, Chiara Neri mi suggerisce che il termine "onnisciente" (sarvajña in sanscrito) è presente e riferito al Buddha già nel Canone Theravāda, anche se solo in testi canonici tardi. Inoltre, esso è riferito al Buddha, ma il Buddha non lo dice di sé.
In generale, la discussione sul rapporto fra fede e ragione pare infiammare molto gli animi. Forse perché ci si accosta al Buddhismo con il pregiudizio positivo che esso sia una sorta di Illuminismo all'interno della cultura indiana. Poi, o se ne rimane delusi, o lo si considera comunque un miglioramento (dal momento che avrebbe sostituito a dogmi irriflessi, tipo la teoria vedica del sacrificio, altri dogmi più ragionati, come le quattro nobili verità), o si tende a difenderne l'antidogmatismo e l'apertura alla ragione umana. Per quel che vale il mio parere, però, mi chiedo se sia mai esistito un principio d'autorità dogmatico nella teoria della Parola come strumento conoscitivo. Utilizzare lo strumento conoscitivo della Parola non è infatti irrazionale, giacché è invece pienamente razionale conoscere i limiti delle proprie facoltà e approfittare di un altro strumento conoscitivo per andare oltre a tali limiti.
1) Il rifiuto del Buddha di rispondere a domande metafisiche può a sua volta essere interpretato in senso dogmatico. Sostenere infatti che una certa risposta non serve al cammino di liberazione significa decidere a priori cosa serva e cosa no e imporlo ai propri discepoli. La scelta degli ambiti rilevanti per la liberazione è una scelta a priori imposta solo sulla base dell'autorità del Buddha.
2) Sarebbe difficile spiegare gli sviluppi dogmatici successivi (nel Buddhismo Mahāyāna, Vajrāyāna, in Tibet etc.) se non avessero come base già il pensiero originario del Buddha.
3) L'ottuplice sentiero, come il cammino di salvezza presentato dal Buddha, non è autoevidente. Lo si accetta perché ci si fida della Parola del Buddha.
Il punto 2) mi pare sia filosoficamente debole (è difficile sostenere che tutti gli sviluppi di una religione debbano essere presenti in nuce nel pensiero del suo fondatore). Tanto più nel caso del Buddhismo, dato che il Mahāyāna e le altre scuole di Buddhismo sviluppatesi a relativa distanza dal Buddha storico hanno adottato testi canonici diversi, sostenendo per esempio di aver ritrovato discorsi del Buddha andati perduti o non rivelati perché la gente dell'epoca non era pronta. Nello specifico, però, Chiara Neri mi suggerisce che il termine "onnisciente" (sarvajña in sanscrito) è presente e riferito al Buddha già nel Canone Theravāda, anche se solo in testi canonici tardi. Inoltre, esso è riferito al Buddha, ma il Buddha non lo dice di sé.
In generale, la discussione sul rapporto fra fede e ragione pare infiammare molto gli animi. Forse perché ci si accosta al Buddhismo con il pregiudizio positivo che esso sia una sorta di Illuminismo all'interno della cultura indiana. Poi, o se ne rimane delusi, o lo si considera comunque un miglioramento (dal momento che avrebbe sostituito a dogmi irriflessi, tipo la teoria vedica del sacrificio, altri dogmi più ragionati, come le quattro nobili verità), o si tende a difenderne l'antidogmatismo e l'apertura alla ragione umana. Per quel che vale il mio parere, però, mi chiedo se sia mai esistito un principio d'autorità dogmatico nella teoria della Parola come strumento conoscitivo. Utilizzare lo strumento conoscitivo della Parola non è infatti irrazionale, giacché è invece pienamente razionale conoscere i limiti delle proprie facoltà e approfittare di un altro strumento conoscitivo per andare oltre a tali limiti.
lunedì 7 maggio 2007
(seconda parte) Fede e ragione nel Buddhismo: il ruolo della fede
D'altronde, la complessità dei temi in gioco è evidenziata anche da I. quando parla, ispirandosi all'articolo di Giuliano Giustarini pubblicato in "RiSS" 1 (2006), del ruolo di śraddhā.
Se infatti è vero che il Buddha stesso paragona il proprio insegnamento a una zattera, da gettar via non appena si sia giunti sull'altra riva, è pur vero che su tale zattera si deve decidere di salire e pensare che funzioni. È perciò necessaria śraddhā, almeno inizialmente. Nel canone si trovano poi espressioni tipo saddhavimutta (corrispondente al sanscrito śraddhāvimukta), ossia "liberato tramite la fede" e si parla di fede nelle qualità del Buddha. Quindi, forse all'inizio la fede ha un ruolo preponderante, sostiene I.. In generale, prosegue I., il Buddha si muove sul filo dell'opposizione fra non dogmatismo e necessità di dare ascolto e seguire un maestro. Tale sottile filo sarebbe secondo Irene evidenziato nel Mahāparinibbānasutta, laddove il Buddha poco prima della morte dice ai suoi discepoli: «Siate una luce (dīpa), non cercate altro rifugio, avendo l'insegnamento come vostra luce». I discepoli devono quindi tenere se stessi o l'insegnamento (il dharma) come propria luce? Secondo I. il Buddha lascia volutamente aperto questo interrogativo data la duplice esigenza di mantenere l'antidogmatismo e di far sì che si dia ascolto al maestro. Inoltre, sostiene I., l'interrogativo resta aperto anche perché rispondervi non è centrale per il Buddha, dato l'atteggiamento antimetafisico che gli ha fatto rifiutare una risposta a tante altre questioni di tipo metafisico postagli da discepoli o avversari.
Su quest'ultimo punto, però, ho un'obiezione. Infatti, l'avversione alla metafisica, che ha fatto sì che il Buddha non rispondesse a molte domande che gli parevano riguardare temi non rilevanti, non mi pare c'entri in questo caso. Seguire il dharma o se stessi non è una questione astratta e puramente speculativa, bensì ha forti conseguenze pratiche.
Se infatti è vero che il Buddha stesso paragona il proprio insegnamento a una zattera, da gettar via non appena si sia giunti sull'altra riva, è pur vero che su tale zattera si deve decidere di salire e pensare che funzioni. È perciò necessaria śraddhā, almeno inizialmente. Nel canone si trovano poi espressioni tipo saddhavimutta (corrispondente al sanscrito śraddhāvimukta), ossia "liberato tramite la fede" e si parla di fede nelle qualità del Buddha. Quindi, forse all'inizio la fede ha un ruolo preponderante, sostiene I.. In generale, prosegue I., il Buddha si muove sul filo dell'opposizione fra non dogmatismo e necessità di dare ascolto e seguire un maestro. Tale sottile filo sarebbe secondo Irene evidenziato nel Mahāparinibbānasutta, laddove il Buddha poco prima della morte dice ai suoi discepoli: «Siate una luce (dīpa), non cercate altro rifugio, avendo l'insegnamento come vostra luce». I discepoli devono quindi tenere se stessi o l'insegnamento (il dharma) come propria luce? Secondo I. il Buddha lascia volutamente aperto questo interrogativo data la duplice esigenza di mantenere l'antidogmatismo e di far sì che si dia ascolto al maestro. Inoltre, sostiene I., l'interrogativo resta aperto anche perché rispondervi non è centrale per il Buddha, dato l'atteggiamento antimetafisico che gli ha fatto rifiutare una risposta a tante altre questioni di tipo metafisico postagli da discepoli o avversari.
Su quest'ultimo punto, però, ho un'obiezione. Infatti, l'avversione alla metafisica, che ha fatto sì che il Buddha non rispondesse a molte domande che gli parevano riguardare temi non rilevanti, non mi pare c'entri in questo caso. Seguire il dharma o se stessi non è una questione astratta e puramente speculativa, bensì ha forti conseguenze pratiche.
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Fede e ragione nel Buddhismo
L'argomento deve aver toccato corde profonde, poiché ha suscitato un'accesa e interessante discussione. Ne riassumo qui i punti principali.
Punto di partenza è stato l'intervento di I.
1) Sostiene I. che nei Nikāya manchi totalmente un atteggiamento dogmatico, e che anzi fidarsi in modo dogmatico della Parola del Buddha sia considerato un impedimento. L'adepto non deve infatti aderire alla dottrina del Buddha acriticamente e in un testo (quale?) si dice: "Quando capite da voi stessi cos'e' giusto, seguitelo!".
2) I testi canonici esaltano l'importanza, addirittura l'essenzialità della fede. Ma śraddhā (o saddhā in pāli), continua I., non indica la fede dogmatica. All'interno di saddhā l'allievo ha il diritto e il dovere di criticare ciò che ha udito.
3) Per comprendere l'apparente contraddizione del ruolo essenziale della fede e della contemporanea avversione al dogmatismo, si può far appello, ancora secondo I., alla coppia "autorità"/"autorevolezza". La prima è imposta e prevede un consenso dovuto e totale, mentre nella seconda il consenso è attribuito consciamente in base a elementi precisi che si condividano.
4) Infine, sostiene I., i contenuti della Parola del Buddha non fanno riferimento a una conoscenza solo intellettuale, bensì sono legati alla realizzazione nell'esperienza (per usare un esempio freudiano che bene mi pare illustrare la contrapposizione fra conoscenza intellettuale e psicanalisi come esperienza: "nessuno si è mai saziato leggendo il menu di un ristorante").
Elenco ora alcune mie obiezioni, miranti non a demolire la tesi di I., bensì ad approfondire la nostra prospettica sul problema.
Circa 1) si può però notare che è di nuovo un'autorità, il Buddha, a dirci di capire da noi cosa sia giusto fare e di seguirlo. Stiamo quindi obbedendo a una sua indicazione quando ci mettiamo alla ricerca. È un assunto simile a quello su cui si sono basati e si basano molti scienziati cristiani nel sostenere che sia stato Dio stesso a mettere nell'uomo la sete di conoscere e a legittimare quindi la ricerca della conoscenza.
Circa 2), mi chiedo se mai esista una fede dogmatica. Certo non all'interno della Parola come strumento conoscitivo, ma forse si tratta in generale di uno specchietto per le allodole più che di un'alternativa reale.
Circa 3), mi chiedo, nel caso la coppia autorità/autorevolezza esista anche in India, quali siano i termini atti a esprimerla (anche se non si può del tutto escludere che un concetto esista anche indipendentemente da un termine). In caso non ci siano termini per indicare l'autorità come contrapposta all'autorevolezza, mi chiedo se esista una tale autorità. Il Nyāyabhāṣya definisce l'āptatva, che mi pare corrispondere all'autorevolezza, mentre la Mīmāṃsā potrebbe essere chiamata a difendere l'autorità del Veda? Ma una tale distinzione ha senso solo se attribuita dall'esterno e con chiari intenti denigratori alla Mīmāṃsā. Di fatto, in che senso e da chi sarebbe imposta l'autorità del Veda?
Circa 4), anche ammesso che appena iniziato a percorrere il cammino buddhista si possa riscontrare su di sé, a livello di esperienza, il risultato positivo conseguito, resta il problema di perché si inizi a percorrerlo. Inoltre, chiedendo scusa per l'irriverenza, mi chiedo che differenza ci sia allora fra il Buddhismo e un qualsiasi corso antistress di cui pure si può esperire su di sé il benefico impatto. Mi pare invece che il Buddhismo miri a essere di più e a volersi confrontare non solo sul piano della pratica, forte di una struttura teorica (le quattro nobili verità etc.) che mostra come quello buddhista sia un cammino sui lunghi tempi più proficuo di un breve corso di rilassamento. Ma se vuol convincere anche a tale livello, il Buddhismo non può rifugiarsi nel suo aspetto pratico per evitare domande di tipo filosofico.
Punto di partenza è stato l'intervento di I.
1) Sostiene I. che nei Nikāya manchi totalmente un atteggiamento dogmatico, e che anzi fidarsi in modo dogmatico della Parola del Buddha sia considerato un impedimento. L'adepto non deve infatti aderire alla dottrina del Buddha acriticamente e in un testo (quale?) si dice: "Quando capite da voi stessi cos'e' giusto, seguitelo!".
2) I testi canonici esaltano l'importanza, addirittura l'essenzialità della fede. Ma śraddhā (o saddhā in pāli), continua I., non indica la fede dogmatica. All'interno di saddhā l'allievo ha il diritto e il dovere di criticare ciò che ha udito.
3) Per comprendere l'apparente contraddizione del ruolo essenziale della fede e della contemporanea avversione al dogmatismo, si può far appello, ancora secondo I., alla coppia "autorità"/"autorevolezza". La prima è imposta e prevede un consenso dovuto e totale, mentre nella seconda il consenso è attribuito consciamente in base a elementi precisi che si condividano.
4) Infine, sostiene I., i contenuti della Parola del Buddha non fanno riferimento a una conoscenza solo intellettuale, bensì sono legati alla realizzazione nell'esperienza (per usare un esempio freudiano che bene mi pare illustrare la contrapposizione fra conoscenza intellettuale e psicanalisi come esperienza: "nessuno si è mai saziato leggendo il menu di un ristorante").
Elenco ora alcune mie obiezioni, miranti non a demolire la tesi di I., bensì ad approfondire la nostra prospettica sul problema.
Circa 1) si può però notare che è di nuovo un'autorità, il Buddha, a dirci di capire da noi cosa sia giusto fare e di seguirlo. Stiamo quindi obbedendo a una sua indicazione quando ci mettiamo alla ricerca. È un assunto simile a quello su cui si sono basati e si basano molti scienziati cristiani nel sostenere che sia stato Dio stesso a mettere nell'uomo la sete di conoscere e a legittimare quindi la ricerca della conoscenza.
Circa 2), mi chiedo se mai esista una fede dogmatica. Certo non all'interno della Parola come strumento conoscitivo, ma forse si tratta in generale di uno specchietto per le allodole più che di un'alternativa reale.
Circa 3), mi chiedo, nel caso la coppia autorità/autorevolezza esista anche in India, quali siano i termini atti a esprimerla (anche se non si può del tutto escludere che un concetto esista anche indipendentemente da un termine). In caso non ci siano termini per indicare l'autorità come contrapposta all'autorevolezza, mi chiedo se esista una tale autorità. Il Nyāyabhāṣya definisce l'āptatva, che mi pare corrispondere all'autorevolezza, mentre la Mīmāṃsā potrebbe essere chiamata a difendere l'autorità del Veda? Ma una tale distinzione ha senso solo se attribuita dall'esterno e con chiari intenti denigratori alla Mīmāṃsā. Di fatto, in che senso e da chi sarebbe imposta l'autorità del Veda?
Circa 4), anche ammesso che appena iniziato a percorrere il cammino buddhista si possa riscontrare su di sé, a livello di esperienza, il risultato positivo conseguito, resta il problema di perché si inizi a percorrerlo. Inoltre, chiedendo scusa per l'irriverenza, mi chiedo che differenza ci sia allora fra il Buddhismo e un qualsiasi corso antistress di cui pure si può esperire su di sé il benefico impatto. Mi pare invece che il Buddhismo miri a essere di più e a volersi confrontare non solo sul piano della pratica, forte di una struttura teorica (le quattro nobili verità etc.) che mostra come quello buddhista sia un cammino sui lunghi tempi più proficuo di un breve corso di rilassamento. Ma se vuol convincere anche a tale livello, il Buddhismo non può rifugiarsi nel suo aspetto pratico per evitare domande di tipo filosofico.
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mercoledì 2 maggio 2007
11.4 Confronto schematico fra Chakrabarti e Fricker
Riassumendo, sia Chakrabarti che Fricker condividono l'approccio di fondo, ossia:
a) è possibile ottenere conoscenza tramite testimonianza,
b) la testimonianza deve essere necessariamente di autore umano e legata ad ambiti verificabili,
c) l'orizzonte di riferimento in base al quale giudicare è il gioco linguistico del linguaggio sociale come enunciato da Wittgenstein.
Arindam Chakrabarti propone tre argomenti (in massima parte rielaborati a partire dalla tradizione indiana) in favore dell'autonomia della testimonianza come strumento conoscitivo:
1) La testimonianza non può essere ridotta a inferenza,
-perché la verifica dell'attendibilità del teste porta a circolarità,
-perché non è possibile costruire coerentemente l'inferenza.
2) La comprensione senza accettazione è solo un caso eccezionale, chi la applicasse sempre non avrebbe capito il gioco linguistico in cui si trova.
3) La conoscenza ottenuta tramite testimonianza differisce da quella ottenuta inferenzialmente:
-è diretta,
–non include il fatto che il parlante sappia l'italiano etc. (questo argomento è l'unico che mi pare assente in India),
–non si limita a "so che Y sa che x", bensì giunge a "x".
Quest'ultimo punto è l'unico non demolito (vedremo con quale successo) da E. Fricker, esso appare convincente, specie nella sua complessità. Le singole articolazioni, però, sono opinabili (non è detto che tutti condivideremmo l'impressione che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza sia diretta) o possono apparire sofistiche (come l'ultimo argomento).
Elizabeth Fricker si oppone a Chakrabarti come segue:
1) La testimonianza non può essere ricondotta a un'inferenza generale, ma solo perché essa non è un tipo a sé di inferenza. Si tratta invece di ricondurre a inferenza i singoli casi di testimonianza, e questo è possibile. Bisogna perciò localizzare il problema e riformulare l'inferenza in tale chiave. Ciò implica la rinuncia a tentare di fondare l'intero edificio della nostra conoscenza prescindendo dalla testimonianza.
2) Non credere a una testimonianza finché non sia stata verificata l'attendibilità del teste è una nostra precisa responsabilità epistemica. Chi semplicemente non prende in considerazione il problema (forse come i mīmāṃsaka nei confronti del Veda?) non ha capito il gioco linguistico e quindi non può nemmeno essere detto "conoscere" qualcosa.
Se la localizzazione del problema, con la conseguente rinuncia al fondazionalismo, sembra rendere le pretese di Fricker molto moderate, il punto 2) porta invece a conseguenze radicali.
La versione offerta da Fricker coglie in effetti alcuni punti scoperti dell'argomentazione di Chakrabarti (la cui difesa dell'autonomia della testimonianza, largamente coincidente con quella offerta dal Nyāya, non è l'unica possibile), in particolare circa l'attendibilità del teste. Se veramente essa è necessaria anche per il Nyāya, perché non dire che deve essere preliminarmente accertata?
a) è possibile ottenere conoscenza tramite testimonianza,
b) la testimonianza deve essere necessariamente di autore umano e legata ad ambiti verificabili,
c) l'orizzonte di riferimento in base al quale giudicare è il gioco linguistico del linguaggio sociale come enunciato da Wittgenstein.
Arindam Chakrabarti propone tre argomenti (in massima parte rielaborati a partire dalla tradizione indiana) in favore dell'autonomia della testimonianza come strumento conoscitivo:
1) La testimonianza non può essere ridotta a inferenza,
-perché la verifica dell'attendibilità del teste porta a circolarità,
-perché non è possibile costruire coerentemente l'inferenza.
2) La comprensione senza accettazione è solo un caso eccezionale, chi la applicasse sempre non avrebbe capito il gioco linguistico in cui si trova.
3) La conoscenza ottenuta tramite testimonianza differisce da quella ottenuta inferenzialmente:
-è diretta,
–non include il fatto che il parlante sappia l'italiano etc. (questo argomento è l'unico che mi pare assente in India),
–non si limita a "so che Y sa che x", bensì giunge a "x".
Quest'ultimo punto è l'unico non demolito (vedremo con quale successo) da E. Fricker, esso appare convincente, specie nella sua complessità. Le singole articolazioni, però, sono opinabili (non è detto che tutti condivideremmo l'impressione che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza sia diretta) o possono apparire sofistiche (come l'ultimo argomento).
Elizabeth Fricker si oppone a Chakrabarti come segue:
1) La testimonianza non può essere ricondotta a un'inferenza generale, ma solo perché essa non è un tipo a sé di inferenza. Si tratta invece di ricondurre a inferenza i singoli casi di testimonianza, e questo è possibile. Bisogna perciò localizzare il problema e riformulare l'inferenza in tale chiave. Ciò implica la rinuncia a tentare di fondare l'intero edificio della nostra conoscenza prescindendo dalla testimonianza.
2) Non credere a una testimonianza finché non sia stata verificata l'attendibilità del teste è una nostra precisa responsabilità epistemica. Chi semplicemente non prende in considerazione il problema (forse come i mīmāṃsaka nei confronti del Veda?) non ha capito il gioco linguistico e quindi non può nemmeno essere detto "conoscere" qualcosa.
Se la localizzazione del problema, con la conseguente rinuncia al fondazionalismo, sembra rendere le pretese di Fricker molto moderate, il punto 2) porta invece a conseguenze radicali.
La versione offerta da Fricker coglie in effetti alcuni punti scoperti dell'argomentazione di Chakrabarti (la cui difesa dell'autonomia della testimonianza, largamente coincidente con quella offerta dal Nyāya, non è l'unica possibile), in particolare circa l'attendibilità del teste. Se veramente essa è necessaria anche per il Nyāya, perché non dire che deve essere preliminarmente accertata?
martedì 1 maggio 2007
11.3 Chakrabarti sull'impossibilita' di ridurre la testimonianza a inferenza
Se si vuole ridurre la testimonianza a un caso di inferenza, sostiene Chakrabarti, bisogna aver chiaro che cosa viene inferito (vocaboli o contenuti mentali del parlante?). Si ricorderà che in ambito indiano la prima strada (riferire l'inferenza ai vocaboli) è stata tentata dal Vaiśeṣika (§7.2), mentre la seconda dalla Prābhākara Mīmāṃsā (cap. 7.1) e dalla scuola epistemologica buddhista (§7.4). Data la maggior fortuna di queste ultime scuole, parto dal tentativo di ridurre la testimonianza a un'inferenza riguardante il contenuto mentale del parlante. Tenendo a mente l'esempio "sulla montagna c'è fuoco perché c'è fumo" avremmo allora:
La frase "Irene è nata a Palermo" (locus, come la montagna)
è stata pronunciata in seguito alla conoscenza da parte del parlante della relazione fra soggetto e predicato (probandum, come il fuoco),
perché i vocaboli sono legate da contiguità, appropriatezza e aspettativa reciproca (probans, come il fumo).
Chakrabarti formula così l'inferenza seguendo gli schemi classici indiani (forse si potrebbe tentare con miglior fortuna proponendo modelli alternativi). Quello qui riportato è, infatti, molto simile al procedimento della Prābhākara Mīmāṃsā. Ma come intendere le tre caratteristiche dei vocaboli? La contiguità consiste nell'essere pronunciati uno dopo l'altro e Chakrabarti la considera non problematica (anche se in seno alla Mīmāṃsā si sono invece sviluppate ampie polemiche circa se la contiguità si riferisca a vocaboli o a concetti). L'aspettitiva reciproca è quella che fa sì che continuiamo ad ascoltare dopo "Irene è nata a..." o dopo "A Palermo è nata..." sapendo che sta per arrivare un altro vocabolo. Ma queste due caratteristiche da sole non bastano a concludere che la frase è stata pronunciata sulla base di una credenza vera nel parlante. Infatti, frasi perfettamente formate possono essere pronunciate da un pappagallo che ripeta quanto ha udito, o da un mentitore inaffidabile. Perciò, secondo Chakrabarti, l'onere di dimostrare che la frase è dovuta a una credenza vera nel parlante ricade sull'appropriatezza. Questa è definita come assenza di contraddizione fra i vocaboli presenti. Intesa in senso ristretto, la mancanza di contraddizione si limita a escludere casi tipo "innaffia con il fuoco" e non serve quindi all'uopo. Intesa in senso lato, può concidere con la verisimiglianza (la frase "Irene è nata a Palermo" suonerebbe allora composta da vocaboli dotati di appropriatezza se l'ascoltatore non fosse a conoscenza del contrario). Ma per essere certi dell'assenza di contraddizioni, si finirebbe per dover sapere che "Irene è nata a Palermo" è vero e si ricadrebbe perciò nella circolarità.
Infine, nota Chakrabarti, anche se fosse possibile inferire un contenuto mentale sulla base di una frase, non se ne trarrebbe la nostra conoscenza di tale contenuto. Verremmo perciò a sapere che nel parlante è presente il contenuto mentale "Irene è nata a Palermo", ma continueremmo a non conoscere che Irene è nata a Palermo!
Quest'ultimo argomento di Chakrabarti (che a sua volta lo riprende da un celebre Naiyāyika, Gaṅgeśa) può apparire sofistico. In effetti, non sembra esserci una vera differenza fra sapere che un parlante affidabile sostiene che Irene è nata a Palermo e sapere che Irene è nata a Palermo. Ma alcune piccole differenze ci sono (sono state enunciate alla fine di §11.1), e forse bastano, specie se unite alla nostra sensazione di acquisire conoscenza in modo diretto tramite la Parola come strumento conoscitivo.
Se non vogliamo postulare l'esistenza di contenuti mentali indipendenti da vocaboli e referenti esterni, vorremo invece dire che l'inferenza si riferisce a vocaboli. Avremo allora:
Irene (locus, come la montagna)
è nata a Palermo (probandum, come il fuoco),
perché è richiamata dal vocabolo "Irene" in una frase in cui compare anche "è nata a Palermo" e in cui i due vocaboli sono in rapporto di contiguità, appropriatezza e reciproca aspettativa.
Ma è chiaramente inaccettabile dire che ogni volta che una frase è ben formata il suo contenuto è vero, mentre se l'appropriatezza fosse intesa in senso forte avremmo di nuovo un caso di circolarità.
Dimostrato così che l'inferenza non è sostenibile né riguardo i vocaboli, né riguardo i contenuti mentali del parlante, Chakrabarti solleva un'obiezione più generale, ossia che il probans in un'inferenza dovrebbe essere noto prima dell'inizio dell'inferenza. Nell'argomento circostanziato (si veda 11.1) di Fricker, però, se si conoscesse già il probans (la frase è stata pronunciata nel momento t da un parlante che in tale momento e a tale riguardo era sincero e competente), l'inferenza sarebbe del tutto inutile.
Resta il problema della comprensione senza accettazione, che viene meglio spiegata dalle riduzioni della Parola come strumento conoscitivo a inferenza. Sostiene però Chakrabarti che questi siano casi particolari e che non ci sia bisogno, per spiegare a cosa si riferisca una frase falsa, di postulare l'esistenza di contenuti mentali oltre agli oggetti esterni. Il Nyāya propone infatti di interpretare ogni conoscenza falsa come una costruzione errata a partire da elementi realmente esistenti.
Concludo tirando le somme. Al di là della controversia formale sui tentativi di ridurre la testimonianza a inferenza, Chakrabarti si fonda sull'assunto che la comprensione senza accettazione sia un'eccezione e che la testimonianza sia uno strumento conoscitivo affidabile tanto quanto gli altri (che pure non sono infallibili). È possibile mettere in dubbio questi due assunti? Elizabeth Fricker lo fa, sostenendo che comprendere senza accettare prima di aver verificato l'attendibilità del parlante sia una nostra responsabilità epistemica. Inoltre, dato che molte frasi risultano non essere vere, non è giustificato trarne conoscenza valida, come dalla premessa "tutti gli uccelli volano". Tuttavia, Chakrabarti ha buon gioco a ricordare che anche gli altri strumenti conoscitivi non sono infallibili. Se dovesse superare tale criterio, anche la percezione sensibile non dovrebbe essere riconosciuta come strumento conoscitivo valido e si giungerebbe a una paralisi.
Per quanto riguarda la comprensione senza accettazione. Chakrabarti sostiene che manchi nei bambini (ma su questo si vedano i miei dubbi esposti al termine del capitolo dedicato a Fricker) e che ciò mostri come sia un atteggiamento complesso, derivato dalla comprensione con accettazione e non della forma base di comprensione. Fricker può replicare sostenendo che i bambini non conoscono ancora le regole del gioco linguistico e che perciò il loro comportamento linguistico è fuori dai paradigmi del linguaggio.
La frase "Irene è nata a Palermo" (locus, come la montagna)
è stata pronunciata in seguito alla conoscenza da parte del parlante della relazione fra soggetto e predicato (probandum, come il fuoco),
perché i vocaboli sono legate da contiguità, appropriatezza e aspettativa reciproca (probans, come il fumo).
Chakrabarti formula così l'inferenza seguendo gli schemi classici indiani (forse si potrebbe tentare con miglior fortuna proponendo modelli alternativi). Quello qui riportato è, infatti, molto simile al procedimento della Prābhākara Mīmāṃsā. Ma come intendere le tre caratteristiche dei vocaboli? La contiguità consiste nell'essere pronunciati uno dopo l'altro e Chakrabarti la considera non problematica (anche se in seno alla Mīmāṃsā si sono invece sviluppate ampie polemiche circa se la contiguità si riferisca a vocaboli o a concetti). L'aspettitiva reciproca è quella che fa sì che continuiamo ad ascoltare dopo "Irene è nata a..." o dopo "A Palermo è nata..." sapendo che sta per arrivare un altro vocabolo. Ma queste due caratteristiche da sole non bastano a concludere che la frase è stata pronunciata sulla base di una credenza vera nel parlante. Infatti, frasi perfettamente formate possono essere pronunciate da un pappagallo che ripeta quanto ha udito, o da un mentitore inaffidabile. Perciò, secondo Chakrabarti, l'onere di dimostrare che la frase è dovuta a una credenza vera nel parlante ricade sull'appropriatezza. Questa è definita come assenza di contraddizione fra i vocaboli presenti. Intesa in senso ristretto, la mancanza di contraddizione si limita a escludere casi tipo "innaffia con il fuoco" e non serve quindi all'uopo. Intesa in senso lato, può concidere con la verisimiglianza (la frase "Irene è nata a Palermo" suonerebbe allora composta da vocaboli dotati di appropriatezza se l'ascoltatore non fosse a conoscenza del contrario). Ma per essere certi dell'assenza di contraddizioni, si finirebbe per dover sapere che "Irene è nata a Palermo" è vero e si ricadrebbe perciò nella circolarità.
Infine, nota Chakrabarti, anche se fosse possibile inferire un contenuto mentale sulla base di una frase, non se ne trarrebbe la nostra conoscenza di tale contenuto. Verremmo perciò a sapere che nel parlante è presente il contenuto mentale "Irene è nata a Palermo", ma continueremmo a non conoscere che Irene è nata a Palermo!
Quest'ultimo argomento di Chakrabarti (che a sua volta lo riprende da un celebre Naiyāyika, Gaṅgeśa) può apparire sofistico. In effetti, non sembra esserci una vera differenza fra sapere che un parlante affidabile sostiene che Irene è nata a Palermo e sapere che Irene è nata a Palermo. Ma alcune piccole differenze ci sono (sono state enunciate alla fine di §11.1), e forse bastano, specie se unite alla nostra sensazione di acquisire conoscenza in modo diretto tramite la Parola come strumento conoscitivo.
Se non vogliamo postulare l'esistenza di contenuti mentali indipendenti da vocaboli e referenti esterni, vorremo invece dire che l'inferenza si riferisce a vocaboli. Avremo allora:
Irene (locus, come la montagna)
è nata a Palermo (probandum, come il fuoco),
perché è richiamata dal vocabolo "Irene" in una frase in cui compare anche "è nata a Palermo" e in cui i due vocaboli sono in rapporto di contiguità, appropriatezza e reciproca aspettativa.
Ma è chiaramente inaccettabile dire che ogni volta che una frase è ben formata il suo contenuto è vero, mentre se l'appropriatezza fosse intesa in senso forte avremmo di nuovo un caso di circolarità.
Dimostrato così che l'inferenza non è sostenibile né riguardo i vocaboli, né riguardo i contenuti mentali del parlante, Chakrabarti solleva un'obiezione più generale, ossia che il probans in un'inferenza dovrebbe essere noto prima dell'inizio dell'inferenza. Nell'argomento circostanziato (si veda 11.1) di Fricker, però, se si conoscesse già il probans (la frase è stata pronunciata nel momento t da un parlante che in tale momento e a tale riguardo era sincero e competente), l'inferenza sarebbe del tutto inutile.
Resta il problema della comprensione senza accettazione, che viene meglio spiegata dalle riduzioni della Parola come strumento conoscitivo a inferenza. Sostiene però Chakrabarti che questi siano casi particolari e che non ci sia bisogno, per spiegare a cosa si riferisca una frase falsa, di postulare l'esistenza di contenuti mentali oltre agli oggetti esterni. Il Nyāya propone infatti di interpretare ogni conoscenza falsa come una costruzione errata a partire da elementi realmente esistenti.
Concludo tirando le somme. Al di là della controversia formale sui tentativi di ridurre la testimonianza a inferenza, Chakrabarti si fonda sull'assunto che la comprensione senza accettazione sia un'eccezione e che la testimonianza sia uno strumento conoscitivo affidabile tanto quanto gli altri (che pure non sono infallibili). È possibile mettere in dubbio questi due assunti? Elizabeth Fricker lo fa, sostenendo che comprendere senza accettare prima di aver verificato l'attendibilità del parlante sia una nostra responsabilità epistemica. Inoltre, dato che molte frasi risultano non essere vere, non è giustificato trarne conoscenza valida, come dalla premessa "tutti gli uccelli volano". Tuttavia, Chakrabarti ha buon gioco a ricordare che anche gli altri strumenti conoscitivi non sono infallibili. Se dovesse superare tale criterio, anche la percezione sensibile non dovrebbe essere riconosciuta come strumento conoscitivo valido e si giungerebbe a una paralisi.
Per quanto riguarda la comprensione senza accettazione. Chakrabarti sostiene che manchi nei bambini (ma su questo si vedano i miei dubbi esposti al termine del capitolo dedicato a Fricker) e che ciò mostri come sia un atteggiamento complesso, derivato dalla comprensione con accettazione e non della forma base di comprensione. Fricker può replicare sostenendo che i bambini non conoscono ancora le regole del gioco linguistico e che perciò il loro comportamento linguistico è fuori dai paradigmi del linguaggio.
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11.2 Fricker e la riduzione del problema generale a problema locale
Elizabeth Fricker prende le mosse contestando l'assunto di fondo di Chakrabarti (si veda la fine del cap. 11.3), ossia la generale affidabilità della testimonianza come certificata da tutti noi. Sostiene infatti Fricker (si noti come Fricker e Chakrabarti si avversino sulla base di condivise categorie wittgesteiniane, non a caso provengono da Oxford):
"Qualunque partecipante competente ai giochi linguistici della società sa anche quanto inaffidabile possa essere il parlante e non è perciò disposto a conoscere qualcosa semplicemente perché è stato detto, senza verificare l'attendibilità del testimone" (questa tesi sarà d'ora in poi abbreviata con C).
Obiettivo polemico di Fricker è perciò l'idea secondo la quale
"È legittimo trarre conoscenza da una testimonianza anche senza previa verifica dell'affidabilità del parlante" (d'ora in poi abbreviata, seguendo Fricker, in PR).
PR non equivale a dire, con Reid, che gli uomini dicono generalmente la verità, né, con Wittgenstein, che dire la verità è una regola del gioco linguistico. Tali due tesi possono essere argomenti in favore di PR, ma non coincidono con questa e per questo Fricker non vi si sofferma. PR può essere contestata sostenendo che non sia possibile acquisire conoscenza tramite testimonianza, ma Fricker accetta questo e si limita invece a mostrare la necessità di una previa verifica dell'affidabilità del parlante mostrando che C. Poiché anche Chakrabarti riconosce, al contrario della Mīmāṃsā, un ruolo al parlante, tutto sta nella necessità di tale PREVIA verifica.
Fricker cerca perciò una premessa inferenziale da cui far discendere la conoscenza ottenuta da un parlante. Tale premessa deve permettere di passare legittimamente (e non automaticamente, come vorrebbe PR) da "X ha detto che y" a "y". Ovviamente, tale premessa non può essere "X ha detto veridicemente che y", dato che tale premessa includerebbe già la conclusione "y". Fricker sostiene inoltre che non abbia senso cercare una premessa generale da cui far discendere come conseguenza inferenziale la validità di quanto affermato da un parlante (è forse per questo motivo che i tentativi di scuola epistemologica buddhista e Prābhākara Mīmāṃsā sono falliti). È invece possibile stabilire caso per caso, in base a quanto conosciamo, indipendentemente dal parlante, circa l'argomento di cui questi parla e il parlante stesso, che in tale determinato caso il parlante è affidabile e trarne perciò inferenzialmente conoscenza valida. Questo potrebbe sembrare un risultato modesto, ma, sostiene Fricker, l'unica questione veramente rilevante sul piano epistemologico non è ridurre in astratto la testimonianza a inferenza, bensì farlo in concreto. Tale localizzazione è giustificata perché la testimonianza non è, secondo Fricker, uno strumento conoscitivo a sé, di cui vadano quindi cercate regole proprie. Al contrario, i singoli casi di conoscenza acquisita tramite testimonianza sono singoli casi di inferenza e come tali vanno trattati. La localizzazione rende l'argomento di Fricker immune a molte delle critiche dei sostenitori della Parola come strumento conoscitivo circa l'impossibilità di ridurre in generale la testimonianza a inferenza.
Localizzare il problema permette anche di evitare di doversi cimentare con il tentativo secondo me impossibile di rifondare la nostra conoscenza facendo a meno della testimonianza. Tutto quello che Fricker vuole realizzare è dimostrare inferenzialmente un singolo caso di testimonianza. In un tale caso localizzato, quanto sappiamo ex ante circa l'affidabilità del parlante e quanto sappiamo ex ante circa l'argomento di cui parla costituiscono il tribunale cui deve sottoporsi la testimonianza prima di essere accettata come conoscenza. Tali elementi possono a loro volta derivare da testimonianza. In tal senso, Fricker evita l'approccio fondazionalista in favore di un coerentismo (il coerentismo mira a dimostrare che la consocenza forma un insieme coerente, anche se indimostrabile uscendo al di fuori di questo) che mira a inferire un singolo contenuto di testimonianza all'interno dell'insieme coerente delle nostre conoscenze.
Proseguo ora mostrando le fasi del ragionamento di Fricker. Anzitutto, Fricker si oppone alla tesi di Chakrabarti, di molte scuole indiane, di Reid e di Wittgenstein, secondo cui siamo legittimati a dar credito a quanto udiamo, anche prima di verificare l'attendibilità del parlante. Si comportano senza considerare del tutto l'affidabilità del parlante, secondo Fricker, solo i bambini o comunque chi non ha capito le regole del gioco linguistico come istituzione sociale. Tali persone non possono nemmeno comprendere appieno il senso di "conoscere" e quindi non possono legittimamente sostenere di conoscere che x perché Y lo ha detto loro. Circa i casi (come quello di Chakrabarti etc.) in cui l'uditore sappia che è necessario che il parlante sia affidabile, ma sostenga che ci si possa fidare prima di accertarlo, Fricker afferma che l'uditore dovrebbe essere pronto ad abbandonare la credenza formata in base alla frase che ha udito se venisse a sapere che il parlante in tal caso non è competente o non è sincero. La differenza fra l'approccio di Chakrabarti e quello di Fricker sembra allora ridursi a se l'uditore debba accertare preventivamente l'assenza di elementi che contraddicano l'attendibilità del parlante o se debba solo essere pronto ad abbandonare la credenza sorta da quanto udito in caso tali elementi dovessero sopraggiungere. Tale differenza, sostiene Fricker, è quella che identifica i creduloni (che intitola il proprio intervento, appunto, "Contro la creduloneria").
Ribadisce infatti Fricker che se una buona percentuale di frasi non sono pronunciate da parlanti competenti e affidabili, allora non è epistemologicamente giustificato concludere che le frasi comunichino generalmente conoscenza valida, così come non sarebbe corretto inferire da "gli uccelli volano" che "questo uccello vola", giacché c'è una significativa percentuale di uccelli che non vola. L'argomento sembra cogente, ma mi chiedo se funzioni anche al di fuori della prospettiva della testimonianza come caso di inferenza. Inoltre, è un argomento scettico e come ogni argomento scettico è efficace, ma se coerentemente applicato rischia di portare alla paralisi e all'impossibilità di spiegare il fatto che in effetti gli esseri umani acquistino conoscenza.
Per evitare di incorrere nelle fallacie evidenziate da Chakrabarti (§11.3) nei tentativi indiani di ridurre la Parola come strumento conoscitivo a inferenza, oltre a localizzare il proprio tentativo Fricker riformula l'inferenza come segue:
1) Il parlante ha detto che f,
2) la frase pronunciata è sincera,
3) il parlante è competente rispetto all'argomento della frase e in questa determinata occasione
4) f è vera.
Come si vede, la sincerità è messa in relazione alla frase invece che al parlante in modo da ridurre al minimo i requisiti. Non ci interessa infatti che il parlante in generale sia sincero per quanto riguarda l'argomento trattato. Ci basta che questa singola sua frase sia sincera (certo, ci si potrebbe chiedere se sia possibile definire cosa sia per una frase essere "sincera" in modo distinto dall'essere "vera" o dall'essere pronunciata da un parlante sincero circa l'argomento trattato). Inoltre, la competenza è definita come segue: "Il parlante è competente se, qualora il parlante dicesse sinceramente che f in una determinata occasione O, allora si darebbe che f". In questo modo, la competenza è, ritiene Fricker, definita in modo non circolare.
In generale, l'argomento circostanziato di Fricker appare sensato e sostenibile. Non sarebbe applicabile al Veda o a ogni caso di Parola come strumento conoscitivo usata in senso non descrittivo o in ambito non ordinario. Prevede inoltre una responsabilità epistemica da parte dell'uditore che può essere richiesta, mi pare, solo in casi di eccezionale importanza (per esempio in tribunale), ma che non si dà nell'esperienza ordinaria. Questa, infatti, sarebbe paralizzata se ogni volta dovessimo inferire la validità di ciò che ci viene detto. uttavia, sostiene Fricker che di fatto anche nell'esperienza ordinaria noi mettiamo in atto automaticamente delle strategie cognitive volte a valutare l'attendibilità del teste con cui stiamo parlando. Il fatto che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza appaia diretta a Chakrabarti sarebbe quindi solo dovuto alla rapidità di tali operazioni. Fricker sostiene anche che sarebbe in linea di principio possibile analizzare scientificamente tali strategie in modo da poter render conto in modo completamente diverso, ma più esatto, del processo di acquisizione della conoscenza.
Questo punto della controversia Fricker/Chakrabarti è forse quello su cui è più difficile ottenere un consenso comune. Trattandosi infatti delle strategie che ogni singolo mette in atto, riconoscerle come tali dovrebbe spettare a ognuno (dato che, come mostra Bochenski nel testo citato al punto 23 della bibliografia, sulle nostre autopercezioni l'autorità ultima siamo noi stessi). Tuttavia, alcuni sono convinti di attuare strategie psicologiche atte a selezionare il teste cui rivolgersi chiedendo un'informazione e poi a valutare l'informazione stessa, mentre altri escludono di mettere in atto tali strategie nel contesto, per esempio, di un dialogo. I primi proseguono sostenendo che strategie simili sono presenti in forma embrionale anche fra i bambini, i secondi le considerano un'ipotesi artificiale e che non tiene conto degli scambi comunicativi complessi (sarà infatti possibile selezionare un teste cui chiedere una singola informazione, ma la comunicazione ordinaria è fatta molto più spesso di dialoghi a più voci, di interlocutori che non ci scegliamo etc.).
"Qualunque partecipante competente ai giochi linguistici della società sa anche quanto inaffidabile possa essere il parlante e non è perciò disposto a conoscere qualcosa semplicemente perché è stato detto, senza verificare l'attendibilità del testimone" (questa tesi sarà d'ora in poi abbreviata con C).
Obiettivo polemico di Fricker è perciò l'idea secondo la quale
"È legittimo trarre conoscenza da una testimonianza anche senza previa verifica dell'affidabilità del parlante" (d'ora in poi abbreviata, seguendo Fricker, in PR).
PR non equivale a dire, con Reid, che gli uomini dicono generalmente la verità, né, con Wittgenstein, che dire la verità è una regola del gioco linguistico. Tali due tesi possono essere argomenti in favore di PR, ma non coincidono con questa e per questo Fricker non vi si sofferma. PR può essere contestata sostenendo che non sia possibile acquisire conoscenza tramite testimonianza, ma Fricker accetta questo e si limita invece a mostrare la necessità di una previa verifica dell'affidabilità del parlante mostrando che C. Poiché anche Chakrabarti riconosce, al contrario della Mīmāṃsā, un ruolo al parlante, tutto sta nella necessità di tale PREVIA verifica.
Fricker cerca perciò una premessa inferenziale da cui far discendere la conoscenza ottenuta da un parlante. Tale premessa deve permettere di passare legittimamente (e non automaticamente, come vorrebbe PR) da "X ha detto che y" a "y". Ovviamente, tale premessa non può essere "X ha detto veridicemente che y", dato che tale premessa includerebbe già la conclusione "y". Fricker sostiene inoltre che non abbia senso cercare una premessa generale da cui far discendere come conseguenza inferenziale la validità di quanto affermato da un parlante (è forse per questo motivo che i tentativi di scuola epistemologica buddhista e Prābhākara Mīmāṃsā sono falliti). È invece possibile stabilire caso per caso, in base a quanto conosciamo, indipendentemente dal parlante, circa l'argomento di cui questi parla e il parlante stesso, che in tale determinato caso il parlante è affidabile e trarne perciò inferenzialmente conoscenza valida. Questo potrebbe sembrare un risultato modesto, ma, sostiene Fricker, l'unica questione veramente rilevante sul piano epistemologico non è ridurre in astratto la testimonianza a inferenza, bensì farlo in concreto. Tale localizzazione è giustificata perché la testimonianza non è, secondo Fricker, uno strumento conoscitivo a sé, di cui vadano quindi cercate regole proprie. Al contrario, i singoli casi di conoscenza acquisita tramite testimonianza sono singoli casi di inferenza e come tali vanno trattati. La localizzazione rende l'argomento di Fricker immune a molte delle critiche dei sostenitori della Parola come strumento conoscitivo circa l'impossibilità di ridurre in generale la testimonianza a inferenza.
Localizzare il problema permette anche di evitare di doversi cimentare con il tentativo secondo me impossibile di rifondare la nostra conoscenza facendo a meno della testimonianza. Tutto quello che Fricker vuole realizzare è dimostrare inferenzialmente un singolo caso di testimonianza. In un tale caso localizzato, quanto sappiamo ex ante circa l'affidabilità del parlante e quanto sappiamo ex ante circa l'argomento di cui parla costituiscono il tribunale cui deve sottoporsi la testimonianza prima di essere accettata come conoscenza. Tali elementi possono a loro volta derivare da testimonianza. In tal senso, Fricker evita l'approccio fondazionalista in favore di un coerentismo (il coerentismo mira a dimostrare che la consocenza forma un insieme coerente, anche se indimostrabile uscendo al di fuori di questo) che mira a inferire un singolo contenuto di testimonianza all'interno dell'insieme coerente delle nostre conoscenze.
Proseguo ora mostrando le fasi del ragionamento di Fricker. Anzitutto, Fricker si oppone alla tesi di Chakrabarti, di molte scuole indiane, di Reid e di Wittgenstein, secondo cui siamo legittimati a dar credito a quanto udiamo, anche prima di verificare l'attendibilità del parlante. Si comportano senza considerare del tutto l'affidabilità del parlante, secondo Fricker, solo i bambini o comunque chi non ha capito le regole del gioco linguistico come istituzione sociale. Tali persone non possono nemmeno comprendere appieno il senso di "conoscere" e quindi non possono legittimamente sostenere di conoscere che x perché Y lo ha detto loro. Circa i casi (come quello di Chakrabarti etc.) in cui l'uditore sappia che è necessario che il parlante sia affidabile, ma sostenga che ci si possa fidare prima di accertarlo, Fricker afferma che l'uditore dovrebbe essere pronto ad abbandonare la credenza formata in base alla frase che ha udito se venisse a sapere che il parlante in tal caso non è competente o non è sincero. La differenza fra l'approccio di Chakrabarti e quello di Fricker sembra allora ridursi a se l'uditore debba accertare preventivamente l'assenza di elementi che contraddicano l'attendibilità del parlante o se debba solo essere pronto ad abbandonare la credenza sorta da quanto udito in caso tali elementi dovessero sopraggiungere. Tale differenza, sostiene Fricker, è quella che identifica i creduloni (che intitola il proprio intervento, appunto, "Contro la creduloneria").
Ribadisce infatti Fricker che se una buona percentuale di frasi non sono pronunciate da parlanti competenti e affidabili, allora non è epistemologicamente giustificato concludere che le frasi comunichino generalmente conoscenza valida, così come non sarebbe corretto inferire da "gli uccelli volano" che "questo uccello vola", giacché c'è una significativa percentuale di uccelli che non vola. L'argomento sembra cogente, ma mi chiedo se funzioni anche al di fuori della prospettiva della testimonianza come caso di inferenza. Inoltre, è un argomento scettico e come ogni argomento scettico è efficace, ma se coerentemente applicato rischia di portare alla paralisi e all'impossibilità di spiegare il fatto che in effetti gli esseri umani acquistino conoscenza.
Per evitare di incorrere nelle fallacie evidenziate da Chakrabarti (§11.3) nei tentativi indiani di ridurre la Parola come strumento conoscitivo a inferenza, oltre a localizzare il proprio tentativo Fricker riformula l'inferenza come segue:
1) Il parlante ha detto che f,
2) la frase pronunciata è sincera,
3) il parlante è competente rispetto all'argomento della frase e in questa determinata occasione
4) f è vera.
Come si vede, la sincerità è messa in relazione alla frase invece che al parlante in modo da ridurre al minimo i requisiti. Non ci interessa infatti che il parlante in generale sia sincero per quanto riguarda l'argomento trattato. Ci basta che questa singola sua frase sia sincera (certo, ci si potrebbe chiedere se sia possibile definire cosa sia per una frase essere "sincera" in modo distinto dall'essere "vera" o dall'essere pronunciata da un parlante sincero circa l'argomento trattato). Inoltre, la competenza è definita come segue: "Il parlante è competente se, qualora il parlante dicesse sinceramente che f in una determinata occasione O, allora si darebbe che f". In questo modo, la competenza è, ritiene Fricker, definita in modo non circolare.
In generale, l'argomento circostanziato di Fricker appare sensato e sostenibile. Non sarebbe applicabile al Veda o a ogni caso di Parola come strumento conoscitivo usata in senso non descrittivo o in ambito non ordinario. Prevede inoltre una responsabilità epistemica da parte dell'uditore che può essere richiesta, mi pare, solo in casi di eccezionale importanza (per esempio in tribunale), ma che non si dà nell'esperienza ordinaria. Questa, infatti, sarebbe paralizzata se ogni volta dovessimo inferire la validità di ciò che ci viene detto. uttavia, sostiene Fricker che di fatto anche nell'esperienza ordinaria noi mettiamo in atto automaticamente delle strategie cognitive volte a valutare l'attendibilità del teste con cui stiamo parlando. Il fatto che la conoscenza ottenuta tramite testimonianza appaia diretta a Chakrabarti sarebbe quindi solo dovuto alla rapidità di tali operazioni. Fricker sostiene anche che sarebbe in linea di principio possibile analizzare scientificamente tali strategie in modo da poter render conto in modo completamente diverso, ma più esatto, del processo di acquisizione della conoscenza.
Questo punto della controversia Fricker/Chakrabarti è forse quello su cui è più difficile ottenere un consenso comune. Trattandosi infatti delle strategie che ogni singolo mette in atto, riconoscerle come tali dovrebbe spettare a ognuno (dato che, come mostra Bochenski nel testo citato al punto 23 della bibliografia, sulle nostre autopercezioni l'autorità ultima siamo noi stessi). Tuttavia, alcuni sono convinti di attuare strategie psicologiche atte a selezionare il teste cui rivolgersi chiedendo un'informazione e poi a valutare l'informazione stessa, mentre altri escludono di mettere in atto tali strategie nel contesto, per esempio, di un dialogo. I primi proseguono sostenendo che strategie simili sono presenti in forma embrionale anche fra i bambini, i secondi le considerano un'ipotesi artificiale e che non tiene conto degli scambi comunicativi complessi (sarà infatti possibile selezionare un teste cui chiedere una singola informazione, ma la comunicazione ordinaria è fatta molto più spesso di dialoghi a più voci, di interlocutori che non ci scegliamo etc.).
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11.1 Arindam Chakrabarti difende l'autonomia della testimonianza
Chakrabarti basa la sua argomentazione su una premessa che abbiamo visto sviluppata anche in ambito indiano, ossia l'impossibilità di separare la mera comprensione di una frase (quella che nel capitolo 7 abbiamo definito "comprensione senza accettazione") dal considerarne vero il contenuto. Se ciò fosse possibile, sarebbe lecito dire che la testimonianza è in realtà un caso di inferenza. Si potrebbe infatti inferire da una frase udita (ma non ancora accettata come vera) il contenuto mentale corrispondente nella mente del parlante e da tale contenuto, se il parlante è affidabile, la presenza di un referente esterno. Invece, continua Chakrabarti, nei casi normali noi comprendiamo direttamente il contenuto di una frase, senza passare dal passaggio intermedio di una comprensione senza accettazione. Quando questa si verifica, per esempio nel caso di barzellette o di parlanti notoriamente inaffidabili, essa si configura come un'eccezione alla regola.
Ricordo che la posizione di Chakrabarti esclude volutamente tutti i casi di testimonianza divina o riguardante ambiti non verificabili dall'uomo. Come già il Nyāya, quindi, anche Chakrabarti non può prescindere da un autore affidabile. Tuttavia, sostiene che dire "conosco che x perché me lo ha detto il signor Y, il quale è un parlate affidabile" non si configuri come inferenza. Esso è semplicemente un modo di render ragione della propria credenza e se ciò bastasse a definire un'inferenza anche le nostre conoscenze percettive diverrebbero tali (dato che anche nel caso della percezione possiamo spiegare i motivi che ci spingono a credere che, per esempio, vediamo davanti ai nostri occhi un foglio bianco). Quest'ultimo passaggio evidenzia infatti come dire "lo so perché me lo ha detto il signor Y" non giustifichi la mia conoscenza che x, la quale è stata ottenuta direttamente dalla frase di Y, bensì la mia consapevolezza di conoscere che x. Con un esempio, Irene mi dice di essere nata a Palermo e io conosco immediatamente che Irene è nata a Palermo. Se mi si chiede come faccio a saperlo rispondo "perché me lo ha detto Irene, la quale per quanto riguarda se stessa è senz'altro una parlante affidabile". Questo non è la premessa da cui ho inferito che Irene sia nata a Palermo (conoscenza di primo grado). Tutt'al più può essere la premessa per cui ho inferito di conoscere che Irene è nata a Palermo (conoscenza di secondo grado).
Questa è la tesi generale. Espongo ora alcuni dettagli. Chakrabarti dedica un breve spazio alla confutazione di chi potrebbe voler ricondurre la testimonianza alla percezione diretta o alla memoria. Contro la prima tesi, nota che se la testimonianza fosse un caso di percezione sensibile, farebbe parte del contenuto della testimonianza tutto quello che udiamo (il tono della voce, l'accento di chi parla etc.) e non solo, per esempio, il fatto che Irene sia nata a Palermo. Inoltre, il contenuto della testimonianza è fissato una volta per tutte dal modo in cui è stato espresso dal parlante. Quello della percezione sensibile, invece, può essere rielaborato. Se ho visto un gatto poggiato su un tappeto, posso per esempio descrivere la mia esperienza anche come "ho visto un tappeto sotto il gatto" o in altri modi ancora. Contro l'idea che la testimonianza sia un caso di memoria, Chakrabarti si limita a notare che possiamo conoscere tramite testimonianza cose che non abbiamo già esperito.
Ma veniamo al cuore della disputa Chakrabarti/Fricker, ossia la riduzione della testimonianza all'inferenza.
Chakrabarti considera prima il caso base:
1) Il parlante P è affidabile,
2) P ha detto che f,
3) f è vera.
Tale riduzione all'inferenza non è sostenibile, perché non tiene conto di conoscenze ottenute tramite parlanti inaffidabili (per esempio i rapporti di una spia, ma anche il caso di un mentitore abituale che non sappia di star dicendo la verità). Più radicale è poi il problema determinato dal fatto di come sia possibile stabilire l'attendibilità del parlante. Si ricorderà che secondo il Nyāya l'attendibilità del teste è data da tre criteri, il desiderio di comunicare, la sincerità e la competenza. Il primo criterio non è preso in considerazione da Chakrabarti, che si rivolge a uomini normali e che quindi possono essere presupposti (al contrario di eremiti etc.) come desiderosi di comunicare. La sincerità non è definita da Chakrabarti, ma mi pare sia considerata come la corrispondenza fra ciò che il parlante pensa e ciò che dice. Ora, ogni prova della sincerità del parlante nel passato è quindi necessariamente linguistica e non può essere acquisita dall'esterno. La competenza viene invece intesa come la corrispondenza fra i contenuti mentali del parlate e i dati di fatto esterni. Ma anche in questo caso, per poter giudicare dei contenuti mentali del parlante abbiamo solo le sue parole. Per cui, nel caso di parlanti usualmente mentitori o incompetenti, non saremmo mai in grado di stabilire con certezza né il primo né il secondo tipo di corrispondenza.
Chakrabarti passa perciò a considerare una versione minore del primo tentativo di riduzione. È l'argomento circostanziato, elaborato da Elizabeth Fricker (per cui si vedano i capp. 11 e 11.2):
I) Il parlante P ha detto che f nel momento t,
II) nel momento t il parlante P era sincero e competente riguardo f,
III) f è vera.
Si noti che tale argomento non può essere accusato di circolarità, perché la conclusione non è contenuta già in una delle sue premesse, bensì solo nelle premesse messe insieme. Si potrebbe chiamare anche questo un caso di circolarità, ma allora si dovrebbe concludere che tutti i ragionamenti deduttivi sono circolari.
Più problematico, sempre secondo Chakrabarti, è stabilire se sia effettivamente possibile stabilire I) senza aver stabilito III). Inoltre, tramite testimonianza io vengo a conoscere qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto a quanto conoscerei tramite l'inferenza I/II/III. Di più perché quando Irene mi dice di essere nata a Palermo io non conosco solo che Irene, la quale è sincera e competente, pensa di essere nata a Palermo. Io conosco che Irene è nata a Palermo. Di meno, perché della testimonianza non fanno parte tutti i contenuti accessori che farebbero parte dell'inferenza I/II/III, ossia il fatto che Irene sia convinta della propria sicilianità, il fatto che voglia parlarmi apertamente delle sue origini, il fatto che sappia parlare in italiano etc.
Ricordo che la posizione di Chakrabarti esclude volutamente tutti i casi di testimonianza divina o riguardante ambiti non verificabili dall'uomo. Come già il Nyāya, quindi, anche Chakrabarti non può prescindere da un autore affidabile. Tuttavia, sostiene che dire "conosco che x perché me lo ha detto il signor Y, il quale è un parlate affidabile" non si configuri come inferenza. Esso è semplicemente un modo di render ragione della propria credenza e se ciò bastasse a definire un'inferenza anche le nostre conoscenze percettive diverrebbero tali (dato che anche nel caso della percezione possiamo spiegare i motivi che ci spingono a credere che, per esempio, vediamo davanti ai nostri occhi un foglio bianco). Quest'ultimo passaggio evidenzia infatti come dire "lo so perché me lo ha detto il signor Y" non giustifichi la mia conoscenza che x, la quale è stata ottenuta direttamente dalla frase di Y, bensì la mia consapevolezza di conoscere che x. Con un esempio, Irene mi dice di essere nata a Palermo e io conosco immediatamente che Irene è nata a Palermo. Se mi si chiede come faccio a saperlo rispondo "perché me lo ha detto Irene, la quale per quanto riguarda se stessa è senz'altro una parlante affidabile". Questo non è la premessa da cui ho inferito che Irene sia nata a Palermo (conoscenza di primo grado). Tutt'al più può essere la premessa per cui ho inferito di conoscere che Irene è nata a Palermo (conoscenza di secondo grado).
Questa è la tesi generale. Espongo ora alcuni dettagli. Chakrabarti dedica un breve spazio alla confutazione di chi potrebbe voler ricondurre la testimonianza alla percezione diretta o alla memoria. Contro la prima tesi, nota che se la testimonianza fosse un caso di percezione sensibile, farebbe parte del contenuto della testimonianza tutto quello che udiamo (il tono della voce, l'accento di chi parla etc.) e non solo, per esempio, il fatto che Irene sia nata a Palermo. Inoltre, il contenuto della testimonianza è fissato una volta per tutte dal modo in cui è stato espresso dal parlante. Quello della percezione sensibile, invece, può essere rielaborato. Se ho visto un gatto poggiato su un tappeto, posso per esempio descrivere la mia esperienza anche come "ho visto un tappeto sotto il gatto" o in altri modi ancora. Contro l'idea che la testimonianza sia un caso di memoria, Chakrabarti si limita a notare che possiamo conoscere tramite testimonianza cose che non abbiamo già esperito.
Ma veniamo al cuore della disputa Chakrabarti/Fricker, ossia la riduzione della testimonianza all'inferenza.
Chakrabarti considera prima il caso base:
1) Il parlante P è affidabile,
2) P ha detto che f,
3) f è vera.
Tale riduzione all'inferenza non è sostenibile, perché non tiene conto di conoscenze ottenute tramite parlanti inaffidabili (per esempio i rapporti di una spia, ma anche il caso di un mentitore abituale che non sappia di star dicendo la verità). Più radicale è poi il problema determinato dal fatto di come sia possibile stabilire l'attendibilità del parlante. Si ricorderà che secondo il Nyāya l'attendibilità del teste è data da tre criteri, il desiderio di comunicare, la sincerità e la competenza. Il primo criterio non è preso in considerazione da Chakrabarti, che si rivolge a uomini normali e che quindi possono essere presupposti (al contrario di eremiti etc.) come desiderosi di comunicare. La sincerità non è definita da Chakrabarti, ma mi pare sia considerata come la corrispondenza fra ciò che il parlante pensa e ciò che dice. Ora, ogni prova della sincerità del parlante nel passato è quindi necessariamente linguistica e non può essere acquisita dall'esterno. La competenza viene invece intesa come la corrispondenza fra i contenuti mentali del parlate e i dati di fatto esterni. Ma anche in questo caso, per poter giudicare dei contenuti mentali del parlante abbiamo solo le sue parole. Per cui, nel caso di parlanti usualmente mentitori o incompetenti, non saremmo mai in grado di stabilire con certezza né il primo né il secondo tipo di corrispondenza.
Chakrabarti passa perciò a considerare una versione minore del primo tentativo di riduzione. È l'argomento circostanziato, elaborato da Elizabeth Fricker (per cui si vedano i capp. 11 e 11.2):
I) Il parlante P ha detto che f nel momento t,
II) nel momento t il parlante P era sincero e competente riguardo f,
III) f è vera.
Si noti che tale argomento non può essere accusato di circolarità, perché la conclusione non è contenuta già in una delle sue premesse, bensì solo nelle premesse messe insieme. Si potrebbe chiamare anche questo un caso di circolarità, ma allora si dovrebbe concludere che tutti i ragionamenti deduttivi sono circolari.
Più problematico, sempre secondo Chakrabarti, è stabilire se sia effettivamente possibile stabilire I) senza aver stabilito III). Inoltre, tramite testimonianza io vengo a conoscere qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto a quanto conoscerei tramite l'inferenza I/II/III. Di più perché quando Irene mi dice di essere nata a Palermo io non conosco solo che Irene, la quale è sincera e competente, pensa di essere nata a Palermo. Io conosco che Irene è nata a Palermo. Di meno, perché della testimonianza non fanno parte tutti i contenuti accessori che farebbero parte dell'inferenza I/II/III, ossia il fatto che Irene sia convinta della propria sicilianità, il fatto che voglia parlarmi apertamente delle sue origini, il fatto che sappia parlare in italiano etc.
11. Fra filosofia indiana e occidentale: la disputa Fricker/Chakrabarti
Come già accennato, Arindam Chakrabarti ha una doppia formazione, da paṇḍit indiano tradizionale (ha studiato con un maestro logica, ossia Nyāya, ma anche molte altre discipline) e da filosofo analitico (ha preso un dottorato a Oxford, studiando con M. Dummett e P. Strawson). Nel volume (Knowing from Words, citato al punto 21 della bibliografia) da lui curato assieme a Bimal Krishna Matilal ha tentato di mettere a confronto voci soprattutto occidentali sul problema della conoscenza ottenuta tramite parole, in termini occidentali la testimonianza. Da bravo filosofo analitico ha volutamente tralasciato gli ambiti trascendenti e sovrumani. Viene perciò presa in considerazione nel testo solo la conoscenza legata a un autore umano (pauruṣeya) e ad ambiti in cui è (almeno in linea di principio) possibile una verifica. A partire da tali premesse, Chakrabarti sostiene che sia possibile riconoscere la testimonianza come uno strumento conoscitivo distinto e non riducibile ad altri, soprattutto non riducibile all'inferenza. Gli si oppone, in Knowing from Words come in altri scritti, Elizabeth Fricker, che ha avuto il merito di essere fra i primi filosofi occidentali a occuparsi della testimonianza da un punto di vista prettamente epistemologico. Anche Fricker conviene che sia possibile acquisire conoscenza valida tramite testimonianza (tale conclusione non è ovvia, se si pensa che in Occidente la conoscenza è normalmente definita come "credenza vera giustificata" e che molti filosofi, da Platone a Locke, non sono stati disposti ad ammettere "lo so perché me lo ha detto x" fra le possibile giustificazioni atte a conferire a una credenza il rango di conoscenza). Dunque, la posta in gioco, per quanto riguarda lo scopo di questo corso, è la possiblità di riconoscere alla Parola un ruolo di strumento conoscitivo autonomo anche all'interno degli stretti vincoli imposti dalla filosofia analitica, ossia autore umano e ambito circoscritto dal criterio della verificabilità.
domenica 8 aprile 2007
10.3 Direzioni di ricerca
Elenco qui alcune ulteriori direzioni su cui lavorare. L'elenco ha puro carattere esemplificativo e non vuol essere vincolante. Ciascuna può scegliere di approfondire un tema di propria scelta, purché l'approccio sia critico e non meramente compilativo.
L'elenco è suddiviso in base alle competenze, ma anche questa indicazione non è vincolante.
-Per chi conosce il sanscrito:
1. confrontare la definizione di parlante esperto (āpta) del Nyāya con quella che si trova nel commento di Gauḍapāda alle SK. Il commento è stato tradotto da Corrado Pensa nel suo volumetto "Samkhyakarika di Isvarakrsna" (1a della bibliografia), ma bisognerebbe consultare il sanscrito per vedere cosa se ne può trarre circa la (sfuggente) teoria sāṅkhya della Parola come strumento conoscitivo.
-Per chi conosce l'inglese e/o il sanscrito:
2. analizzare la nozione di Parola indipendente dal suo autore (śāstra) nel Vedānta di Śaṅkara e Rāmānuja. Un punto di partenza potrebbe essere costituito dall'articolo di Sharma (n. 15 della bibliografia). Questo è stimolante, ma non sono certa di Sharma come autore esperto e affidabile. Varrebbe perciò la pena di verificare il suo ragionamento sulle fonti sanscrite (che indica, ma non cita) e di filosofi indiani contemporanei (in inglese, che cita).
-Per chi vuole lavorare sull'India, ma mediante l'italiano:
3. Controllare nella splendida traduzione di Raniero Gnoli di due capolavori dello Scivaismo monista kashmiro, il Tantrāloka (trad. it in Adelphi con il titolo "Luce delle Sacre Scritture", ristampato come "Luce dei Tantra") e il Tantrasāra (tr. it in BUR) di Abhinavagupta, il ruolo della parola come strumento conoscitivo. Si vedano in particolare i capitoli XXXV e XXXVII e l'indice dei nomi nel Tantrāloka (anche sotto "prasiddhi"). Sarebbe interessante notare quali elementi derivino dal Nyāya, quali dalla Mīmāṃsā e quali siano originali.
-Senza limiti di competenze:
4. Come potrebbe rispondere un esponente della scuola epistemologica buddhista all'argomento mīmāṃsaka sul fatto che non è possibile che il Buddha sia un parlante esperto e affidabile, dato che non può esserci in lui desiderio di comunicare? (Si pensi al problema della compassione e del suo accrescersi, alla semantica di "desiderio" come l'abbiamo osservata in varie scuole, al tema mīmāṃsaka dell'impossibilità di ciò che esce dalla norma).
5. È ipotizzabile un'applicazione pratica, magari politica, delle tesi qui esposte? Che portato avrebbero in ambiti quali il dialogo fra religioni e culture diverse e fra scienza e fede? E in ambito giuridico? (Si pensi al problema dell'attendibilità del teste, delle fonti del diritto, del rapporto fra Costituzione e leggi ordinarie, alle teocrazie...).
-Per chi volesse cimentarsi con temi di filosofia occidentale, alcuni suggerimenti sono elencati nel cap. 9 "applicazioni occidentali" (Hume e la Parola come strumento conoscitivo; la filosofia moderna in Occidente e il suo complesso rapporto con Dio come garanzia dell'autonomia del sapere...). Inoltre,
6. Dai testi di Bochenski (si vedano sopra i nn. 23, 24, 25 della bibliografia, io ho tratto la distinzione fra autorità epistemica e deontica. È riuscito il suo tentativo di mostrare una logica dell'autorità a prescindere dalle differenze fra India ed Europa? O il caso indiano ha delle specificità irriducibili? Se sì, quali?
L'elenco è suddiviso in base alle competenze, ma anche questa indicazione non è vincolante.
-Per chi conosce il sanscrito:
1. confrontare la definizione di parlante esperto (āpta) del Nyāya con quella che si trova nel commento di Gauḍapāda alle SK. Il commento è stato tradotto da Corrado Pensa nel suo volumetto "Samkhyakarika di Isvarakrsna" (1a della bibliografia), ma bisognerebbe consultare il sanscrito per vedere cosa se ne può trarre circa la (sfuggente) teoria sāṅkhya della Parola come strumento conoscitivo.
-Per chi conosce l'inglese e/o il sanscrito:
2. analizzare la nozione di Parola indipendente dal suo autore (śāstra) nel Vedānta di Śaṅkara e Rāmānuja. Un punto di partenza potrebbe essere costituito dall'articolo di Sharma (n. 15 della bibliografia). Questo è stimolante, ma non sono certa di Sharma come autore esperto e affidabile. Varrebbe perciò la pena di verificare il suo ragionamento sulle fonti sanscrite (che indica, ma non cita) e di filosofi indiani contemporanei (in inglese, che cita).
-Per chi vuole lavorare sull'India, ma mediante l'italiano:
3. Controllare nella splendida traduzione di Raniero Gnoli di due capolavori dello Scivaismo monista kashmiro, il Tantrāloka (trad. it in Adelphi con il titolo "Luce delle Sacre Scritture", ristampato come "Luce dei Tantra") e il Tantrasāra (tr. it in BUR) di Abhinavagupta, il ruolo della parola come strumento conoscitivo. Si vedano in particolare i capitoli XXXV e XXXVII e l'indice dei nomi nel Tantrāloka (anche sotto "prasiddhi"). Sarebbe interessante notare quali elementi derivino dal Nyāya, quali dalla Mīmāṃsā e quali siano originali.
-Senza limiti di competenze:
4. Come potrebbe rispondere un esponente della scuola epistemologica buddhista all'argomento mīmāṃsaka sul fatto che non è possibile che il Buddha sia un parlante esperto e affidabile, dato che non può esserci in lui desiderio di comunicare? (Si pensi al problema della compassione e del suo accrescersi, alla semantica di "desiderio" come l'abbiamo osservata in varie scuole, al tema mīmāṃsaka dell'impossibilità di ciò che esce dalla norma).
5. È ipotizzabile un'applicazione pratica, magari politica, delle tesi qui esposte? Che portato avrebbero in ambiti quali il dialogo fra religioni e culture diverse e fra scienza e fede? E in ambito giuridico? (Si pensi al problema dell'attendibilità del teste, delle fonti del diritto, del rapporto fra Costituzione e leggi ordinarie, alle teocrazie...).
-Per chi volesse cimentarsi con temi di filosofia occidentale, alcuni suggerimenti sono elencati nel cap. 9 "applicazioni occidentali" (Hume e la Parola come strumento conoscitivo; la filosofia moderna in Occidente e il suo complesso rapporto con Dio come garanzia dell'autonomia del sapere...). Inoltre,
6. Dai testi di Bochenski (si vedano sopra i nn. 23, 24, 25 della bibliografia, io ho tratto la distinzione fra autorità epistemica e deontica. È riuscito il suo tentativo di mostrare una logica dell'autorità a prescindere dalle differenze fra India ed Europa? O il caso indiano ha delle specificità irriducibili? Se sì, quali?
10.2 Bibliografia ragionata
Fornisco qui alcuni titoli orientativi. Nessuno è un testo obbligatorio, ma potrebbe esservi utile nella seconda parte del corso, quando dovrete partecipare in modo più attivo (con una tesina e/o un intervento in classe per esporla).
Assieme ai titoli, potete leggere i miei commenti personali in merito.
Sulla Parola come strumento conoscitivo nel Sāṅkhya:
1) Shujun Motegi, Śabda in the Yuktidīpikā, in Word and Meaning in Indian Philosophy, ed. by Masaaki Hattori, "Acta Asiatica" 90 (2006), pp. 39-54 (disponibile nella biblioteca del dipartimento studi orientali, edificio della facoltà di lettere, I piano, città universitaria).
L'articolo è in due parti, la prima dedicata all'aspetto fonico del linguaggio, la seconda alla Parola come strumento conoscitivo, che Motegi chiama comunque "language".
1a) Īśvarakṛṣṇa, Sāṁkhyakārikā con il commento di Gauḍapāda, traduzione di Corrado Pensa, 1978, ristampato da Asram Vidya, Roma 1994 (disponibile all'IsIAO, alla biblioteca Alessandrina, alla Nazionale e alla biblioteca del dipartimento di filosofia).
Sull'apologia della Parola Vedica nel Nyāya (non ostante il titolo):
2) George Chemparathy, L'autorité du Veda selon les Nyāya-Vaiśeṣikas, Louvain-la-Neuve (potete chiedermi le fotocopie).
Vi si segue l'evoluzione del concetto di parlante esperto dal NS in poi, attraverso lo stadio del parlante esperto come ṛṣi e infine come Dio. Il testo contiene anche interessanti notazioni sull'attitudine del Nyāya rispetto a quello della Mīmāṃsā nei confronti del Veda.
Sui criteri per definire l'autorità del Buddha nella scuola epistemologica buddhista:
3) Eli Franco, Dharmakīrti on Compassion and Rebirth, Wien (biblioteca del dipartimento di studi orientali): Introduzione e I capitolo (pp.1-43).
4) R. Jackson, «Journal of Indian Philosophy» 1988 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
5) Shoryo Katsura [Hrsg.], Dharmakirti’s thought and its impact on Indian and Tibetan philosophy. Proceedings of the third International Dharmakirti Conference, Hiroshima, November 4 - 6, 1997, Verl. d. Österr. Akad. d. Wiss., Wien 1999.
Verl. d. Österr. Akad. d. Wiss.: i capitoli sulla Pramāṇasiddhi (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
6) David Seyfort Ruegg, «Wiener Zeitschrift der Kunde Südasiens» 38, 1994 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, periodico n. 196).
7)David Seyfort Ruegg, «Bulletin of the School of Oriental and African Studies» 57.2 1994 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, periodico n. 40).
8) Ernst Steinkellner, The spiritual place of Buddhism in the Buddhist epistemological School, 1982 (potete chiedermi le fotocopie)
9) Tom Tillemans, Persons of Authority, Stuttgart 1993 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, collocazione TIB C 326).
10) Tom Tillemans, Scripture, Logic, Language (biblioteca del dipartimento di studi orientali, collocazione TIB C 462).
11) VAN BIJLERT V.A. EPISTEMOLOGY AND SPIRITUAL AUTHORITY WSTB 20 WIEN 1989
11a) Paul. J. Griffiths, Paul J., “Omniscience in the Mahāyānasūtrālaṅkāra and its commentaries”, Indo-Iranian Journal 33, 1990: 85-120.
(Sulla riduzione della Parola come strumento conoscitivo all'inferenza nella scuola epistemologica buddhista si veda 14).
Circa l'interpretazione dell'autorità del Buddha e del suo ruolo, si oppongono Franco (3 e un articolo in 5) e Steinkellner (8 e un articolo in 5). Il primo sostiene che la scuola epistemologica buddhista giunga a dimostrare che il Buddha è un parlante affidabile tramite inferenze logiche. Steinkellner, invece, sostiene che l'autorità del Buddha sia giustificabile con inferenze, ma non dimostrabile. L'attitudine epistemica in gioco, sarebbe quindi quella del credere e non del comprendere.
David Seyfort Ruegg (6 e 7) è un esperto di Buddhismo di altissimo valore, in grado di muoversi fra cultura indiana, tibetana e cinese. I suoi testi possono essere difficili perché molto dotti (abbondano le citazioni in sanscrito, ma corredate di traduzione), ma sono molto documentati e sempre affidabili. Se qualcuno volesse occuparsene, lo inviterei a non soffermarsi sulle prove (precisi e quasi pedanti), bensì sul fine dell'argomentazione. In particolare, il testo 7 è più complesso ed esamina l'epiteto del Buddha come "strumento conoscitivo" all'inizio dell'opera di Dignāga alla luce di altri epiteti del Buddha. Il testo 6, in francese, è più accessibile e compara, senza trarne le conclusioni (che forse però potremmo trarre noi), gli attributi con cui è definita l'autorevolezza del Buddha, a quelli che definiscono i ṛṣi e i parlanti esperti in generale nella tradizione "induista".
Tom Tillemans (9 e 10) è soprattutto un tibetologo e si occupa dei temi in questione esaminando i commenti a Dignāga e Dharmakīrti.
Quello di Roger Jackson (4) mi pare un articolo di grande interesse concettuale, anche se probabilmente meno fondato rispetto a Ruegg. A me interessa particolarmente il tema del rapporto fra fede e razionalità nel Buddhismo che vi viene affrontato.
Dell'articolo di Griffiths (11a) ho parlato nel capitolo 7.4.
Noterete in generale che la bibliografia sull'autorità nel Buddhismo, paradossalmente, è molto più nutrita. Come mai?
Sulla filosofia indiana all'interno del dibattito filosofico "occidentale":
12) John Taber, A Hindu Critique of Buddhist Epistemology, RoutledgeCurzon, New York 2005: Introduzione, in particolare pp.38-43.
Il testo di Taber (12) parla di un problema parzialmente diverso dal nostro, ossia della percezione sensibile, ma Taber è uno dei pochi filosofi occidentali a occuparsi filosoficamente del pensiero indiano e in questo senso il suo volume va senz'altro preso in considerazione, anche se per criticarlo.
Sulla Parola come strumento conoscitivo in Nyāya e Vaiśeṣika:
13) Arthur Berriedale Keith, Indian Logic and Atomism. An exposition of the Nyāya and Vaiśeṣika system, Oxford University Press, Oxford 1919, ristampato da Munshiram Maoharlal, New Delhi 1977 (Si trova a 0,77 centesimi su Abebooks), in particolare pp. 165-173.
14) John Taber, Is Verbal Testimony a Form of Inference?, in "Studies in Humanities and Social Sciences", vol. iii.2, 1996, pp. 19-31 (potete chiedermi le fotocopie).
Quello (13) di Keith è un testo vecchissimo, ma che ha fatto storia. Inoltre, poiché della Parola come strumento conoscitivo si è cominciato a parlare in Occidente solo da pochi anni, resta un punto di riferimento non ancora sostituito per Nyāya e Vaiśeṣika, soprattutto per i tanti riferimenti a opere e autori indiani da cui è possibile partire per ricerche ulteriori.
Il testo di Taber è, come spesso i suoi, un eccellente esempio di competenza in filosofia indiana e occidentale. In questo caso si occupa della spinosa questione di come formulare l'inferenza a cui scuola epistemologica buddhista e Vaiśeṣika vogliono ridurre la Parola come strumento conoscitivo e delle repliche da parte di Mīmāṃsā e Nyāya.
Sulla Parola come strumento conoscitivo nel Vedānta:
15) Arvind Sharma, Śaṅkara's attitude to Scriptural Autority as revealed by his gloss on Brahmasūtra 1.1.3, «Journal of Indian Philosophy» 10 (1982), pp. 179-186 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
Il Brahmasūtra è il testo radice del Vedānta. In particolare, il terzo aforisma può essere inteso come "[il brahman (l'Assoluto)] è la causa dei Testi Sacri" o "i Testi Sacri sono la fonte [per conoscere il brahman". Il punto è quindi centrale e il tema dell'articolo interessantissimo. L'articolo ha il vantaggio e svantaggio insieme di presentare il punto di vista degli attuali esponenti del Vedānta in India. Ciò mostra la vitalità della tradizione filosofica vedāntin nell'India contemporanea, ma non è detto sia un procedimento accettabile per interpretare i testi di Śaṅkara e degli altri esponenti del Vedānta del ix-xi secolo. Per un mio giudizio, rimando alle "Direzioni di ricerca".
Sul problema dell'onniscienza:
16) Roy W. Perrett, Omniscience in Indian Philosophy of Religion, in Id. (ed.) Indian Philosophy of Religion, Kluwer, Dordrecht 1989, pp. 125-142 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
Di e su Thomas Reid:
17) Ricerca sulla Mente Umana e altri scritti, a cura di Antonio Santucci, Utet, Torino 1975 (biblioteca nazionale, biblioteca alessandrina)
18) Thomas Reid's Inquiry and essays, edited by Keith Lehrer and Ronald E. Beanblossom, introduction by Ronald E. Beanblossom, The Bobbs-Merril company, Indianapolis, 1976 (biblioteca di filosofia, Villa Mirafiori, Sapienza)
19) Thomas Reid, An inquiry into the human mind, edited with an introduction by Timothy Duggan, The University of Chicago Press, Chicago and London 1970 (biblioteca di filosofia)
20) Thomas Reid, An inquiry into the human mind on the principles of common sense, a critical edition edited by Derek R. Brookes, Edinburgh University Press, Edinburgh 1997 (biblioteca nazionale)
Si veda anche, infra, il testo 26.
Il testo 20 è l'unica edizione critica ed è anche quello su cui ho lavorato io stessa.
Sull'approccio occidentale alla Parola come strumento epistemico:
21) Bimal Krishna Matilal e Arindam Chakrabarti (eds.), Knowin from words, Kluwer, Dordrecht 1994.
22) Arindam Chakrabarti, Rationality in Indian Philosophy, in Eliot Deutsch and Ron Bontekoe (ed.), A companion to world philosophies, Paperback, Malden, Mass. 1997 (biblioteca nazionale).
23) Joseph M. Bochenski, Was ist Autorität?. Einführung in die Logik der Autorität, Herder, Freiburg 1974.
24) Joseph M. Bochenski, The logic of religion, New York University Press, New York 1965 (biblioteca casanatense, biblioteca di filosofia di Villa Mirafiori). Trad. it. La logica della religione, Ubaldini, Roma 1967 (biblioteca nazionale, biblioteca di filosofia di Villa Mirafiori).
25) Joseph M. Bochenski, Autorität, Freiheit, Glaube: sozialphilosophische Studien, Philosophia, München-Wien 1988.
26) C.A.J. Coady, Testimony. A philosophical Study, Clarendon, Oxford 1992.
Il testo 21 è ricco di spunti e interessantissimo. Non si occupa dei Testi Sacri e confina la propria attenzione sul piano dell'esperienza ordinaria e del linguaggio descrittivo (biblioteca del dipartimento di filosofia, Villa Mirafiori). I curatori sono esperti di filosofia analitica, ma anche di filosofia indiana e hanno perciò potuto proporre stimoli provenienti da questa agli autori invitati a contribuire. Questi afferiscono per lo più alla filosofia analitica e fra i saggi è presente anche un articolo di Michael Dummett (cfr capitolo 9.2) su testimonianza e memoria.
Il testo 22 è quello da cui ho tratto l'idea di giustapporre Dummett e Gadamer. A. Chakrabarti è un filosofo indiano che ha studiato a Oxford e ha perciò un taglio interessante e stimolante.
Il testo 23 è una pietra miliare per gli studi su questo argomento. Bochenski si è occupato di ripensare con gli strumenti della logica formale (e in linguaggio assolutamente accessibile) la filosofia classica e quella indiana, la filosofia della religione, il principio di autorità etc. Proprio per il suo assoluto valore ho aggiunto alcuni titoli interessanti su questo tema. In altri testi, più generali (tipo "Avvio al pensiero filosofico", "La Logica formale", "Dai Presocratici a Leibniz", "A history of formal logic"), molti dei quali tradotti in italiano, potrete trovare spunti interessanti.
Coady (26), di cui è presente un saggio anche in 21, è fra i pionieri dell'indagine sulla testimonianza. Il suo testo è interessante perché mostra un panorama completo dell'approccio occidentale, soffermandosi sugli aspetti giuridici oltre che su quelli filosofici. Dedica un capitolo a Thomas Reid.
Di e su Hans-Georg Gadamer:
27) Verità e Metodo, trad. it. con testo a fronte a cura di Gianni Vattimo, Bompiani, Milano 2000.
Si veda anche l'eccellente introduzione di Vattimo, specie nei capitoli dedicati alla storia e al linguaggio. Per quanto riguarda il testo di Gadamer, questo si articola in tre parti. La prima discute dell'esperienza artistica, la seconda amplia il discorso all'ermeneutica e alla storia, la terza lo fonda sulla linguisticità. Ai nostri fini sono particolarmente rilevanti la terza parte, dedicata al linguaggio, e –all'interno della seconda parte– i capitoli II.1 (dedicato ai pregiudizi, al concetto di autorità e di tradizione, alla storia come principio ermeneutico e non come storicismo) e II.2.c (dedicato all'ermeneutica applicata al diritto).
Assieme ai titoli, potete leggere i miei commenti personali in merito.
Sulla Parola come strumento conoscitivo nel Sāṅkhya:
1) Shujun Motegi, Śabda in the Yuktidīpikā, in Word and Meaning in Indian Philosophy, ed. by Masaaki Hattori, "Acta Asiatica" 90 (2006), pp. 39-54 (disponibile nella biblioteca del dipartimento studi orientali, edificio della facoltà di lettere, I piano, città universitaria).
L'articolo è in due parti, la prima dedicata all'aspetto fonico del linguaggio, la seconda alla Parola come strumento conoscitivo, che Motegi chiama comunque "language".
1a) Īśvarakṛṣṇa, Sāṁkhyakārikā con il commento di Gauḍapāda, traduzione di Corrado Pensa, 1978, ristampato da Asram Vidya, Roma 1994 (disponibile all'IsIAO, alla biblioteca Alessandrina, alla Nazionale e alla biblioteca del dipartimento di filosofia).
Sull'apologia della Parola Vedica nel Nyāya (non ostante il titolo):
2) George Chemparathy, L'autorité du Veda selon les Nyāya-Vaiśeṣikas, Louvain-la-Neuve (potete chiedermi le fotocopie).
Vi si segue l'evoluzione del concetto di parlante esperto dal NS in poi, attraverso lo stadio del parlante esperto come ṛṣi e infine come Dio. Il testo contiene anche interessanti notazioni sull'attitudine del Nyāya rispetto a quello della Mīmāṃsā nei confronti del Veda.
Sui criteri per definire l'autorità del Buddha nella scuola epistemologica buddhista:
3) Eli Franco, Dharmakīrti on Compassion and Rebirth, Wien (biblioteca del dipartimento di studi orientali): Introduzione e I capitolo (pp.1-43).
4) R. Jackson, «Journal of Indian Philosophy» 1988 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
5) Shoryo Katsura [Hrsg.], Dharmakirti’s thought and its impact on Indian and Tibetan philosophy. Proceedings of the third International Dharmakirti Conference, Hiroshima, November 4 - 6, 1997, Verl. d. Österr. Akad. d. Wiss., Wien 1999.
Verl. d. Österr. Akad. d. Wiss.: i capitoli sulla Pramāṇasiddhi (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
6) David Seyfort Ruegg, «Wiener Zeitschrift der Kunde Südasiens» 38, 1994 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, periodico n. 196).
7)David Seyfort Ruegg, «Bulletin of the School of Oriental and African Studies» 57.2 1994 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, periodico n. 40).
8) Ernst Steinkellner, The spiritual place of Buddhism in the Buddhist epistemological School, 1982 (potete chiedermi le fotocopie)
9) Tom Tillemans, Persons of Authority, Stuttgart 1993 (biblioteca del dipartimento di studi orientali, collocazione TIB C 326).
10) Tom Tillemans, Scripture, Logic, Language (biblioteca del dipartimento di studi orientali, collocazione TIB C 462).
11) VAN BIJLERT V.A. EPISTEMOLOGY AND SPIRITUAL AUTHORITY WSTB 20 WIEN 1989
11a) Paul. J. Griffiths, Paul J., “Omniscience in the Mahāyānasūtrālaṅkāra and its commentaries”, Indo-Iranian Journal 33, 1990: 85-120.
(Sulla riduzione della Parola come strumento conoscitivo all'inferenza nella scuola epistemologica buddhista si veda 14).
Circa l'interpretazione dell'autorità del Buddha e del suo ruolo, si oppongono Franco (3 e un articolo in 5) e Steinkellner (8 e un articolo in 5). Il primo sostiene che la scuola epistemologica buddhista giunga a dimostrare che il Buddha è un parlante affidabile tramite inferenze logiche. Steinkellner, invece, sostiene che l'autorità del Buddha sia giustificabile con inferenze, ma non dimostrabile. L'attitudine epistemica in gioco, sarebbe quindi quella del credere e non del comprendere.
David Seyfort Ruegg (6 e 7) è un esperto di Buddhismo di altissimo valore, in grado di muoversi fra cultura indiana, tibetana e cinese. I suoi testi possono essere difficili perché molto dotti (abbondano le citazioni in sanscrito, ma corredate di traduzione), ma sono molto documentati e sempre affidabili. Se qualcuno volesse occuparsene, lo inviterei a non soffermarsi sulle prove (precisi e quasi pedanti), bensì sul fine dell'argomentazione. In particolare, il testo 7 è più complesso ed esamina l'epiteto del Buddha come "strumento conoscitivo" all'inizio dell'opera di Dignāga alla luce di altri epiteti del Buddha. Il testo 6, in francese, è più accessibile e compara, senza trarne le conclusioni (che forse però potremmo trarre noi), gli attributi con cui è definita l'autorevolezza del Buddha, a quelli che definiscono i ṛṣi e i parlanti esperti in generale nella tradizione "induista".
Tom Tillemans (9 e 10) è soprattutto un tibetologo e si occupa dei temi in questione esaminando i commenti a Dignāga e Dharmakīrti.
Quello di Roger Jackson (4) mi pare un articolo di grande interesse concettuale, anche se probabilmente meno fondato rispetto a Ruegg. A me interessa particolarmente il tema del rapporto fra fede e razionalità nel Buddhismo che vi viene affrontato.
Dell'articolo di Griffiths (11a) ho parlato nel capitolo 7.4.
Noterete in generale che la bibliografia sull'autorità nel Buddhismo, paradossalmente, è molto più nutrita. Come mai?
Sulla filosofia indiana all'interno del dibattito filosofico "occidentale":
12) John Taber, A Hindu Critique of Buddhist Epistemology, RoutledgeCurzon, New York 2005: Introduzione, in particolare pp.38-43.
Il testo di Taber (12) parla di un problema parzialmente diverso dal nostro, ossia della percezione sensibile, ma Taber è uno dei pochi filosofi occidentali a occuparsi filosoficamente del pensiero indiano e in questo senso il suo volume va senz'altro preso in considerazione, anche se per criticarlo.
Sulla Parola come strumento conoscitivo in Nyāya e Vaiśeṣika:
13) Arthur Berriedale Keith, Indian Logic and Atomism. An exposition of the Nyāya and Vaiśeṣika system, Oxford University Press, Oxford 1919, ristampato da Munshiram Maoharlal, New Delhi 1977 (Si trova a 0,77 centesimi su Abebooks), in particolare pp. 165-173.
14) John Taber, Is Verbal Testimony a Form of Inference?, in "Studies in Humanities and Social Sciences", vol. iii.2, 1996, pp. 19-31 (potete chiedermi le fotocopie).
Quello (13) di Keith è un testo vecchissimo, ma che ha fatto storia. Inoltre, poiché della Parola come strumento conoscitivo si è cominciato a parlare in Occidente solo da pochi anni, resta un punto di riferimento non ancora sostituito per Nyāya e Vaiśeṣika, soprattutto per i tanti riferimenti a opere e autori indiani da cui è possibile partire per ricerche ulteriori.
Il testo di Taber è, come spesso i suoi, un eccellente esempio di competenza in filosofia indiana e occidentale. In questo caso si occupa della spinosa questione di come formulare l'inferenza a cui scuola epistemologica buddhista e Vaiśeṣika vogliono ridurre la Parola come strumento conoscitivo e delle repliche da parte di Mīmāṃsā e Nyāya.
Sulla Parola come strumento conoscitivo nel Vedānta:
15) Arvind Sharma, Śaṅkara's attitude to Scriptural Autority as revealed by his gloss on Brahmasūtra 1.1.3, «Journal of Indian Philosophy» 10 (1982), pp. 179-186 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
Il Brahmasūtra è il testo radice del Vedānta. In particolare, il terzo aforisma può essere inteso come "[il brahman (l'Assoluto)] è la causa dei Testi Sacri" o "i Testi Sacri sono la fonte [per conoscere il brahman". Il punto è quindi centrale e il tema dell'articolo interessantissimo. L'articolo ha il vantaggio e svantaggio insieme di presentare il punto di vista degli attuali esponenti del Vedānta in India. Ciò mostra la vitalità della tradizione filosofica vedāntin nell'India contemporanea, ma non è detto sia un procedimento accettabile per interpretare i testi di Śaṅkara e degli altri esponenti del Vedānta del ix-xi secolo. Per un mio giudizio, rimando alle "Direzioni di ricerca".
Sul problema dell'onniscienza:
16) Roy W. Perrett, Omniscience in Indian Philosophy of Religion, in Id. (ed.) Indian Philosophy of Religion, Kluwer, Dordrecht 1989, pp. 125-142 (biblioteca del dipartimento di studi orientali).
Di e su Thomas Reid:
17) Ricerca sulla Mente Umana e altri scritti, a cura di Antonio Santucci, Utet, Torino 1975 (biblioteca nazionale, biblioteca alessandrina)
18) Thomas Reid's Inquiry and essays, edited by Keith Lehrer and Ronald E. Beanblossom, introduction by Ronald E. Beanblossom, The Bobbs-Merril company, Indianapolis, 1976 (biblioteca di filosofia, Villa Mirafiori, Sapienza)
19) Thomas Reid, An inquiry into the human mind, edited with an introduction by Timothy Duggan, The University of Chicago Press, Chicago and London 1970 (biblioteca di filosofia)
20) Thomas Reid, An inquiry into the human mind on the principles of common sense, a critical edition edited by Derek R. Brookes, Edinburgh University Press, Edinburgh 1997 (biblioteca nazionale)
Si veda anche, infra, il testo 26.
Il testo 20 è l'unica edizione critica ed è anche quello su cui ho lavorato io stessa.
Sull'approccio occidentale alla Parola come strumento epistemico:
21) Bimal Krishna Matilal e Arindam Chakrabarti (eds.), Knowin from words, Kluwer, Dordrecht 1994.
22) Arindam Chakrabarti, Rationality in Indian Philosophy, in Eliot Deutsch and Ron Bontekoe (ed.), A companion to world philosophies, Paperback, Malden, Mass. 1997 (biblioteca nazionale).
23) Joseph M. Bochenski, Was ist Autorität?. Einführung in die Logik der Autorität, Herder, Freiburg 1974.
24) Joseph M. Bochenski, The logic of religion, New York University Press, New York 1965 (biblioteca casanatense, biblioteca di filosofia di Villa Mirafiori). Trad. it. La logica della religione, Ubaldini, Roma 1967 (biblioteca nazionale, biblioteca di filosofia di Villa Mirafiori).
25) Joseph M. Bochenski, Autorität, Freiheit, Glaube: sozialphilosophische Studien, Philosophia, München-Wien 1988.
26) C.A.J. Coady, Testimony. A philosophical Study, Clarendon, Oxford 1992.
Il testo 21 è ricco di spunti e interessantissimo. Non si occupa dei Testi Sacri e confina la propria attenzione sul piano dell'esperienza ordinaria e del linguaggio descrittivo (biblioteca del dipartimento di filosofia, Villa Mirafiori). I curatori sono esperti di filosofia analitica, ma anche di filosofia indiana e hanno perciò potuto proporre stimoli provenienti da questa agli autori invitati a contribuire. Questi afferiscono per lo più alla filosofia analitica e fra i saggi è presente anche un articolo di Michael Dummett (cfr capitolo 9.2) su testimonianza e memoria.
Il testo 22 è quello da cui ho tratto l'idea di giustapporre Dummett e Gadamer. A. Chakrabarti è un filosofo indiano che ha studiato a Oxford e ha perciò un taglio interessante e stimolante.
Il testo 23 è una pietra miliare per gli studi su questo argomento. Bochenski si è occupato di ripensare con gli strumenti della logica formale (e in linguaggio assolutamente accessibile) la filosofia classica e quella indiana, la filosofia della religione, il principio di autorità etc. Proprio per il suo assoluto valore ho aggiunto alcuni titoli interessanti su questo tema. In altri testi, più generali (tipo "Avvio al pensiero filosofico", "La Logica formale", "Dai Presocratici a Leibniz", "A history of formal logic"), molti dei quali tradotti in italiano, potrete trovare spunti interessanti.
Coady (26), di cui è presente un saggio anche in 21, è fra i pionieri dell'indagine sulla testimonianza. Il suo testo è interessante perché mostra un panorama completo dell'approccio occidentale, soffermandosi sugli aspetti giuridici oltre che su quelli filosofici. Dedica un capitolo a Thomas Reid.
Di e su Hans-Georg Gadamer:
27) Verità e Metodo, trad. it. con testo a fronte a cura di Gianni Vattimo, Bompiani, Milano 2000.
Si veda anche l'eccellente introduzione di Vattimo, specie nei capitoli dedicati alla storia e al linguaggio. Per quanto riguarda il testo di Gadamer, questo si articola in tre parti. La prima discute dell'esperienza artistica, la seconda amplia il discorso all'ermeneutica e alla storia, la terza lo fonda sulla linguisticità. Ai nostri fini sono particolarmente rilevanti la terza parte, dedicata al linguaggio, e –all'interno della seconda parte– i capitoli II.1 (dedicato ai pregiudizi, al concetto di autorità e di tradizione, alla storia come principio ermeneutico e non come storicismo) e II.2.c (dedicato all'ermeneutica applicata al diritto).
10.1 abbreviazioni
MS Mīmāṃsāsūtra, il testo radice della Mīmāṃsā
NS Nyāyasūtra, il testo radice del Nyāya
SK Sāṅkhyakārikā, il testo radice del Sāṅkhyā
VS Vaiśeṣikasūtra, il testo radice del Vaiśeṣika
YD Yuktidīpikā, il commento principale alle SK
NS Nyāyasūtra, il testo radice del Nyāya
SK Sāṅkhyakārikā, il testo radice del Sāṅkhyā
VS Vaiśeṣikasūtra, il testo radice del Vaiśeṣika
YD Yuktidīpikā, il commento principale alle SK
9.4 La tradizione in Hans-Georg Gadamer
Con Hans-Georg Gadamer (1900-2002) ci spostiamo nella galassia dei termini legati in Occidente a quella che in India si chiama "Parola" (come strumento epistemico). Gadamer non parla infatti di testimonianza, ma offre pagine illuminanti sulla tradizione. Al contrario del moto illuminista di uscita dal pregiudizio, della tradizione vista come retaggio ingombrante di cui disfarsi, Gadamer sostiene che siamo sempre necessariamente immersi in una tradizione, che non è possibile uscirne (anche l'esigenza di disfarsi di ogni pregiudizio è un pregiudizio, così come si può parlare di una tradizione riguardo il disprezzo per il passato e l'amore per il nuovo). La tradizione rappresenta perciò per l'uomo un confine e una possibilità entro cui attuarsi. Il rapporto con la tradizione si configura per Gadamer come un rapporto dialettico, di familiarità ed estraneità allo stesso tempo. Gadamer sembra considerare l'antichità classica come un momento in cui l'uomo era invece completamente immerso nella tradizione in cui viveva, senza avvertire alcuna distanza da questa. L'inizio dell'età moderna ha invece segnato un momento di rottura, una presa di coscienza della propria tradizione come propria, ma allo stesso tempo come altra da sé. Infine, la tradizione è disponibile per l'uomo solo attraverso il linguaggio. L'esperienza dell'incontro con l'altro è cioè sempre e necessariamente un'esperienza linguistica. Anzi, non solo l'incontro esiste solo come incontro linguistico, ma anche il soggetto che incontra e l'oggetto incontrato non esistono al di fuori del linguaggio che li esprime. Il mondo che conosciamo è già un mondo organizzato linguisticamente, né potrebbe essere altrimenti. Tale linguisticità del mondo non è un sovrapporsi del pensiero a un mondo oggettivo che sarebbe diverso, come sostengono i buddhisti. Al contrario, il punto è che non esiste un darsi delle cose al di fuori del linguaggio nel senso che non è pensabile un'esperienza degli oggetti prima del linguaggio (si noti che per Gadamer la genesi storica del linguaggio fra, poniamo, gli australopitechi, è a tal fine irrilevante).
Per tornare al lessico e ai temi di questo corso, la tradizione si configura come un caso di Parola indipendente dal suo autore. Essa è infatti linguistica, nel senso che abbiamo visto, è fuori della disponibilità di un singolo autore ed è in grado di fornire conoscenza. Certo, non si tratterà della conoscenza cui ambiscono le discipline scientifiche occidentali, ma uno degli scopi di Gadamer è proprio mostrare la limitatezza della concezione scientifica della verità. Di verità si può al contrario parlare, secondo Gadamer, in riferimento all'arte, alla storia e agli ambiti generalmente considerati non scientifici. Anche sotto questo punto di vista, notiamo una interessante convergenza con l'idea indiana di una "conoscenza vera" che coinvolge anche l'ambito valoriale o deontico. In particolare, la posizione di Gadamer si colloca in una direzione che in India abbiamo visto incarnarsi nella Mīmāṃsā. Anche per questa, la presenza indiscutibile dell'autorità (vedica) e il linguaggio sono due realtà strettamente legate e imprescindibili per l'essere umano.
Veniamo ora però ad alcune importanti differenze. Alcuni interpreti di Gadamer si sono chiesti se il doppio rapporto di familiarità ed estraneità con la tradizione sia il risultato di un dato momento storico o piuttosto la condizione esistenziale in cui l'uomo è sempre immerso nel suo rapporto di interprete di qualcosa. Questa questione è particolarmente rilevante per questo corso. Infatti, non ostante la condivisione del ruolo costitutivo del linguaggio a prescindere dai parlanti e la centralità dell'ermeneutica nel rapporto con i testi, Gadamer e la Mīmāṃsā sembrerebbero almeno altrettanto lontani per quanto riguarda l'assenza di senso storico in questa, che di conseguenza non si pone rispetto al testo che interpreta (in primo luogo il Veda) come fosse un altro lontano nel tempo, da cui lasciarsi interpellare. Non ostante, come già ci è capitato di accennare (per esempio nel cap. 9.3) la Mīmāṃsā accetti la possibilità che quella che ci pare conoscenza venga poi falsificata, questo non equivale a dire che il farsi della comprensione abbia una dimensione storica. La conoscenza è da un punto di vista mīmāṃsaka, sempre sincronicamente compiuta, nel senso che al momento x il nostro patrimonio di consocenze sarà composto da w, y, z,... e al momento x+1 sapremo che w, y sono conoscenze valide, mentre z è falsa. Ma in tale processo il tempo e la storia non giocano alcun ruolo. Se, come Gadamer sembra ritenere, il processo che ha portato all'allontanamento dalla propria tradizione fosse un evento della storia occidentale (e non una condizione costitutiva dell'esperienza umana), si potrebbe immaginare che un tale evento non si sia realizzato in India. Apparentemente, infatti, la Mīmāṃsā non guarda al Veda come a qualcosa di distante nel tempo.
Il paragone con Gadamer ci porta così a due punti decisivi dell'interpretazione dell'India, ossia il suo rapporto con la storia e il suo rapporto con il Veda. Lo storico indiano Sudipt Kaviraj ha osservato che non è vero che in India manchi il senso del passato. Quello che manca è il senso del passato come storia, mentre è ben presente un passato come tradizione. Questo mi pare implicare che in India (o almeno nell'India precoloniale di cui ci occupiamo) non è mai avvenuto un distacco dal passato, il quale ha continuato a vivere come tradizione all'interno della cultura indiana. Spostandoci sul Veda, si potrebbe ripetere che questo, al contrario delle epiche greche o latine, ha sempre continuato a far parte del vissuto indiano. Quest'ultima affermazione è però almeno opinabile. Non tutto quel che è nel Veda è infatti portato avanti nel così detto Induismo, così come è ovvio il contrario, per esempio la presenza di divinità non vediche come Kṛṣṇa nell'India classica e contemporanea. Il celebre indologo francese Louis Renou ha parlato perciò del Veda come di un idolo davanti a cui tutti si tolgono il cappello, ma senza più comprenderne il significato e senza degnarlo di altra considerazione dopo tale frettoloso saluto. Personalmente, non sono d'accordo con tale interpretazione. Concentrandoci sulla Mīmāṃsā, notiamo perciò come il Veda sia presente e centrale, eppure in un modo che forse è diversissimo dallo spirito delle raccolte di inni (le così dette Saṃhitā vediche). Il Veda è presente per la Mīmāṃsā e –direi– per tutta la tradizione indiana, in quanto viene utilizzato nel rituale. Tale utilizzo rituale fa sì che da una parte il Veda venga sentito come un patrimonio di prescrizioni da interpretare secondo regole oggettive, che non lasciano spazio all'ermeneutica in quanto fondersi di oggetto e soggetto. D'altra parte, esso è componente vitale dell'esperienza culturale dei mīmāṃsaka invece di essere relegato al di fuori di questa, in un metaforico "museo" (per tornare alla terminologia di Gadamer). Concludendo, potremmo suggerire che in India la tradizione, anche quella vedica, sia sempre rimasta parte integrante della cultura. Se invece, seguendo alcuni interpreti di Gadamer, volessimo presupporre che un distacco sia sempre già presente, e che l'appartenenza irriflessa a una tradizione sia solo un'astrazione, ci troveremmo a concludere che in seguito a tale distacco il rapporto con il Veda non ha assunto l'aspetto autoconsapevole dell'ermeneutica (in cui si è consci di sé e dell'altro, ma anche dell'assenza di un confine stabile fra sé e altro), bensì quello oggettivante che in Occidente è stato proprio del pensiero scientifico. I mīmāṃsaka sono cioè convinti che le regole da loro esposte esauriscano il problema di interpretare il Veda (come se, appunto, l'interpretazione non fosse un processo che coinvolge attivamente il soggetto interpretante e che quindi non può concludersi). Anzi, l'opzione mīmāṃsaka in favore dell'ortoprassi invece dell'ortodossia, induce a pensare a un approccio al Veda non scientifico (ossia che mira a trarne conoscenza), bensì tecnico (ossia mirante a uno scopo pratico).
Ma se è vero che alla Mīmāṃsā manca (per via di una tradizione ancora vivente o per via di una tradizione di cui ci si è appropriati come fosse uno strumento) l'idea di un passato come storia, com'è possibile allora spiegare le notevoli somiglianze con Gadamer, per cui la storia sembrerebbe essere centrale? In Gadamer la storia è centrale come dimensione umana di rapporto sempre in divenire con l'altro costituito dalla tradizione, non come storicismo. Questo, inteso come la ricostruzione oggettiva del passato è anzi considerato un'illusoria concessione al metodo scientifico. In tal senso, il rapporto con il passato è un rapporto che coinvolge il soggetto nella sua totalità ed è perciò considerato dall'unico punto di vista possibile, quello del soggetto (e, quindi, dell'oggi). Similmente, il linguaggio è in divenire ma la sua evoluzione non potrebbe essere osservata dall'esterno (come da chi cercasse, con un'altra illusoria concessione al metodo scientifico, l'origine del linguaggio fra gli australopitechi). Il linguaggio è invece dato, così come la storicità dell'esperienza umana. L'approccio, anche alla storia, è in altre parole quello dettato dalla matrice fenomenologica di aderenza al dato che Gadamer eredita dal suo maestro, Martin Heidegger.
Per tornare al lessico e ai temi di questo corso, la tradizione si configura come un caso di Parola indipendente dal suo autore. Essa è infatti linguistica, nel senso che abbiamo visto, è fuori della disponibilità di un singolo autore ed è in grado di fornire conoscenza. Certo, non si tratterà della conoscenza cui ambiscono le discipline scientifiche occidentali, ma uno degli scopi di Gadamer è proprio mostrare la limitatezza della concezione scientifica della verità. Di verità si può al contrario parlare, secondo Gadamer, in riferimento all'arte, alla storia e agli ambiti generalmente considerati non scientifici. Anche sotto questo punto di vista, notiamo una interessante convergenza con l'idea indiana di una "conoscenza vera" che coinvolge anche l'ambito valoriale o deontico. In particolare, la posizione di Gadamer si colloca in una direzione che in India abbiamo visto incarnarsi nella Mīmāṃsā. Anche per questa, la presenza indiscutibile dell'autorità (vedica) e il linguaggio sono due realtà strettamente legate e imprescindibili per l'essere umano.
Veniamo ora però ad alcune importanti differenze. Alcuni interpreti di Gadamer si sono chiesti se il doppio rapporto di familiarità ed estraneità con la tradizione sia il risultato di un dato momento storico o piuttosto la condizione esistenziale in cui l'uomo è sempre immerso nel suo rapporto di interprete di qualcosa. Questa questione è particolarmente rilevante per questo corso. Infatti, non ostante la condivisione del ruolo costitutivo del linguaggio a prescindere dai parlanti e la centralità dell'ermeneutica nel rapporto con i testi, Gadamer e la Mīmāṃsā sembrerebbero almeno altrettanto lontani per quanto riguarda l'assenza di senso storico in questa, che di conseguenza non si pone rispetto al testo che interpreta (in primo luogo il Veda) come fosse un altro lontano nel tempo, da cui lasciarsi interpellare. Non ostante, come già ci è capitato di accennare (per esempio nel cap. 9.3) la Mīmāṃsā accetti la possibilità che quella che ci pare conoscenza venga poi falsificata, questo non equivale a dire che il farsi della comprensione abbia una dimensione storica. La conoscenza è da un punto di vista mīmāṃsaka, sempre sincronicamente compiuta, nel senso che al momento x il nostro patrimonio di consocenze sarà composto da w, y, z,... e al momento x+1 sapremo che w, y sono conoscenze valide, mentre z è falsa. Ma in tale processo il tempo e la storia non giocano alcun ruolo. Se, come Gadamer sembra ritenere, il processo che ha portato all'allontanamento dalla propria tradizione fosse un evento della storia occidentale (e non una condizione costitutiva dell'esperienza umana), si potrebbe immaginare che un tale evento non si sia realizzato in India. Apparentemente, infatti, la Mīmāṃsā non guarda al Veda come a qualcosa di distante nel tempo.
Il paragone con Gadamer ci porta così a due punti decisivi dell'interpretazione dell'India, ossia il suo rapporto con la storia e il suo rapporto con il Veda. Lo storico indiano Sudipt Kaviraj ha osservato che non è vero che in India manchi il senso del passato. Quello che manca è il senso del passato come storia, mentre è ben presente un passato come tradizione. Questo mi pare implicare che in India (o almeno nell'India precoloniale di cui ci occupiamo) non è mai avvenuto un distacco dal passato, il quale ha continuato a vivere come tradizione all'interno della cultura indiana. Spostandoci sul Veda, si potrebbe ripetere che questo, al contrario delle epiche greche o latine, ha sempre continuato a far parte del vissuto indiano. Quest'ultima affermazione è però almeno opinabile. Non tutto quel che è nel Veda è infatti portato avanti nel così detto Induismo, così come è ovvio il contrario, per esempio la presenza di divinità non vediche come Kṛṣṇa nell'India classica e contemporanea. Il celebre indologo francese Louis Renou ha parlato perciò del Veda come di un idolo davanti a cui tutti si tolgono il cappello, ma senza più comprenderne il significato e senza degnarlo di altra considerazione dopo tale frettoloso saluto. Personalmente, non sono d'accordo con tale interpretazione. Concentrandoci sulla Mīmāṃsā, notiamo perciò come il Veda sia presente e centrale, eppure in un modo che forse è diversissimo dallo spirito delle raccolte di inni (le così dette Saṃhitā vediche). Il Veda è presente per la Mīmāṃsā e –direi– per tutta la tradizione indiana, in quanto viene utilizzato nel rituale. Tale utilizzo rituale fa sì che da una parte il Veda venga sentito come un patrimonio di prescrizioni da interpretare secondo regole oggettive, che non lasciano spazio all'ermeneutica in quanto fondersi di oggetto e soggetto. D'altra parte, esso è componente vitale dell'esperienza culturale dei mīmāṃsaka invece di essere relegato al di fuori di questa, in un metaforico "museo" (per tornare alla terminologia di Gadamer). Concludendo, potremmo suggerire che in India la tradizione, anche quella vedica, sia sempre rimasta parte integrante della cultura. Se invece, seguendo alcuni interpreti di Gadamer, volessimo presupporre che un distacco sia sempre già presente, e che l'appartenenza irriflessa a una tradizione sia solo un'astrazione, ci troveremmo a concludere che in seguito a tale distacco il rapporto con il Veda non ha assunto l'aspetto autoconsapevole dell'ermeneutica (in cui si è consci di sé e dell'altro, ma anche dell'assenza di un confine stabile fra sé e altro), bensì quello oggettivante che in Occidente è stato proprio del pensiero scientifico. I mīmāṃsaka sono cioè convinti che le regole da loro esposte esauriscano il problema di interpretare il Veda (come se, appunto, l'interpretazione non fosse un processo che coinvolge attivamente il soggetto interpretante e che quindi non può concludersi). Anzi, l'opzione mīmāṃsaka in favore dell'ortoprassi invece dell'ortodossia, induce a pensare a un approccio al Veda non scientifico (ossia che mira a trarne conoscenza), bensì tecnico (ossia mirante a uno scopo pratico).
Ma se è vero che alla Mīmāṃsā manca (per via di una tradizione ancora vivente o per via di una tradizione di cui ci si è appropriati come fosse uno strumento) l'idea di un passato come storia, com'è possibile allora spiegare le notevoli somiglianze con Gadamer, per cui la storia sembrerebbe essere centrale? In Gadamer la storia è centrale come dimensione umana di rapporto sempre in divenire con l'altro costituito dalla tradizione, non come storicismo. Questo, inteso come la ricostruzione oggettiva del passato è anzi considerato un'illusoria concessione al metodo scientifico. In tal senso, il rapporto con il passato è un rapporto che coinvolge il soggetto nella sua totalità ed è perciò considerato dall'unico punto di vista possibile, quello del soggetto (e, quindi, dell'oggi). Similmente, il linguaggio è in divenire ma la sua evoluzione non potrebbe essere osservata dall'esterno (come da chi cercasse, con un'altra illusoria concessione al metodo scientifico, l'origine del linguaggio fra gli australopitechi). Il linguaggio è invece dato, così come la storicità dell'esperienza umana. L'approccio, anche alla storia, è in altre parole quello dettato dalla matrice fenomenologica di aderenza al dato che Gadamer eredita dal suo maestro, Martin Heidegger.
9.3 Tornando alla filosofia indiana: perché non verificare il teste preliminarmente?
Il confronto con Reid e Dummett, fautori di una posizione simile a quella del Nyāya, nel senso di individuare la Parola come strumento conoscitivo autonomo e identificarla con la testimonianza, ha mostrato alcune convergenze, ma anche significative difformità. Innanzi tutto, la Parola non ha un ambito di applicazione distinto. Questo si lega alla tendenza occidentale a non inserire etica etc. nell'ambito della conoscenza propriamente detta, ma è anche in linea con la posizione naiyāyika nel senso che nell'esperienza ordinaria ci capita di conoscere per bocca di qualcun altro cose di qualunque ambito e conoscenze concernenti dati di fatto e valori sono poste in continuum nel NS. Non ostante Reid e Dummett parlino di testimonianza, però, al contrario del Nyāya non si concentrano sul problema dell'attendibilità del teste. Danno per scontato che la testimonianza sia valida, considerando i casi contrari come eccezioni. Questa posizione sembra essere più in linea con l'esigenza di riconoscere autonomia alla Parola come strumento conoscitivo (inserire l'attendibilità del teste fra le precondizioni per ottenere conoscenza tramite testimonianza rischia di somigliare molto alla posizione di chi vuole far dipendere interamente la Parola come strumento conoscitivo da un'inferenza che abbia fra i propri requisiti l'affidabilità del parlante). Perché dunque il Nyāya non la adotta? Ovviamente, posso solo tentare una spiegazione, ossia la necessità per il Nyāya di non smentire il proprio assunto secondo cui la conoscenza non è di per sé valida, ma deriva la propria validità (come pure la propria invalidità) da qualità avventizie. Come, in questo caso, l'affidabilità del parlante. Sostiene al contrario la validità intrinseca della conoscenza la Mīmāṃsā, che può perciò rinunciare alle qualità di un autore affidabile per il Veda e considerare valido ogni caso di Parola come strumento conoscitivo anche nell'esperienza ordinaria, salvo poi ritirare il consenso nel caso di una successiva falsificazione.
9.2 La testimonianza in Michael Dummett
Dedicherò solo poche parole all'inquadramento dell'autore che sto per trattare. Infatti, obiettivo del tentativo di dialogo fra culture filosofiche che sto portando avanti in questa occasione è quello di ricercare se sia possibile un dialogo non ostante le incolmabili distanze di contesto storico. Parlerò quindi un poco della collocazione filosofica di Michael Dummett solo per quanto possa essere rilevante al tema di cui ci occupiamo. La filosofia così detta analitica, che si sviluppa in Inghilterra e negli Stati Uniti a partire dall'opera di Ludwig Wittgenstein, si concentra su un rifiuto della tradizione filosofica europea, sentita come inessenziale, verbosa, indimostrabile. Le si preferisce l'utilizzo della scienza come saldo ancoraggio al reale. Allo stesso tempo, però, i filosofi analitici si identificano innanzi tutto per la loro analisi ravvicinata del linguaggio. Questo viene infatti considerato come l'elemento più reale cui possano attingere i filosofi, più ancora del mondo dei referenti esterni, sempre dubitabile e sempre mediato dalle nostre percezioni, anch'esse opinabili. Questa duplice attitudine, empirista e di attenzione al linguaggio rende i paradigmi di riferimento della filosofia analitica curiosamente simili a quelli in auge nel discorso filosofico indiano.
Anche Michael Dummett (1925-), succeduto ad Ayer alla cattedra di logica di Oxford) utilizza il termine "testimonianza", e anzi rispetto a Reid colloca maggiore attenzione sul problema del teste e sui criteri per definirne l'affidabilità. La sua conclusione è però simile a quella di Reid, nel senso che anche Dummett sostiene che non sia possibile far dipendere la conoscenza ottenuta tramite Parola come strumento conoscitivo dall'affidabilità del parlante. Secondo Dummett, far dipendere la validità della testimonianza dall'affidabilità del teste si configura come un caso di inferenza, mentre la conoscenza che ricaviamo da una testimonianza è diretta. Vediamo così che per Dummett caratteristica essenziale della testimonianza è la sua immediatezza, come per la Mīmāṃsā lo śāstra. Le altre scuole filosofiche indiane avevano invece sempre inserito un elemento di mediatezza nella Parola come strumento conoscitivo, dato dalla valutazione dell'affidabilità del suo autore. Ma, sostiene Dummett, se ci fosse bisogno di fondare inferenzialmente ogni testimonianza appellandosi all'affidabilità del teste, si giungerebbe a poter conoscere in senso proprio ben poco, dato che molto spesso il teste non ci riferisce ciò che ha visto o udito, bensì ciò che ha a sua volta saputo da altri (e la catena di trasmissione è spesso troppo complessa per poter essere seguita e fondata inferenzialmente). Dummett esclude a priori dalla "conoscenza" ogni proposizione etica o metafisica, ma se poi si dovesse escludervi anche ogni conoscenza ottenuta di terza, quarta etc. mano, se ne dovrebbe concludere che conosciamo ben poco.
Dummett riesce altresì a includere le prescrizioni all'interno della testimonianza valida, senza contraddire il requisito di verificabilità della conoscenza. Nella sua analisi, infatti, una precrizione equivale a un imperativo e questo non può essere definito vero o falso, ma corretto o scorretto. Una frase imperativa come "Rām, porta la mucca!" sarà infatti corretta se l'attributo "essere stato richiesto di portare la mucca" qualifica effettivamente Rām. Il portare la mucca può cioè qualificare Rām in due modi, in modo descrittivo ("Rām porta la mucca") e in modo prescrittivo (Rām, porta la mucca!"). Tale descrizione del funzionamento delle prescrizioni ha il vantaggio di offrire un'analisi applicabile a tutte le proposizioni, ma presenta lo svantaggio di essere poco informativa. È infatti forse troppo poco chiedere all'imperativo "Rām, porta la mucca!", per essere corretto, di riferire la richiesta di portare la mucca a Rām.
D'altronde, la necessità di poter ammettere la testimonianza (e quindi di considerarla autonoma dall'inferenza) è tanto più forte per Dummett in quanto egli amplia la sfera della testimonianza riconducendovi anche la memoria (in quanto testimonianza di noi a noi stessi circa un evento passato). Se non potessimo contare sul bagaglio delle informazioni via via apprese, infatti, saremmo sempre allo stesso punto: "Non avanzeremmo al di là della nostra posizione iniziale, saremmo bloccati nel solipsismo cognitivo del momento presente" (Dummett in Matilal, Chakrabarti 1994:262.). La memoria rientra nella testimonianza perché, come questa, è secondo Dummett immediata e non dipende da un processo inferenziale. La memoria è cioè immediata nel senso che non abbiamo bisogno di mettere in atto un'inferenza per poter ricordare qualcosa, e non dipende dalla nostra volontà, come invece l'inferenza.
Notiamo inoltre che conferendo alla testimonianza un tale ruolo di fonte immediata di conoscenza Dummett può, come già Reid, fare a meno di quella che chiama "intuizione", forse una sorta di yogipratyakṣa, che permetterebbe altrimenti di giungere al di fuori dei confini della percezione sensibile.
Infine, come per la Mīmāṃsā, anche Dummett sostiene che, dato il carattere non inferenziale della testimonianza i casi di comprensione senza accettazione costituiscono solo eccezioni all'interno del normale funzionamento della testimonianza, per cui all'udire Y dirci che x, noi immediatamente conosciamo che x. Similmente, nel ricordare che x, conosciamo che x, senza poter far distinzione fra i due atti cognitivi.
Anche Michael Dummett (1925-), succeduto ad Ayer alla cattedra di logica di Oxford) utilizza il termine "testimonianza", e anzi rispetto a Reid colloca maggiore attenzione sul problema del teste e sui criteri per definirne l'affidabilità. La sua conclusione è però simile a quella di Reid, nel senso che anche Dummett sostiene che non sia possibile far dipendere la conoscenza ottenuta tramite Parola come strumento conoscitivo dall'affidabilità del parlante. Secondo Dummett, far dipendere la validità della testimonianza dall'affidabilità del teste si configura come un caso di inferenza, mentre la conoscenza che ricaviamo da una testimonianza è diretta. Vediamo così che per Dummett caratteristica essenziale della testimonianza è la sua immediatezza, come per la Mīmāṃsā lo śāstra. Le altre scuole filosofiche indiane avevano invece sempre inserito un elemento di mediatezza nella Parola come strumento conoscitivo, dato dalla valutazione dell'affidabilità del suo autore. Ma, sostiene Dummett, se ci fosse bisogno di fondare inferenzialmente ogni testimonianza appellandosi all'affidabilità del teste, si giungerebbe a poter conoscere in senso proprio ben poco, dato che molto spesso il teste non ci riferisce ciò che ha visto o udito, bensì ciò che ha a sua volta saputo da altri (e la catena di trasmissione è spesso troppo complessa per poter essere seguita e fondata inferenzialmente). Dummett esclude a priori dalla "conoscenza" ogni proposizione etica o metafisica, ma se poi si dovesse escludervi anche ogni conoscenza ottenuta di terza, quarta etc. mano, se ne dovrebbe concludere che conosciamo ben poco.
Dummett riesce altresì a includere le prescrizioni all'interno della testimonianza valida, senza contraddire il requisito di verificabilità della conoscenza. Nella sua analisi, infatti, una precrizione equivale a un imperativo e questo non può essere definito vero o falso, ma corretto o scorretto. Una frase imperativa come "Rām, porta la mucca!" sarà infatti corretta se l'attributo "essere stato richiesto di portare la mucca" qualifica effettivamente Rām. Il portare la mucca può cioè qualificare Rām in due modi, in modo descrittivo ("Rām porta la mucca") e in modo prescrittivo (Rām, porta la mucca!"). Tale descrizione del funzionamento delle prescrizioni ha il vantaggio di offrire un'analisi applicabile a tutte le proposizioni, ma presenta lo svantaggio di essere poco informativa. È infatti forse troppo poco chiedere all'imperativo "Rām, porta la mucca!", per essere corretto, di riferire la richiesta di portare la mucca a Rām.
D'altronde, la necessità di poter ammettere la testimonianza (e quindi di considerarla autonoma dall'inferenza) è tanto più forte per Dummett in quanto egli amplia la sfera della testimonianza riconducendovi anche la memoria (in quanto testimonianza di noi a noi stessi circa un evento passato). Se non potessimo contare sul bagaglio delle informazioni via via apprese, infatti, saremmo sempre allo stesso punto: "Non avanzeremmo al di là della nostra posizione iniziale, saremmo bloccati nel solipsismo cognitivo del momento presente" (Dummett in Matilal, Chakrabarti 1994:262.). La memoria rientra nella testimonianza perché, come questa, è secondo Dummett immediata e non dipende da un processo inferenziale. La memoria è cioè immediata nel senso che non abbiamo bisogno di mettere in atto un'inferenza per poter ricordare qualcosa, e non dipende dalla nostra volontà, come invece l'inferenza.
Notiamo inoltre che conferendo alla testimonianza un tale ruolo di fonte immediata di conoscenza Dummett può, come già Reid, fare a meno di quella che chiama "intuizione", forse una sorta di yogipratyakṣa, che permetterebbe altrimenti di giungere al di fuori dei confini della percezione sensibile.
Infine, come per la Mīmāṃsā, anche Dummett sostiene che, dato il carattere non inferenziale della testimonianza i casi di comprensione senza accettazione costituiscono solo eccezioni all'interno del normale funzionamento della testimonianza, per cui all'udire Y dirci che x, noi immediatamente conosciamo che x. Similmente, nel ricordare che x, conosciamo che x, senza poter far distinzione fra i due atti cognitivi.
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sabato 31 marzo 2007
9.1 La testimonianza in Thomas Reid
Tornando alla Parola come strumento conoscitivo in senso proprio, alcuni autori occidentali le hanno esplicitamente riconosciuto un ruolo. Fra questi, notevole è Thomas Reid (1710-1796), un pastore anglicano scozzese contemporaneo di Hume e che fu da questi molto influenzato. Reid parte da una constatazione di Hume, per il quale la ragione (intesa come l'applicazione dei procedimenti inferenziali ai dati della percezione sensibile) è debole nell'infanzia, mentre fin da piccoli i bambini agiscono fidando nella consuetudine. Quando ancora non sono in grado di argomentare, essi confidano infatti già nel rapporto di causa-effetto (per esempio afferrando oggetti che desiderano). Reid "personalizza" tale affidamento alla consuetudine spiegando che fin da piccoli i bambini si affidano a quanto viene detto loro. E fanno benissimo, continua Reid, giacché senza tale affidamento non arriverebbero mai all'età adulta giacché se non ascoltassero i genitori finirebbero per incorrere in incidenti gravi.
Prima di proseguire, è però necessaria una premessa terminologica. Abbiamo fin dall'inizio osservato (si veda il cap. 0) che il concetto indiano di Parola come strumento conoscitivo raccoglie casi in Occidente sentiti come diversi. Per tale motivo, nel cercare agganci occidentali per possibili paralleli e sviluppi ulteriori, dobbiamo essere pronti a cogliere somiglianze di temi pur nelle diverse terminologie. Il termine che Reid (per cui si veda il cap. 8) utilizza per riferirsi alla Parola come strumento conoscitivo è "testimonianza".
Nel suo "An Inquiry into the Human Mind on the Principles of Common Sense" (1764, v. bibliografia per le edizioni), largo spazio è dedicato alla testimonianza, in particolare nell'ultimo capitolo. Lì si stabilisce un'analogia fra percezione diretta e testimonianza. Un simile paragone era stato stabilito da Śabara nel suo commento al MS. Śabara sostiene infatti che lo śāstra (ossia il Veda, la Parola come strumento epistemico indipendente dal suo autore) sia, come la percezione sensibile per il mondo ordinario, l'unica fonte di conoscenza per il trascendente (inferenza etc. rielaborano cioè i dati originariamente tratti da percezione o śāstra). Afferma inoltre Śabara che lo śāstra comunica conoscenza direttamente, come la percezione sensibile (mentre inferenza etc. offrono conoscenze mediate). L'argomento di Reid è simile nel considerare l'inferenza e gli altri strumenti conoscitivi subordinati a percezione diretta e testimonianza. Tuttavia, originale in Reid è il trattamento dell'altro elemento di somiglianza, ossia l'immediatezza. Sostiene infatti Reid che in realtà nessuna delle due comunichi immediatamente conoscenza. Al contrario, nell'una e nell'altra si succedono un livello immediato (quello rispettivamente delle sensazioni brute e del tono della voce/espressione del volto etc.) e uno mediato (quello dei dati sensori già parzialmente elaborati e del linguaggio). In tal senso, Reid parla anche circa i dati sensori di "testimonianza", attribuendo alla natura (e, implicitamente, al suo autore) il ruolo di teste.
Per quanto riguarda le categorie concettuali elaborate nei capitoli precedenti, Reid riconosce l'inevitabilità della testimonianza, in ogni ambito. Non individua un ambito, per esempio quello deontico, in cui la testimonianza sia l'unico strumento conoscitivo, e anzi sembra alludere al fatto che il suo ambito di applicazione si sovrapponga interamente a quello di percezione e ragionamento (=inferenza etc.). Tuttavia, la testimonianza è il principale strumento conoscitivo per chi non abbia ancora affinato percezione e ragionamento, ossia bambini e gente semplice. Riconoscere un tale ruolo forte alla testimonianza fa sì che Reid non debba ricorrere ad altre fonti (tipo le idee innate o l'intuizione intellettuale).
Il termine "testimonianza" rimanda necessariamente a un autore, per cui potrebbe sorprendere che poco o nessuno spazio sia destinato da Reid al problema dell'affidabilità del teste. Anzi, non ostante parli di "testimonianza", Reid non prende affatto in considerazione la figura del teste. In un certo senso, si potrebbe sostenere che nella sua testimonianza l'autore tende a scomparire in quanto individualità definita. Si parla perciò, come accennato sopra, di testimonianza anche nei riguardi della natura. Il riferimento potrebbe essere a Dio che parlerebbe attraverso di questa, ma Reid non Lo cita esplicitamente e in generale Dio pare piuttosto svolgere un ruolo di sfondo, di garante della totalità del sistema elaborato da Reid più che rivestirvi un ruolo specifico. Sul piano della testimonianza propriamente detta, invece, l'apparente distonia fra il termine "testimonianza" e l'assenza di un autore individuato si spiega perché Reid non ha bisogno di dare criteri specifici per l'affidabilità del teste, come se questa fosse un'eccezione. Si limita invece a osservare che l'affidabilità è la regola e che quindi fidarsi di ciò che vien detto è giusto, oltre a essere indispensabile. "[...] La propensità a dire la verità –scrive Reid– [...] opera potentemente anche nei maggiori bugiardi, perché per ogni volta che mentono anch'essi dicono la verità cento volte". Tale generale affidabilità fa sì che si sviluppi un legame fra vocabolo e significato. Tale legame non è quindi per Reid fissato direttamente da Dio (come per il Nyāya), né oggetto di una convenzione stipulata da alcuni uomini (come per la scuola epistemologica buddhista). Al contrario, la connessione deriva dall'uso dei parlanti ed è detta essere "reale". Se Reid si limitasse a questa constatazione, potremmo dire che la sua conclusione circa il rapporto vocabolo/significato è molto simile alla posizione della Mīmāṃsā. Ma Reid scrive dopo Hume (anzi Hume lesse e commentò il manoscritto dell'Inquiry prima della sua pubblicazione e Reid lo corresse dopo tale lettura), e non ostante anche i mīmāṃsaka abbiano dovuto fronteggiare avversari scettici, Reid è più esplicito nel porre il problema dell'affidabilità del dato. Infatti, sia Reid sia la Mīmāṃsā desiderano render conto del dato di fatto della generale diffusione della Parola come strumento di conoscenza. Entrambi notano che perché la Parola comunichi conoscenza il linguaggio in sé deve essere una via d'accesso sicura al pensiero e quindi al mondo oggettivo, e non una sua irregolare deformazione. Ma Reid si chiede esplicitamente come ciò sia possibile. Come possiamo, domanda, contare sul fatto che le stesse parole continuino a essere usate dai nostri simili per esprimere gli stessi significati? Hume ha già mostrato che la ripetitività non è una garanzia e che la ripetizione di uno stesso evento per un numero elevato di volte comunque non dimostra nulla circa il futuro. Reid deve perciò ricorrere a Dio. Infatti, per tornare allo sfondo di garanzia offerto da Dio, l'istintivo fidarsi della testimonianza, così come l'istintiva veracità sono due segni evidenti, secondo Reid, del piano di Dio il quale vuole per il nostro bene che sia possibile scambiarsi informazioni. Il problema della persistenza del dato (per esempio, del rapporto fra vocabolo e significato) si sposta così sul problema dell'esistenza di Dio. Rispetto alla Mīmāṃsā, Reid ha compiuto un passo innanzi nell'ancorare il dato a una base salda, ma anche uno indietro, poiché al di fuori del dato empiricamente riscontrabile ogni teoria è destinata a poter essere confutata. Questo è almeno quanto sosterrebbero i mīmāṃsaka. Si potrebbe obiettare che anche il dato può essere revocato in dubbio (è avvenuto sia in India con alcune scuole buddhiste, sia in Occidente, con Kant, Hegel, Schopenhauer, Fichte etc.), ma di certo l'esperienza ordinaria rappresenta un limite per l'interpretazione filosofica, che deve comunque essere in grado di renderne conto, e il modo più diretto di renderne conto è fidarsene. Quest'ultimo punto sembrerebbe portare alla conclusione per cui, anche in Reid, apparentemente Dio conferisce certezza al dato, ma in ultima analisi è l'evidenza del dato, in cui si riscontra una "connessione reale" fra vocabolo e significato etc., a deporre a favore dell'esistenza di un garante che consenta tutto ciò.
Prima di proseguire, è però necessaria una premessa terminologica. Abbiamo fin dall'inizio osservato (si veda il cap. 0) che il concetto indiano di Parola come strumento conoscitivo raccoglie casi in Occidente sentiti come diversi. Per tale motivo, nel cercare agganci occidentali per possibili paralleli e sviluppi ulteriori, dobbiamo essere pronti a cogliere somiglianze di temi pur nelle diverse terminologie. Il termine che Reid (per cui si veda il cap. 8) utilizza per riferirsi alla Parola come strumento conoscitivo è "testimonianza".
Nel suo "An Inquiry into the Human Mind on the Principles of Common Sense" (1764, v. bibliografia per le edizioni), largo spazio è dedicato alla testimonianza, in particolare nell'ultimo capitolo. Lì si stabilisce un'analogia fra percezione diretta e testimonianza. Un simile paragone era stato stabilito da Śabara nel suo commento al MS. Śabara sostiene infatti che lo śāstra (ossia il Veda, la Parola come strumento epistemico indipendente dal suo autore) sia, come la percezione sensibile per il mondo ordinario, l'unica fonte di conoscenza per il trascendente (inferenza etc. rielaborano cioè i dati originariamente tratti da percezione o śāstra). Afferma inoltre Śabara che lo śāstra comunica conoscenza direttamente, come la percezione sensibile (mentre inferenza etc. offrono conoscenze mediate). L'argomento di Reid è simile nel considerare l'inferenza e gli altri strumenti conoscitivi subordinati a percezione diretta e testimonianza. Tuttavia, originale in Reid è il trattamento dell'altro elemento di somiglianza, ossia l'immediatezza. Sostiene infatti Reid che in realtà nessuna delle due comunichi immediatamente conoscenza. Al contrario, nell'una e nell'altra si succedono un livello immediato (quello rispettivamente delle sensazioni brute e del tono della voce/espressione del volto etc.) e uno mediato (quello dei dati sensori già parzialmente elaborati e del linguaggio). In tal senso, Reid parla anche circa i dati sensori di "testimonianza", attribuendo alla natura (e, implicitamente, al suo autore) il ruolo di teste.
Per quanto riguarda le categorie concettuali elaborate nei capitoli precedenti, Reid riconosce l'inevitabilità della testimonianza, in ogni ambito. Non individua un ambito, per esempio quello deontico, in cui la testimonianza sia l'unico strumento conoscitivo, e anzi sembra alludere al fatto che il suo ambito di applicazione si sovrapponga interamente a quello di percezione e ragionamento (=inferenza etc.). Tuttavia, la testimonianza è il principale strumento conoscitivo per chi non abbia ancora affinato percezione e ragionamento, ossia bambini e gente semplice. Riconoscere un tale ruolo forte alla testimonianza fa sì che Reid non debba ricorrere ad altre fonti (tipo le idee innate o l'intuizione intellettuale).
Il termine "testimonianza" rimanda necessariamente a un autore, per cui potrebbe sorprendere che poco o nessuno spazio sia destinato da Reid al problema dell'affidabilità del teste. Anzi, non ostante parli di "testimonianza", Reid non prende affatto in considerazione la figura del teste. In un certo senso, si potrebbe sostenere che nella sua testimonianza l'autore tende a scomparire in quanto individualità definita. Si parla perciò, come accennato sopra, di testimonianza anche nei riguardi della natura. Il riferimento potrebbe essere a Dio che parlerebbe attraverso di questa, ma Reid non Lo cita esplicitamente e in generale Dio pare piuttosto svolgere un ruolo di sfondo, di garante della totalità del sistema elaborato da Reid più che rivestirvi un ruolo specifico. Sul piano della testimonianza propriamente detta, invece, l'apparente distonia fra il termine "testimonianza" e l'assenza di un autore individuato si spiega perché Reid non ha bisogno di dare criteri specifici per l'affidabilità del teste, come se questa fosse un'eccezione. Si limita invece a osservare che l'affidabilità è la regola e che quindi fidarsi di ciò che vien detto è giusto, oltre a essere indispensabile. "[...] La propensità a dire la verità –scrive Reid– [...] opera potentemente anche nei maggiori bugiardi, perché per ogni volta che mentono anch'essi dicono la verità cento volte". Tale generale affidabilità fa sì che si sviluppi un legame fra vocabolo e significato. Tale legame non è quindi per Reid fissato direttamente da Dio (come per il Nyāya), né oggetto di una convenzione stipulata da alcuni uomini (come per la scuola epistemologica buddhista). Al contrario, la connessione deriva dall'uso dei parlanti ed è detta essere "reale". Se Reid si limitasse a questa constatazione, potremmo dire che la sua conclusione circa il rapporto vocabolo/significato è molto simile alla posizione della Mīmāṃsā. Ma Reid scrive dopo Hume (anzi Hume lesse e commentò il manoscritto dell'Inquiry prima della sua pubblicazione e Reid lo corresse dopo tale lettura), e non ostante anche i mīmāṃsaka abbiano dovuto fronteggiare avversari scettici, Reid è più esplicito nel porre il problema dell'affidabilità del dato. Infatti, sia Reid sia la Mīmāṃsā desiderano render conto del dato di fatto della generale diffusione della Parola come strumento di conoscenza. Entrambi notano che perché la Parola comunichi conoscenza il linguaggio in sé deve essere una via d'accesso sicura al pensiero e quindi al mondo oggettivo, e non una sua irregolare deformazione. Ma Reid si chiede esplicitamente come ciò sia possibile. Come possiamo, domanda, contare sul fatto che le stesse parole continuino a essere usate dai nostri simili per esprimere gli stessi significati? Hume ha già mostrato che la ripetitività non è una garanzia e che la ripetizione di uno stesso evento per un numero elevato di volte comunque non dimostra nulla circa il futuro. Reid deve perciò ricorrere a Dio. Infatti, per tornare allo sfondo di garanzia offerto da Dio, l'istintivo fidarsi della testimonianza, così come l'istintiva veracità sono due segni evidenti, secondo Reid, del piano di Dio il quale vuole per il nostro bene che sia possibile scambiarsi informazioni. Il problema della persistenza del dato (per esempio, del rapporto fra vocabolo e significato) si sposta così sul problema dell'esistenza di Dio. Rispetto alla Mīmāṃsā, Reid ha compiuto un passo innanzi nell'ancorare il dato a una base salda, ma anche uno indietro, poiché al di fuori del dato empiricamente riscontrabile ogni teoria è destinata a poter essere confutata. Questo è almeno quanto sosterrebbero i mīmāṃsaka. Si potrebbe obiettare che anche il dato può essere revocato in dubbio (è avvenuto sia in India con alcune scuole buddhiste, sia in Occidente, con Kant, Hegel, Schopenhauer, Fichte etc.), ma di certo l'esperienza ordinaria rappresenta un limite per l'interpretazione filosofica, che deve comunque essere in grado di renderne conto, e il modo più diretto di renderne conto è fidarsene. Quest'ultimo punto sembrerebbe portare alla conclusione per cui, anche in Reid, apparentemente Dio conferisce certezza al dato, ma in ultima analisi è l'evidenza del dato, in cui si riscontra una "connessione reale" fra vocabolo e significato etc., a deporre a favore dell'esistenza di un garante che consenta tutto ciò.
9. Applicazioni occidentali
Tento ora alcuni spunti applicativi, al fine di indagare circa la possibilità di ripensare la filosofia occidentale alla luce dei paradigmi elaborati in India intorno alla Parola come strumento conoscitivo. Fine dell'esperimento è vedere se tale applicazione può servire a offrire un nuovo punto di vista da cui ripensare la filosofia occidentale.
Come punto di partenza di un'attitudine (mi pare) diffusa in ambito occidentale, cito alcune parole di Denis Diderot:
"L'intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso le sue incertezze, la memoria i suoi limiti, l'immaginazione le sue oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono infiniti, le cause nascoste, le forme –forse– transitorie. Contro tanti ostacoli che troviamo in noi stessi e che la natura ci oppone, disponiamo solo di un'esperienza lenta e di una riflessione limitata. Queste sono le leve mediante le quali la filosofia si è proposta di sollevare il mondo".
La polemica contro i pregiudizi mi sembra riconducibile al rifiuto di tributare un ruolo alla Parola come strumento conoscitivo, mentre da notare è che gli unici strumenti conoscitivi riconosciuti sono percezione diretta ("esperienza") e procedimenti inferenziali ("riflessione").
Ma lo stesso Illuminismo non è affatto univoco nel promuovere questi due strumenti conoscitivi. Un caso interessantissimo è quello di David Hume (Edimburgo 1711-1776). Relativamente al nostro ambito di indagine, Hume nota che la "ragione" (ossia i procedimenti inferenziali applicati ai dati della percezione diretta) non fonda la morale. La ragione, continua Hume, non ci dice per esempio che è sbagliato preferire la distruzione del mondo al graffiarci un dito (né ci dice che sia sbagliato il contrario). Il giudizio morale, potremmo dire, contiene uno scarto che non deriva dalla rielaborazione dei dati dell'esperienza (si vedano in proposito le mie conclusioni, cap. 8, e i capitoli sulla Mīmāṃsā). Più dirompente può apparire la constatazione di Hume che la ragione non ha valore fondante nemmeno nell'ambito epistemico dell'esperienza ordinaria. Infatti, ogni nostra conclusione si basa su categorie che prescindono dall'esperienza (e che non possono provenire da procedimenti inferenziali, dato che questi non sono che rielaborazioni di dati sensibli). Un esempio di tali categorie è la connessione fra causa ed effetto. Nulla nell'esperienza ci autorizza a concludere che un evento sia causa di un altro. Tutto ciò che l'esperienza ci autorizza a concludere è l'usuale successione temporale fra due eventi (tipo il muoversi di una pallina dopo che sia stata colpita da una stecca da biliardo, l'esempio è di Hume stesso). Fondante diventa perciò, per Hume, la consuetudine. Questa sembra coprire il ruolo di fondamento normativo che in India spesso ricopre la Parola come strumento conoscitivo.
Ciò mi dà anche modo di spendere qualche parola circa un apparente paradosso presente nella filosofia moderna in Occidente. Gran parte dei suoi autori, come abbiamo più volte ricordato, è orgogliosa della propria indipendenza intellettuale e condanna la Parola come strumento conoscitivo condannando pregiudizi e sudditanza al principio di autorità. Tuttavia molti di questi stessi autori erano devoti cristiani e spesso sacerdoti essi stessi. Mi chiedo allora se, esplicitamente (come nel caso di Cartesio) o implicitamente tutti considerassero la conoscenza umana autonoma poiché ciò è permesso da Dio. Dio si troverebbe perciò ad avere valore fondante anche dell'autonomia della conoscenza. In modo, mi pare, simile, Steinkellner (testi 8 e 5 della bibliografia) nota come il Buddha garantisca che gli strumenti conoscitivi umani non siano fallaci.
(Ringrazio un ignaro Paolo Rossi che in un suo articolo mi ha offerto una citazione di Diderot e qualche idea che ho collocato in ordine sparso. Ovviamente resto io l'unica responsabile di quanto scrivo sui paralleli fra filosofia indiana e occidentale e anche delle mie opinioni circa la filosofia occidentale).
Come punto di partenza di un'attitudine (mi pare) diffusa in ambito occidentale, cito alcune parole di Denis Diderot:
"L'intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso le sue incertezze, la memoria i suoi limiti, l'immaginazione le sue oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono infiniti, le cause nascoste, le forme –forse– transitorie. Contro tanti ostacoli che troviamo in noi stessi e che la natura ci oppone, disponiamo solo di un'esperienza lenta e di una riflessione limitata. Queste sono le leve mediante le quali la filosofia si è proposta di sollevare il mondo".
La polemica contro i pregiudizi mi sembra riconducibile al rifiuto di tributare un ruolo alla Parola come strumento conoscitivo, mentre da notare è che gli unici strumenti conoscitivi riconosciuti sono percezione diretta ("esperienza") e procedimenti inferenziali ("riflessione").
Ma lo stesso Illuminismo non è affatto univoco nel promuovere questi due strumenti conoscitivi. Un caso interessantissimo è quello di David Hume (Edimburgo 1711-1776). Relativamente al nostro ambito di indagine, Hume nota che la "ragione" (ossia i procedimenti inferenziali applicati ai dati della percezione diretta) non fonda la morale. La ragione, continua Hume, non ci dice per esempio che è sbagliato preferire la distruzione del mondo al graffiarci un dito (né ci dice che sia sbagliato il contrario). Il giudizio morale, potremmo dire, contiene uno scarto che non deriva dalla rielaborazione dei dati dell'esperienza (si vedano in proposito le mie conclusioni, cap. 8, e i capitoli sulla Mīmāṃsā). Più dirompente può apparire la constatazione di Hume che la ragione non ha valore fondante nemmeno nell'ambito epistemico dell'esperienza ordinaria. Infatti, ogni nostra conclusione si basa su categorie che prescindono dall'esperienza (e che non possono provenire da procedimenti inferenziali, dato che questi non sono che rielaborazioni di dati sensibli). Un esempio di tali categorie è la connessione fra causa ed effetto. Nulla nell'esperienza ci autorizza a concludere che un evento sia causa di un altro. Tutto ciò che l'esperienza ci autorizza a concludere è l'usuale successione temporale fra due eventi (tipo il muoversi di una pallina dopo che sia stata colpita da una stecca da biliardo, l'esempio è di Hume stesso). Fondante diventa perciò, per Hume, la consuetudine. Questa sembra coprire il ruolo di fondamento normativo che in India spesso ricopre la Parola come strumento conoscitivo.
Ciò mi dà anche modo di spendere qualche parola circa un apparente paradosso presente nella filosofia moderna in Occidente. Gran parte dei suoi autori, come abbiamo più volte ricordato, è orgogliosa della propria indipendenza intellettuale e condanna la Parola come strumento conoscitivo condannando pregiudizi e sudditanza al principio di autorità. Tuttavia molti di questi stessi autori erano devoti cristiani e spesso sacerdoti essi stessi. Mi chiedo allora se, esplicitamente (come nel caso di Cartesio) o implicitamente tutti considerassero la conoscenza umana autonoma poiché ciò è permesso da Dio. Dio si troverebbe perciò ad avere valore fondante anche dell'autonomia della conoscenza. In modo, mi pare, simile, Steinkellner (testi 8 e 5 della bibliografia) nota come il Buddha garantisca che gli strumenti conoscitivi umani non siano fallaci.
(Ringrazio un ignaro Paolo Rossi che in un suo articolo mi ha offerto una citazione di Diderot e qualche idea che ho collocato in ordine sparso. Ovviamente resto io l'unica responsabile di quanto scrivo sui paralleli fra filosofia indiana e occidentale e anche delle mie opinioni circa la filosofia occidentale).
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8. Conclusioni
Concludo raccordando i due aspetti che hanno svolto la funzione di Leitmotiv sin dal primo capitolo, ossia la fondamentalità della Parola come strumento conoscitivo e la comparazione fra filosofia indiana e occidentale. A parte alcuni scettici pirroniani, nessuno, né in ambito indiano né occidentale, nega la necessità di utilizzare la percezione sensibile per poter acquisire conoscenza. Anzi, secondo varie scuole (che potremmo definire grosso modo empiriste) questa è il fondamento unico a partire dal quale sarebbe possibile ricavare ogni altra conoscenza. In realtà (fatte salve, anche in questo caso, alcune posizioni estreme, ma marginali), nessuno ha sostenuto che dalla percezione sensibile potesse essere dedotta DIRETTAMENTE ogni nozione complessa. I processi di astrazione e generalizzazione restano necessari e possono essere ricondotti a quella capacità di mettere in relazione i propri contenuti conoscitivi che possiamo chiamare in senso lato "inferenza". Ma, poiché l'inferenza ha bisogno di premesse, essa non può essere la fonte ultima delle nostre conoscenze. Si candida invece a tale ruolo la percezione sensibile. Nel capitolo 0. ("Perché parlare di Parola come fondamento della filosofia?") ho esposto il mio scetticismo in merito. Anche escludendo però i miei dubbi circa la fondamentalità della percezione sensibile nel suo proprio dominio, resta certo che da questa non possiamo trarre alcuna nozione che travalichi la descrizione del presente. Tramite percezione sensibile non possiamo venire a conoscere nulla del futuro, né di quanto non è al momento, ma dovrebbe essere, dato che gli organi di senso per definizione non possono essere in contatto che con oggetti presenti. A questo punto di presentano due alternative. O affidarsi a una fonte altra oppure escludere dalla conoscenza propriamente detta tutto quanto non sia accessibile tramite percezione sensibile. Quest'ultima operazione è stata tentata in Occidente dalla filosofia analitica laddove ha sostenuto (con Ayer, professore di logica a Oxford, 1910-1989) che le proposizioni etiche o metafisiche non sono né vere né false, ma semplicemente senza significato, come "Ho udito l'anno prossimo un cerchio quadrato" o "xxx2 yy´x zz33". Tale riduzione dell'ambito della conoscenza è però opinabile anche dall'interno, nel senso che non è affatto detto che la stessa scienza non poggi su assunti indimostrati, tipo la relazione di causa-effetto o, più in concreto, il Big Bang. Pertanto, in questo corso ho tentato invece di recuperare alla conoscenza anche dominii essenziali per l'esistenza umana quali la morale, il diritto, la religione. Per tutti questi ambiti bisogna affidarsi a una fonte altra rispetto alla percezione sensibile.
In Occidente, tale ruolo è stato spesso rivestito dalle idee innate e dalla loro fonte ultima, Dio. In India, troviamo l'intuizione intellettuale dei ṛṣi, Dio, e la Parola vedica. Le scuole buddhiste e il Sāṅkhya tentano di mostrare come, sebbene esistano ambiti accessibili solo dalla Parola come strumento epistemico, questi abbiano scarsa rilevanza epistemica (giacché non influenzano l'ambito empirico, che è quello in cui si gioca la vera partita circa la validità della conoscenza), e scarsa importanza anche ai fini della liberazione. Non so se tale tentativo potrebbe a priori realizzarsi, di fatto però nella storia delle suddette scuole l'autorità dei fondatori tende ad acquisire un ruolo importante e a travalicare gli ambiti ristretti suindicati. È anche possibile che questa non sia una conseguenza indesiderata, bensì una premessa che era ben chiara fin dagli esordi di queste scuole, che hanno perciò espresso scetticismo nei confronti, per esempio, della sola Parola vedica e non di ogni sorta di Parola come strumento conoscitivo.
Sembrerebbe uscire da questo schema il Nyāya, in cui troviamo una doppia fonte per il trascendente, ossia la Parola come strumento conoscitivo e l'intuizione intellettuale (yogipratyaksa). Di fatto la situazione, a partire dal NS è senz'altro quella di una doppia fonte, ma esistono secondo la mia opinione vari indizi che mostrano come tale situazione sia un esito secondario della preistoria naiyāyika. Infatti, la forma di Parola come strumento conoscitivo accettata, ossia la Parola come testimonianza di un esperto depone a favore di un uso principalmente mondano della Parola come strumento conoscitivo. In un momento x della storia precedente al NS, possiamo perciò ipotizzare che la Parola come strumento conoscitivo avesse come ambito la comunicazione ordinaria, mentre l'intuizione intellettuale servisse ad accertare quanto trascende l'ordinario. Probabilmente la necessità di accogliere il Veda con una posizione a sé nella propria epistemologia ha fatto sì che anche l'intuizione intellettuale dei ṛṣi venisse inclusa nella Parola come strumento conoscitivo (cfr Vātsyāyana ad NS 1.1.7, dove spiega che la definizione di Parola come strumento conoscitivo si applica a barbari, persone ordinarie e ṛṣi).
Un cammino simmetrico è compiuto dalla Mīmāṃsā, in cui il Veda è a priori accettato come fonte conoscitiva, ma nella Bhāṭṭa Mīmāṃsā, forse per influenza del Nyāya, o in genere per attenzione ai dati di fatto reali, si accetta come strumento conoscitivo anche la Parola di persone ordinarie.
Sul piano storico, abbiamo osservato come intorno alla Parola come strumento conoscitivo evolvano il Sāṅkhya (nell'accettare il Veda) il Nyāya (nel conferire un ruolo prominente a Dio e accettare l'autorevolezza di testi sacri diversi dal Veda), il Vaiśeṣika (nell'accettare Dio come autore del Veda e, fondendosi con il Nyāya, finire per rinunciare anche alla propria posizione circa la Parola come caso di inferenza).
Aggiungo una mia valutazione personale. Lo studio delle correnti filosofiche indiane è indicativo, perché secoli di storia e di dibattiti permettono di vedere alla prova la Parola come strumento conoscitivo. Mi sembra se ne possa trarre l'insostituibilità della Parola come strumento conoscitivo in ambito deontico (ciò che deve essere fatto non esiste in quanto tale e quindi non può essere raggiunto da percezione diretta o inferenza). Sfruttando i confini più ampi dell'epistemologia in India il Nyāya può (si veda l'esordio del commento al NS) proporre che conoscenza di un oggetto e valutazione morale di questo siano in continuum. Ma mi pare che la distinzione netta operata dalla Mīmāṃsā sia empiricamente più valida, data la difficoltà di giustificare, e l'impossibilità di verificare, tale continuum. In ambito trascendente, invece, la Parola come strumento conoscitivo è più inevitabile che insostituibile. Potrebbe infatti essere sostituita se si riuscisse a rendere il trascendente non più tale (per esempio mettendolo alla portata dell'intuizione intellettuale, o minimizzandone l'entità). Per quanto concerne l'esperienza ordinaria, invece, nessuna scuola sostiene che la Parola come strumento conoscitivo sia insostituibile, ma di fatto è impensabile pensare di acquisire conoscenza scartando una tale fonte (oltre ai dubbi, non espressi in India, circa la possibilità stessa di una tale intrapresa, sia per il regressus ad infinitum che comporta, sia per il circolo virtuoso che spesso si innesta fra Parola come strumento conoscitivo e percezione sensibile).
Sul piano politico, infine, che conseguenze hanno questi diversi modi di intendere i testi che hanno autorità in ambito religioso (il che significa spesso anche in ambito morale e anche in ambito giuridico)? L'approccio del Nyāya permette di ampliare potenzialmente all'infinito la Rivelazione, nel senso che se si attribuisce a Dio l'autorità che per Suo tramite giunge ai testi sacri, è sempre possibile immaginare che Dio enunci nuovi testi di pari autorità. Come distinguere però le nuove rivelazioni da testi sedicenti tali? A questa domanda in realtà insolubile (perché tocca l'ambito privatissimo della fede, per cui finiamo per riconoscere un certo testo come autorevole o per disconoscerlo come apocrifo solo in quanto abbiamo fede in questo o nel suo enunciatore) il Nyāya risponde facendo appello all'accettazione da parte della comunità. La Mīmāṃsā è più netta, almeno in linea di principio, nel separare il Veda da tutti gli altri possibili testi sacri. Ma riconduce al Veda, tramite inferenza, ogni altro testo autorevole sul piano giuridico e morale e anche lo stesso comportamento retto dei giusti. Infine, i buddhisti e comunque tutte le scuole che attribuiscono valore fondante all'intuizione intellettuale (yogipratyakṣa) di un singolo sembrano a prima vista meno dogmatiche, ma allo stesso tempo esaltando un uomo senza pari lo allontanano dall'esperienza ordinaria. Il suo messaggio può così essere inteso come un "miracolo", un unicum irripetibile. Se infatti è teoricamente possibile che altri uomini (più complessa la situazione per le donne) raggiungano il risveglio e siano quindi alla pari del Buddha storico, tuttavia nei secoli intercorsi dalla fondazione del Buddhismo a oggi ciò non si è mai realizzato se non in gruppi carismatici (tipo la Soka Gakkai), che hanno di fatto sostituito il proprio capo carismatico al Buddha Śakyamuni.
In Occidente, tale ruolo è stato spesso rivestito dalle idee innate e dalla loro fonte ultima, Dio. In India, troviamo l'intuizione intellettuale dei ṛṣi, Dio, e la Parola vedica. Le scuole buddhiste e il Sāṅkhya tentano di mostrare come, sebbene esistano ambiti accessibili solo dalla Parola come strumento epistemico, questi abbiano scarsa rilevanza epistemica (giacché non influenzano l'ambito empirico, che è quello in cui si gioca la vera partita circa la validità della conoscenza), e scarsa importanza anche ai fini della liberazione. Non so se tale tentativo potrebbe a priori realizzarsi, di fatto però nella storia delle suddette scuole l'autorità dei fondatori tende ad acquisire un ruolo importante e a travalicare gli ambiti ristretti suindicati. È anche possibile che questa non sia una conseguenza indesiderata, bensì una premessa che era ben chiara fin dagli esordi di queste scuole, che hanno perciò espresso scetticismo nei confronti, per esempio, della sola Parola vedica e non di ogni sorta di Parola come strumento conoscitivo.
Sembrerebbe uscire da questo schema il Nyāya, in cui troviamo una doppia fonte per il trascendente, ossia la Parola come strumento conoscitivo e l'intuizione intellettuale (yogipratyaksa). Di fatto la situazione, a partire dal NS è senz'altro quella di una doppia fonte, ma esistono secondo la mia opinione vari indizi che mostrano come tale situazione sia un esito secondario della preistoria naiyāyika. Infatti, la forma di Parola come strumento conoscitivo accettata, ossia la Parola come testimonianza di un esperto depone a favore di un uso principalmente mondano della Parola come strumento conoscitivo. In un momento x della storia precedente al NS, possiamo perciò ipotizzare che la Parola come strumento conoscitivo avesse come ambito la comunicazione ordinaria, mentre l'intuizione intellettuale servisse ad accertare quanto trascende l'ordinario. Probabilmente la necessità di accogliere il Veda con una posizione a sé nella propria epistemologia ha fatto sì che anche l'intuizione intellettuale dei ṛṣi venisse inclusa nella Parola come strumento conoscitivo (cfr Vātsyāyana ad NS 1.1.7, dove spiega che la definizione di Parola come strumento conoscitivo si applica a barbari, persone ordinarie e ṛṣi).
Un cammino simmetrico è compiuto dalla Mīmāṃsā, in cui il Veda è a priori accettato come fonte conoscitiva, ma nella Bhāṭṭa Mīmāṃsā, forse per influenza del Nyāya, o in genere per attenzione ai dati di fatto reali, si accetta come strumento conoscitivo anche la Parola di persone ordinarie.
Sul piano storico, abbiamo osservato come intorno alla Parola come strumento conoscitivo evolvano il Sāṅkhya (nell'accettare il Veda) il Nyāya (nel conferire un ruolo prominente a Dio e accettare l'autorevolezza di testi sacri diversi dal Veda), il Vaiśeṣika (nell'accettare Dio come autore del Veda e, fondendosi con il Nyāya, finire per rinunciare anche alla propria posizione circa la Parola come caso di inferenza).
Aggiungo una mia valutazione personale. Lo studio delle correnti filosofiche indiane è indicativo, perché secoli di storia e di dibattiti permettono di vedere alla prova la Parola come strumento conoscitivo. Mi sembra se ne possa trarre l'insostituibilità della Parola come strumento conoscitivo in ambito deontico (ciò che deve essere fatto non esiste in quanto tale e quindi non può essere raggiunto da percezione diretta o inferenza). Sfruttando i confini più ampi dell'epistemologia in India il Nyāya può (si veda l'esordio del commento al NS) proporre che conoscenza di un oggetto e valutazione morale di questo siano in continuum. Ma mi pare che la distinzione netta operata dalla Mīmāṃsā sia empiricamente più valida, data la difficoltà di giustificare, e l'impossibilità di verificare, tale continuum. In ambito trascendente, invece, la Parola come strumento conoscitivo è più inevitabile che insostituibile. Potrebbe infatti essere sostituita se si riuscisse a rendere il trascendente non più tale (per esempio mettendolo alla portata dell'intuizione intellettuale, o minimizzandone l'entità). Per quanto concerne l'esperienza ordinaria, invece, nessuna scuola sostiene che la Parola come strumento conoscitivo sia insostituibile, ma di fatto è impensabile pensare di acquisire conoscenza scartando una tale fonte (oltre ai dubbi, non espressi in India, circa la possibilità stessa di una tale intrapresa, sia per il regressus ad infinitum che comporta, sia per il circolo virtuoso che spesso si innesta fra Parola come strumento conoscitivo e percezione sensibile).
Sul piano politico, infine, che conseguenze hanno questi diversi modi di intendere i testi che hanno autorità in ambito religioso (il che significa spesso anche in ambito morale e anche in ambito giuridico)? L'approccio del Nyāya permette di ampliare potenzialmente all'infinito la Rivelazione, nel senso che se si attribuisce a Dio l'autorità che per Suo tramite giunge ai testi sacri, è sempre possibile immaginare che Dio enunci nuovi testi di pari autorità. Come distinguere però le nuove rivelazioni da testi sedicenti tali? A questa domanda in realtà insolubile (perché tocca l'ambito privatissimo della fede, per cui finiamo per riconoscere un certo testo come autorevole o per disconoscerlo come apocrifo solo in quanto abbiamo fede in questo o nel suo enunciatore) il Nyāya risponde facendo appello all'accettazione da parte della comunità. La Mīmāṃsā è più netta, almeno in linea di principio, nel separare il Veda da tutti gli altri possibili testi sacri. Ma riconduce al Veda, tramite inferenza, ogni altro testo autorevole sul piano giuridico e morale e anche lo stesso comportamento retto dei giusti. Infine, i buddhisti e comunque tutte le scuole che attribuiscono valore fondante all'intuizione intellettuale (yogipratyakṣa) di un singolo sembrano a prima vista meno dogmatiche, ma allo stesso tempo esaltando un uomo senza pari lo allontanano dall'esperienza ordinaria. Il suo messaggio può così essere inteso come un "miracolo", un unicum irripetibile. Se infatti è teoricamente possibile che altri uomini (più complessa la situazione per le donne) raggiungano il risveglio e siano quindi alla pari del Buddha storico, tuttavia nei secoli intercorsi dalla fondazione del Buddhismo a oggi ciò non si è mai realizzato se non in gruppi carismatici (tipo la Soka Gakkai), che hanno di fatto sostituito il proprio capo carismatico al Buddha Śakyamuni.
martedì 27 marzo 2007
7.6 La polemica Franco-Steinkellner circa il Buddha come pramana
Osserviamo ora più in dettaglio i termini dell'opposizione fra fede nel Buddha e autonomia degli strumenti conoscitivi umani così come si configura nella scuola epistemologica buddhista.
Punto di partenza centrale è il maṅgala (verso iniziale di buon augurio) del Pramāṇasamuccaya di Dignāga che, come abbiamo visto nel cap. 7.4, funge da testo radice per la scuola epistemologica buddhista. Dignāga vi saluta il Buddha chiamandolo "pramāṇabhūta", ossia "che è come uno strumento conoscitivo", ovvero "che è divenuto uno strumento conoscitivo". L'attribuzione di un tale attributo a un uomo ha fatto molto discutere sia all'interno della scuola epistemologica buddhista, sia fra gli studiosi contemporanei. David Seyfort Ruegg (si vedano i punti 6 e 7 della bibliografia) spiega che il termine pramāṇabhūta è diffusissimo in India. Lo si trova già nel Mahābhāṣya di Patañjali (un'opera grammaticale di fondamentale importanza e grandissima diffusione, databile intorno al II secolo a. Ch.) ed è frequente anche nella letteratura non buddhista, sempre in relazione a un ācārya (maestro) di grande valore. Come già accennato, bhūta al termine del composto può essere tradotto "divenuto" (il Buddha, che è divenuto uno strumento conoscitivo, nel senso che è divenuto tale nel corso della sua vita, in opposizione al presunto Dio venerato da Naiyāyika etc., che è perfetto fin dall'inizio), o "come" (Il Buddha, che è come uno strumento conoscitivo). Ovviamente la prima soluzione sarà preferita da chi è disposto ad ammettere che la Parola del Buddha ha un valore fondante, mentre la seconda è prediletta da chi sostiene che il verso di Dignāga non vuole riconoscere valore autonomo alla Parola del Buddha, bensì sostenere che il Buddha ha detto cose giuste e quindi è "come" uno strumento conoscitivo (pur non essendo letteralmente tale).
La prima ipotesi interpretativa è stata presentata per la prima volta nella storia degli studi sulla scuola epistemologica buddhista da Tillman Vetter nel suo pionieristico Erkenntnisprobleme bei Dharmakirti e ha il suo campione attuale in Ernst Steinkellner (punti 8 e 5 della bibliografia). L'assunto di fondo di Steinkellner è che non abbia senso parlare di pensatori indipendenti da un'autorità nel contesto dell'India classica e medievale. Al di là quindi della singola interpretazione di passi controversi, Steinkellner afferma che la Parola del Buddha delinei l'universo di riferimento per i pensatori buddhisti, che non la mettono in dubbio, bensì partono da questa per ulteriori speculazioni. La fede nel Buddha fa sì che si creda nella validità di quanto egli ha visto per yogipratyakṣa (intuizione intellettuale). Questa fonda perciò l'autorità del suo insegnamento. Anzi, in senso lato l'autorità del Buddha fonda l'intera conoscenza, giacché non esistono conferme dirette della validità di quanto conosciamo tramite percezione sensibile etc., al di fuori della stessa Parola del Buddha. Invece, il fatto che il Buddha si basi su percezione diretta e inferenza nel proprio argomentare mostra ai suoi successori che questi sono strumenti legittimi.
Eli Franco (punti 3 e 5 della bibliografia), al contrario, sostiene che processo logico e processo apologetico possano e debbano essere distinti e che l'attributo "pramāṇabhūta" rientri nel secondo. Dignāga non avrebbe cioè inteso dire che filosoficamente il Buddhismo riconosce come strumento di conoscenza la Parola del Buddha. L'autorità del Buddha deriva invece dal fatto che se ne è saggiato l'insegnamento. Rispetto all'altro corno della controversia, ossia la conferma di percezione diretta etc., Franco ritiene che l'assunto di Steinkellner renda il processo di acquisizione di conoscenza inutilmente complicato. Secondo Franco, infatti, Steinkellner sosterrebbe che il fatto che io abbia davanti ai miei occhi un foglio bianco possa essere giustificato solo per il tramite dell'autorità del Buddha (che fonda la validità delle conoscenze ottenute tramite percezione diretta). È invece molto più intuitivo sostenere che sia la stessa percezione diretta a fondare la validità delle informazioni che fornisce. E il fatto che il Buddha si sia servito di percezione diretta e inferenza non le fonda (come sostiene Steinkellner), bensì al contrario mostra come tale insegnamento sia alla portata degli strumenti conoscitivi umani.
La distinzione fra piano logico e piano apologetico operata da Franco mi sembra però presentare almeno un problema, ossia come collocare le discussioni circa l'onniscienza del Buddha? Relegarle sul piano apologetico sembra inadeguato giacché esse sono condotte con rigore di argomenti e proposte ai propri oppositori come tesi filosoficamente sostenibili. Forse Franco risponderebbe che si tratta di tesi argomentate filosoficamente e che quindi vanno valutate sul piano filosofico (anche se magari concludendo che sono errate).
Secondo le parole di I. durante un intervento in questo corso, il Dharmakīrti di Steinkellner è più mīmāṃsaka, nel senso che riconosce l'autorità del Buddha come un dato a priori, su cui sia inutile discutere, mentre il Dharmakīrti di Franco è espicitamente naiyāyika, nel senso che sostiene che l'insegnamento del Buddha vada messo alla prova.
Punto di partenza centrale è il maṅgala (verso iniziale di buon augurio) del Pramāṇasamuccaya di Dignāga che, come abbiamo visto nel cap. 7.4, funge da testo radice per la scuola epistemologica buddhista. Dignāga vi saluta il Buddha chiamandolo "pramāṇabhūta", ossia "che è come uno strumento conoscitivo", ovvero "che è divenuto uno strumento conoscitivo". L'attribuzione di un tale attributo a un uomo ha fatto molto discutere sia all'interno della scuola epistemologica buddhista, sia fra gli studiosi contemporanei. David Seyfort Ruegg (si vedano i punti 6 e 7 della bibliografia) spiega che il termine pramāṇabhūta è diffusissimo in India. Lo si trova già nel Mahābhāṣya di Patañjali (un'opera grammaticale di fondamentale importanza e grandissima diffusione, databile intorno al II secolo a. Ch.) ed è frequente anche nella letteratura non buddhista, sempre in relazione a un ācārya (maestro) di grande valore. Come già accennato, bhūta al termine del composto può essere tradotto "divenuto" (il Buddha, che è divenuto uno strumento conoscitivo, nel senso che è divenuto tale nel corso della sua vita, in opposizione al presunto Dio venerato da Naiyāyika etc., che è perfetto fin dall'inizio), o "come" (Il Buddha, che è come uno strumento conoscitivo). Ovviamente la prima soluzione sarà preferita da chi è disposto ad ammettere che la Parola del Buddha ha un valore fondante, mentre la seconda è prediletta da chi sostiene che il verso di Dignāga non vuole riconoscere valore autonomo alla Parola del Buddha, bensì sostenere che il Buddha ha detto cose giuste e quindi è "come" uno strumento conoscitivo (pur non essendo letteralmente tale).
La prima ipotesi interpretativa è stata presentata per la prima volta nella storia degli studi sulla scuola epistemologica buddhista da Tillman Vetter nel suo pionieristico Erkenntnisprobleme bei Dharmakirti e ha il suo campione attuale in Ernst Steinkellner (punti 8 e 5 della bibliografia). L'assunto di fondo di Steinkellner è che non abbia senso parlare di pensatori indipendenti da un'autorità nel contesto dell'India classica e medievale. Al di là quindi della singola interpretazione di passi controversi, Steinkellner afferma che la Parola del Buddha delinei l'universo di riferimento per i pensatori buddhisti, che non la mettono in dubbio, bensì partono da questa per ulteriori speculazioni. La fede nel Buddha fa sì che si creda nella validità di quanto egli ha visto per yogipratyakṣa (intuizione intellettuale). Questa fonda perciò l'autorità del suo insegnamento. Anzi, in senso lato l'autorità del Buddha fonda l'intera conoscenza, giacché non esistono conferme dirette della validità di quanto conosciamo tramite percezione sensibile etc., al di fuori della stessa Parola del Buddha. Invece, il fatto che il Buddha si basi su percezione diretta e inferenza nel proprio argomentare mostra ai suoi successori che questi sono strumenti legittimi.
Eli Franco (punti 3 e 5 della bibliografia), al contrario, sostiene che processo logico e processo apologetico possano e debbano essere distinti e che l'attributo "pramāṇabhūta" rientri nel secondo. Dignāga non avrebbe cioè inteso dire che filosoficamente il Buddhismo riconosce come strumento di conoscenza la Parola del Buddha. L'autorità del Buddha deriva invece dal fatto che se ne è saggiato l'insegnamento. Rispetto all'altro corno della controversia, ossia la conferma di percezione diretta etc., Franco ritiene che l'assunto di Steinkellner renda il processo di acquisizione di conoscenza inutilmente complicato. Secondo Franco, infatti, Steinkellner sosterrebbe che il fatto che io abbia davanti ai miei occhi un foglio bianco possa essere giustificato solo per il tramite dell'autorità del Buddha (che fonda la validità delle conoscenze ottenute tramite percezione diretta). È invece molto più intuitivo sostenere che sia la stessa percezione diretta a fondare la validità delle informazioni che fornisce. E il fatto che il Buddha si sia servito di percezione diretta e inferenza non le fonda (come sostiene Steinkellner), bensì al contrario mostra come tale insegnamento sia alla portata degli strumenti conoscitivi umani.
La distinzione fra piano logico e piano apologetico operata da Franco mi sembra però presentare almeno un problema, ossia come collocare le discussioni circa l'onniscienza del Buddha? Relegarle sul piano apologetico sembra inadeguato giacché esse sono condotte con rigore di argomenti e proposte ai propri oppositori come tesi filosoficamente sostenibili. Forse Franco risponderebbe che si tratta di tesi argomentate filosoficamente e che quindi vanno valutate sul piano filosofico (anche se magari concludendo che sono errate).
Secondo le parole di I. durante un intervento in questo corso, il Dharmakīrti di Steinkellner è più mīmāṃsaka, nel senso che riconosce l'autorità del Buddha come un dato a priori, su cui sia inutile discutere, mentre il Dharmakīrti di Franco è espicitamente naiyāyika, nel senso che sostiene che l'insegnamento del Buddha vada messo alla prova.
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