sabato 31 marzo 2007

8. Conclusioni

Concludo raccordando i due aspetti che hanno svolto la funzione di Leitmotiv sin dal primo capitolo, ossia la fondamentalità della Parola come strumento conoscitivo e la comparazione fra filosofia indiana e occidentale. A parte alcuni scettici pirroniani, nessuno, né in ambito indiano né occidentale, nega la necessità di utilizzare la percezione sensibile per poter acquisire conoscenza. Anzi, secondo varie scuole (che potremmo definire grosso modo empiriste) questa è il fondamento unico a partire dal quale sarebbe possibile ricavare ogni altra conoscenza. In realtà (fatte salve, anche in questo caso, alcune posizioni estreme, ma marginali), nessuno ha sostenuto che dalla percezione sensibile potesse essere dedotta DIRETTAMENTE ogni nozione complessa. I processi di astrazione e generalizzazione restano necessari e possono essere ricondotti a quella capacità di mettere in relazione i propri contenuti conoscitivi che possiamo chiamare in senso lato "inferenza". Ma, poiché l'inferenza ha bisogno di premesse, essa non può essere la fonte ultima delle nostre conoscenze. Si candida invece a tale ruolo la percezione sensibile. Nel capitolo 0. ("Perché parlare di Parola come fondamento della filosofia?") ho esposto il mio scetticismo in merito. Anche escludendo però i miei dubbi circa la fondamentalità della percezione sensibile nel suo proprio dominio, resta certo che da questa non possiamo trarre alcuna nozione che travalichi la descrizione del presente. Tramite percezione sensibile non possiamo venire a conoscere nulla del futuro, né di quanto non è al momento, ma dovrebbe essere, dato che gli organi di senso per definizione non possono essere in contatto che con oggetti presenti. A questo punto di presentano due alternative. O affidarsi a una fonte altra oppure escludere dalla conoscenza propriamente detta tutto quanto non sia accessibile tramite percezione sensibile. Quest'ultima operazione è stata tentata in Occidente dalla filosofia analitica laddove ha sostenuto (con Ayer, professore di logica a Oxford, 1910-1989) che le proposizioni etiche o metafisiche non sono né vere né false, ma semplicemente senza significato, come "Ho udito l'anno prossimo un cerchio quadrato" o "xxx2 yy´x zz33". Tale riduzione dell'ambito della conoscenza è però opinabile anche dall'interno, nel senso che non è affatto detto che la stessa scienza non poggi su assunti indimostrati, tipo la relazione di causa-effetto o, più in concreto, il Big Bang. Pertanto, in questo corso ho tentato invece di recuperare alla conoscenza anche dominii essenziali per l'esistenza umana quali la morale, il diritto, la religione. Per tutti questi ambiti bisogna affidarsi a una fonte altra rispetto alla percezione sensibile.
In Occidente, tale ruolo è stato spesso rivestito dalle idee innate e dalla loro fonte ultima, Dio. In India, troviamo l'intuizione intellettuale dei ṛṣi, Dio, e la Parola vedica. Le scuole buddhiste e il Sāṅkhya tentano di mostrare come, sebbene esistano ambiti accessibili solo dalla Parola come strumento epistemico, questi abbiano scarsa rilevanza epistemica (giacché non influenzano l'ambito empirico, che è quello in cui si gioca la vera partita circa la validità della conoscenza), e scarsa importanza anche ai fini della liberazione. Non so se tale tentativo potrebbe a priori realizzarsi, di fatto però nella storia delle suddette scuole l'autorità dei fondatori tende ad acquisire un ruolo importante e a travalicare gli ambiti ristretti suindicati. È anche possibile che questa non sia una conseguenza indesiderata, bensì una premessa che era ben chiara fin dagli esordi di queste scuole, che hanno perciò espresso scetticismo nei confronti, per esempio, della sola Parola vedica e non di ogni sorta di Parola come strumento conoscitivo.
Sembrerebbe uscire da questo schema il Nyāya, in cui troviamo una doppia fonte per il trascendente, ossia la Parola come strumento conoscitivo e l'intuizione intellettuale (yogipratyaksa). Di fatto la situazione, a partire dal NS è senz'altro quella di una doppia fonte, ma esistono secondo la mia opinione vari indizi che mostrano come tale situazione sia un esito secondario della preistoria naiyāyika. Infatti, la forma di Parola come strumento conoscitivo accettata, ossia la Parola come testimonianza di un esperto depone a favore di un uso principalmente mondano della Parola come strumento conoscitivo. In un momento x della storia precedente al NS, possiamo perciò ipotizzare che la Parola come strumento conoscitivo avesse come ambito la comunicazione ordinaria, mentre l'intuizione intellettuale servisse ad accertare quanto trascende l'ordinario. Probabilmente la necessità di accogliere il Veda con una posizione a sé nella propria epistemologia ha fatto sì che anche l'intuizione intellettuale dei ṛṣi venisse inclusa nella Parola come strumento conoscitivo (cfr Vātsyāyana ad NS 1.1.7, dove spiega che la definizione di Parola come strumento conoscitivo si applica a barbari, persone ordinarie e ṛṣi).
Un cammino simmetrico è compiuto dalla Mīmāṃsā, in cui il Veda è a priori accettato come fonte conoscitiva, ma nella Bhāṭṭa Mīmāṃsā, forse per influenza del Nyāya, o in genere per attenzione ai dati di fatto reali, si accetta come strumento conoscitivo anche la Parola di persone ordinarie.
Sul piano storico, abbiamo osservato come intorno alla Parola come strumento conoscitivo evolvano il Sāṅkhya (nell'accettare il Veda) il Nyāya (nel conferire un ruolo prominente a Dio e accettare l'autorevolezza di testi sacri diversi dal Veda), il Vaiśeṣika (nell'accettare Dio come autore del Veda e, fondendosi con il Nyāya, finire per rinunciare anche alla propria posizione circa la Parola come caso di inferenza).
Aggiungo una mia valutazione personale. Lo studio delle correnti filosofiche indiane è indicativo, perché secoli di storia e di dibattiti permettono di vedere alla prova la Parola come strumento conoscitivo. Mi sembra se ne possa trarre l'insostituibilità della Parola come strumento conoscitivo in ambito deontico (ciò che deve essere fatto non esiste in quanto tale e quindi non può essere raggiunto da percezione diretta o inferenza). Sfruttando i confini più ampi dell'epistemologia in India il Nyāya può (si veda l'esordio del commento al NS) proporre che conoscenza di un oggetto e valutazione morale di questo siano in continuum. Ma mi pare che la distinzione netta operata dalla Mīmāṃsā sia empiricamente più valida, data la difficoltà di giustificare, e l'impossibilità di verificare, tale continuum. In ambito trascendente, invece, la Parola come strumento conoscitivo è più inevitabile che insostituibile. Potrebbe infatti essere sostituita se si riuscisse a rendere il trascendente non più tale (per esempio mettendolo alla portata dell'intuizione intellettuale, o minimizzandone l'entità). Per quanto concerne l'esperienza ordinaria, invece, nessuna scuola sostiene che la Parola come strumento conoscitivo sia insostituibile, ma di fatto è impensabile pensare di acquisire conoscenza scartando una tale fonte (oltre ai dubbi, non espressi in India, circa la possibilità stessa di una tale intrapresa, sia per il regressus ad infinitum che comporta, sia per il circolo virtuoso che spesso si innesta fra Parola come strumento conoscitivo e percezione sensibile).
Sul piano politico, infine, che conseguenze hanno questi diversi modi di intendere i testi che hanno autorità in ambito religioso (il che significa spesso anche in ambito morale e anche in ambito giuridico)? L'approccio del Nyāya permette di ampliare potenzialmente all'infinito la Rivelazione, nel senso che se si attribuisce a Dio l'autorità che per Suo tramite giunge ai testi sacri, è sempre possibile immaginare che Dio enunci nuovi testi di pari autorità. Come distinguere però le nuove rivelazioni da testi sedicenti tali? A questa domanda in realtà insolubile (perché tocca l'ambito privatissimo della fede, per cui finiamo per riconoscere un certo testo come autorevole o per disconoscerlo come apocrifo solo in quanto abbiamo fede in questo o nel suo enunciatore) il Nyāya risponde facendo appello all'accettazione da parte della comunità. La Mīmāṃsā è più netta, almeno in linea di principio, nel separare il Veda da tutti gli altri possibili testi sacri. Ma riconduce al Veda, tramite inferenza, ogni altro testo autorevole sul piano giuridico e morale e anche lo stesso comportamento retto dei giusti. Infine, i buddhisti e comunque tutte le scuole che attribuiscono valore fondante all'intuizione intellettuale (yogipratyakṣa) di un singolo sembrano a prima vista meno dogmatiche, ma allo stesso tempo esaltando un uomo senza pari lo allontanano dall'esperienza ordinaria. Il suo messaggio può così essere inteso come un "miracolo", un unicum irripetibile. Se infatti è teoricamente possibile che altri uomini (più complessa la situazione per le donne) raggiungano il risveglio e siano quindi alla pari del Buddha storico, tuttavia nei secoli intercorsi dalla fondazione del Buddhismo a oggi ciò non si è mai realizzato se non in gruppi carismatici (tipo la Soka Gakkai), che hanno di fatto sostituito il proprio capo carismatico al Buddha Śakyamuni.

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