Tento ora alcuni spunti applicativi, al fine di indagare circa la possibilità di ripensare la filosofia occidentale alla luce dei paradigmi elaborati in India intorno alla Parola come strumento conoscitivo. Fine dell'esperimento è vedere se tale applicazione può servire a offrire un nuovo punto di vista da cui ripensare la filosofia occidentale.
Come punto di partenza di un'attitudine (mi pare) diffusa in ambito occidentale, cito alcune parole di Denis Diderot:
"L'intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso le sue incertezze, la memoria i suoi limiti, l'immaginazione le sue oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono infiniti, le cause nascoste, le forme –forse– transitorie. Contro tanti ostacoli che troviamo in noi stessi e che la natura ci oppone, disponiamo solo di un'esperienza lenta e di una riflessione limitata. Queste sono le leve mediante le quali la filosofia si è proposta di sollevare il mondo".
La polemica contro i pregiudizi mi sembra riconducibile al rifiuto di tributare un ruolo alla Parola come strumento conoscitivo, mentre da notare è che gli unici strumenti conoscitivi riconosciuti sono percezione diretta ("esperienza") e procedimenti inferenziali ("riflessione").
Ma lo stesso Illuminismo non è affatto univoco nel promuovere questi due strumenti conoscitivi. Un caso interessantissimo è quello di David Hume (Edimburgo 1711-1776). Relativamente al nostro ambito di indagine, Hume nota che la "ragione" (ossia i procedimenti inferenziali applicati ai dati della percezione diretta) non fonda la morale. La ragione, continua Hume, non ci dice per esempio che è sbagliato preferire la distruzione del mondo al graffiarci un dito (né ci dice che sia sbagliato il contrario). Il giudizio morale, potremmo dire, contiene uno scarto che non deriva dalla rielaborazione dei dati dell'esperienza (si vedano in proposito le mie conclusioni, cap. 8, e i capitoli sulla Mīmāṃsā). Più dirompente può apparire la constatazione di Hume che la ragione non ha valore fondante nemmeno nell'ambito epistemico dell'esperienza ordinaria. Infatti, ogni nostra conclusione si basa su categorie che prescindono dall'esperienza (e che non possono provenire da procedimenti inferenziali, dato che questi non sono che rielaborazioni di dati sensibli). Un esempio di tali categorie è la connessione fra causa ed effetto. Nulla nell'esperienza ci autorizza a concludere che un evento sia causa di un altro. Tutto ciò che l'esperienza ci autorizza a concludere è l'usuale successione temporale fra due eventi (tipo il muoversi di una pallina dopo che sia stata colpita da una stecca da biliardo, l'esempio è di Hume stesso). Fondante diventa perciò, per Hume, la consuetudine. Questa sembra coprire il ruolo di fondamento normativo che in India spesso ricopre la Parola come strumento conoscitivo.
Ciò mi dà anche modo di spendere qualche parola circa un apparente paradosso presente nella filosofia moderna in Occidente. Gran parte dei suoi autori, come abbiamo più volte ricordato, è orgogliosa della propria indipendenza intellettuale e condanna la Parola come strumento conoscitivo condannando pregiudizi e sudditanza al principio di autorità. Tuttavia molti di questi stessi autori erano devoti cristiani e spesso sacerdoti essi stessi. Mi chiedo allora se, esplicitamente (come nel caso di Cartesio) o implicitamente tutti considerassero la conoscenza umana autonoma poiché ciò è permesso da Dio. Dio si troverebbe perciò ad avere valore fondante anche dell'autonomia della conoscenza. In modo, mi pare, simile, Steinkellner (testi 8 e 5 della bibliografia) nota come il Buddha garantisca che gli strumenti conoscitivi umani non siano fallaci.
(Ringrazio un ignaro Paolo Rossi che in un suo articolo mi ha offerto una citazione di Diderot e qualche idea che ho collocato in ordine sparso. Ovviamente resto io l'unica responsabile di quanto scrivo sui paralleli fra filosofia indiana e occidentale e anche delle mie opinioni circa la filosofia occidentale).
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