Dedichiamo questo capitolo all'approfondimento della categoria di āptavacana. La maggior parte di noi (o no?) è probabilmente a questo punto disposta ad ammettere che la Parola sia una fonte conoscitiva essenziale. In ambito occidentale, questa ammissione non sarebbe spesso vista di buon occhio. Dal termine del Medioevo, la cultura occidentale ha caricato di valore positivo il processo di emancipazione dal principio di autorità. Da Cartesio attraverso Spinoza, fino a Kant e all'Illuminismo, forte è la spinta verso una conoscenza autonoma, che non debba basarsi su quanto detto da altri. La polemica illuminista contro i pregiudizi, per la quale sostanzialmente è pre-giudizio tutto ciò su cui il soggetto non pronuncia un giudizio ex novo, si configura appunto come una polemica contro l'uso della Parola come fonte conoscitiva.
Da un punto di vista indiano, invece, poiché quasi tutte le scuole ammettono che sia possibile acquisire conoscenza tramite la Parola, l'elemento discriminante sta nel riconoscere la Parola come uno strumento a sé stante atto a ottenere conoscenza. Questa diversa prospettiva di riferimento è rilevante anche nel caso che consideriamo in questo capitolo, ossia la Parola come strumento conoscitivo in quanto pronunciata da un esperto. A prima vista, questa posizione sembrerebbe abbastanza accettabile anche dall'opinione comune occidentale. Proviamo perciò a concentrarci sulle differenze, di modo da comprendere meglio i due contesti. Nella filosofia occidentale, sostenere che la Parola pronunciata da un esperto sia uno strumento capace di conferire conoscenza valida, costituisce una posizione piuttosto audace. In India, invece, le scuole che sostengono āptavacana si trovano a opporsi a chi sostiene che quella che ricaviamo dalla Parola di un esperto sia una conoscenza solo indiretta, ottenuta per inferenza. Su un versante opposto, molte delle scuole che sostengono āptavacana postulano che solo la Parola di un esperto sia uno strumento conoscitivo e che non si possa invece dare credito a una Parola indipendente dal suo autore.
In riferimento ad āptavacana ci troveremo perciò ad affrontare tre ordini di problemi:
1) la dimostrazione che la Parola è uno strumento conoscitivo autonomo (contro chi la riconduce all'inferenza),
2) l'elencazione di quali siano i criteri atti a definire e identificare un āpta (abbiamo già accennato a questo problema, v. cap.1.3),
3) (in alcuni casi) la confutazione dell'altra alternativa, ossia la Parola come strumento conoscitivo indipendente dal suo autore.
Comincio poi ad addentrarmi fra le scuole filosofiche indiane. Dei darśana di cui abbiamo già parlato (cap.2), accettano la Parola in quanto āptavacana il Nyāya, il Sāṅkhya, lo Yoga e la Bhāṭṭa Mīmāṃsā. Rispetto al discorso circa le affinità fra coppie di scuole, notiamo perciò fin d'ora che (e si tratta di un caso assai raro) in questo caso il Vaiśeṣika non accoglie in toto l'epistemologia del Nyāya. Probabilmente la sua origine più legata all'indagine della natura lo rende incline a prediligere la percezione sensibile.
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