martedì 27 marzo 2007

7.6 La polemica Franco-Steinkellner circa il Buddha come pramana

Osserviamo ora più in dettaglio i termini dell'opposizione fra fede nel Buddha e autonomia degli strumenti conoscitivi umani così come si configura nella scuola epistemologica buddhista.
Punto di partenza centrale è il maṅgala (verso iniziale di buon augurio) del Pramāṇasamuccaya di Dignāga che, come abbiamo visto nel cap. 7.4, funge da testo radice per la scuola epistemologica buddhista. Dignāga vi saluta il Buddha chiamandolo "pramāṇabhūta", ossia "che è come uno strumento conoscitivo", ovvero "che è divenuto uno strumento conoscitivo". L'attribuzione di un tale attributo a un uomo ha fatto molto discutere sia all'interno della scuola epistemologica buddhista, sia fra gli studiosi contemporanei. David Seyfort Ruegg (si vedano i punti 6 e 7 della bibliografia) spiega che il termine pramāṇabhūta è diffusissimo in India. Lo si trova già nel Mahābhāṣya di Patañjali (un'opera grammaticale di fondamentale importanza e grandissima diffusione, databile intorno al II secolo a. Ch.) ed è frequente anche nella letteratura non buddhista, sempre in relazione a un ācārya (maestro) di grande valore. Come già accennato, bhūta al termine del composto può essere tradotto "divenuto" (il Buddha, che è divenuto uno strumento conoscitivo, nel senso che è divenuto tale nel corso della sua vita, in opposizione al presunto Dio venerato da Naiyāyika etc., che è perfetto fin dall'inizio), o "come" (Il Buddha, che è come uno strumento conoscitivo). Ovviamente la prima soluzione sarà preferita da chi è disposto ad ammettere che la Parola del Buddha ha un valore fondante, mentre la seconda è prediletta da chi sostiene che il verso di Dignāga non vuole riconoscere valore autonomo alla Parola del Buddha, bensì sostenere che il Buddha ha detto cose giuste e quindi è "come" uno strumento conoscitivo (pur non essendo letteralmente tale).
La prima ipotesi interpretativa è stata presentata per la prima volta nella storia degli studi sulla scuola epistemologica buddhista da Tillman Vetter nel suo pionieristico Erkenntnisprobleme bei Dharmakirti e ha il suo campione attuale in Ernst Steinkellner (punti 8 e 5 della bibliografia). L'assunto di fondo di Steinkellner è che non abbia senso parlare di pensatori indipendenti da un'autorità nel contesto dell'India classica e medievale. Al di là quindi della singola interpretazione di passi controversi, Steinkellner afferma che la Parola del Buddha delinei l'universo di riferimento per i pensatori buddhisti, che non la mettono in dubbio, bensì partono da questa per ulteriori speculazioni. La fede nel Buddha fa sì che si creda nella validità di quanto egli ha visto per yogipratyakṣa (intuizione intellettuale). Questa fonda perciò l'autorità del suo insegnamento. Anzi, in senso lato l'autorità del Buddha fonda l'intera conoscenza, giacché non esistono conferme dirette della validità di quanto conosciamo tramite percezione sensibile etc., al di fuori della stessa Parola del Buddha. Invece, il fatto che il Buddha si basi su percezione diretta e inferenza nel proprio argomentare mostra ai suoi successori che questi sono strumenti legittimi.
Eli Franco (punti 3 e 5 della bibliografia), al contrario, sostiene che processo logico e processo apologetico possano e debbano essere distinti e che l'attributo "pramāṇabhūta" rientri nel secondo. Dignāga non avrebbe cioè inteso dire che filosoficamente il Buddhismo riconosce come strumento di conoscenza la Parola del Buddha. L'autorità del Buddha deriva invece dal fatto che se ne è saggiato l'insegnamento. Rispetto all'altro corno della controversia, ossia la conferma di percezione diretta etc., Franco ritiene che l'assunto di Steinkellner renda il processo di acquisizione di conoscenza inutilmente complicato. Secondo Franco, infatti, Steinkellner sosterrebbe che il fatto che io abbia davanti ai miei occhi un foglio bianco possa essere giustificato solo per il tramite dell'autorità del Buddha (che fonda la validità delle conoscenze ottenute tramite percezione diretta). È invece molto più intuitivo sostenere che sia la stessa percezione diretta a fondare la validità delle informazioni che fornisce. E il fatto che il Buddha si sia servito di percezione diretta e inferenza non le fonda (come sostiene Steinkellner), bensì al contrario mostra come tale insegnamento sia alla portata degli strumenti conoscitivi umani.
La distinzione fra piano logico e piano apologetico operata da Franco mi sembra però presentare almeno un problema, ossia come collocare le discussioni circa l'onniscienza del Buddha? Relegarle sul piano apologetico sembra inadeguato giacché esse sono condotte con rigore di argomenti e proposte ai propri oppositori come tesi filosoficamente sostenibili. Forse Franco risponderebbe che si tratta di tesi argomentate filosoficamente e che quindi vanno valutate sul piano filosofico (anche se magari concludendo che sono errate).
Secondo le parole di I. durante un intervento in questo corso, il Dharmakīrti di Steinkellner è più mīmāṃsaka, nel senso che riconosce l'autorità del Buddha come un dato a priori, su cui sia inutile discutere, mentre il Dharmakīrti di Franco è espicitamente naiyāyika, nel senso che sostiene che l'insegnamento del Buddha vada messo alla prova.

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