I commenti alle SK tentano di allargare SK 4 per includervi il Veda e di riconciliare questa inclusione con il rifiuto dei sacrifici vedici espresso in SK 2. Storicamente, tale tentativo può essere visto come un modo per riconciliare il Sāṅkhya con il riconoscimento panindiano dei Veda. Poiché però l'attuale non è tanto un'indagine storica, quanto un excursus tematico, gli argomenti che i commentatori impiegano per tale riconciliazione sono comunque assai indicativi.
Quello che è forse il principale commento alle SK, la Yuktidīpikā (YD, 675 d.C.?), include il Veda in SK 4 con un espediente grammaticale (ekaśeṣa), tramite cui intende āptavacana come equivalente a "affermazione di un esperto E Parola indipendente dal suo autore". In questo modo, il Veda acquisisce un rango a sé, pari a quello che gli assicura la Mīmāṃsā, e non rischia di essere confuso con altre affermazioni di parlanti esperti (il Nyāya era riuscito invece a distinguere il Veda con il ricorso a Dio). Il Bhāṣya ("Commento") di Gauḍapāda intende invece "āptaśrutir" di SK 5 come āpta[vacana] E śruti (il Veda), per cui SK 5 andrebbe a significare "con il termine āptavacana intendiamo l'affermazione di un parlante esperto e affidabile e la tradizione vedica".
Per quanto riguarda il contenuto del Veda, le SK affermano (v.2) che i rituali vedici non possono essere un adeguato strumento soteriologico giacché prevedono l'uccisione di esseri viventi. Di nuovo da un punto di vista storico, potremmo dire che da quando i Veda sono stati composti al momento in cui la filosofia indiana si è sviluppata, il sentimento comune nei confronti dei sacrifici cruenti dev'essere mutato. Infatti, lo scandalo dell'uccisione di esseri viventi è uno dei punti su cui si concentrano anche le critiche antivediche dei Buddhisti. Gli stessi apologeti del Veda, i mīmāṃsaka, non difendono semplicemente la legittimità dei sacrifici cruenti. La soluzione offerta dalla YD (p. 38 dell'edizione di Wezler e Motegi) deriva probabilmente da quella mīmāṃsaka, di cui sembra essere un sunto. Non ostante il Veda parli dell'esecuzione di sacrifici cruenti, ciò non significa che questi debbano essere eseguiti. Infatti, "il dharma" prevede che non si commetta violenza su altri esseri viventi, e tale dharma "non coincide con il desiderio". Spiego meglio alla luce della dottrina mīmāṃsaka questo passaggio piuttosto oscuro nella YD. Il Veda prescrive sacrifici cruenti nel caso in cui si desideri, per esempio, la prosperità. D'altra parte, il Veda ingiunge anche di non commettere violenza. Nel caso qualcuno esegua quindi un sacrificio cruento, lo farà perché guidato dal desiderio di conquistare la prosperità. Sarà il suo desiderio a essere impuro, non il Veda. Similmente, la YD adotta vari altri metodi prettamente mīmāṃsaka per spiegare come il Veda non si contraddica etc.
Poiché però la via soteriologica esposta dal Sāṅkhya resta molto diversa da quella dell'ortoprassi vedica, lo spazio garantito al Veda nel sistema sembra più che altro una nicchia scavata ad hoc dai commenti. Diverso è il caso dell'affermazione di un esperto. Questa è invece indispensabile, quanto meno negli ambiti che non possono essere conosciuti tramite percezione e inferenza (SK 6). Gauḍapāda, nel suo Bhāṣya a SK 6 spiega che tali ambiti sono "per esempio, Indra il re degli Dei, [regioni mitiche come] i Kuru Settentrionali, le ninfe celesti, etc.". Si noterà che sono quasi gli stessi esempi standard menzionati già da Vātsyāyana nel suo commento al NS.
Quindi, la Parola come strumento conoscitivo è limitata nel Sāṅkhya ad ambiti non raggiungibili da percezione a inferenza, ma che non hanno alcuna rilevanza, né per la liberazione, né nell'ambito della conoscenza, dato che non hanno contenuto empirico. Poiché però nelle SK la Parola come strumento conoscitivo è fatta coincidere con l'affermazione di un esperto, ci si potrebbe chiedere chi sia allora il parlante esperto in grado di parlare di argomenti inattingibili tramite percezione sensibile e inferenza. Nel Sāṅkhya successivo alle SK potremmo rispondere che si parla del Veda, ma nelle SK il Veda non sembra coprire tale ruolo. In alternativa, si propone la figura del fondatore mitico del Sāṅkhya, Kapila, cui spesso nella storia del Sāṅkhya viene attribuito il titolo di ṛṣi. D'altronde, se questa interpretazione fosse corretta, difficilmente l'autorità di Kapila potrebbe limitarsi a questioni secondarie come Indra re degli Dei o i Kuru Settentrionali. Di fatto, Kapila viene onorato come "realizzato" e "sapiente originario" nei commenti successivi alle SK (si noti che si tratta di attributi forse paragonabili alla doppia qualificazione dell'āpta). In alcune opere naiyāyika (vedi Jacobi) si dice dei sāṅkhya che venerano Dio (ossia Kapila). I testi naiyāyika equiparano Kapila a Dio probabilmente perché egli riveste nel Sāṅkhya la funzione che nel Nyāya rivestiva la figura di Dio, nel senso che Kapila assume il ruolo di garante del sistema sāṅkhya. Il Sāṅkhya è valido, nei testi successivi alle SK, perché è stato esposto da Kapila. In tal modo, però, viene messo in ombra quello che sembrava il connotato distintivo del Sāṅkhya antico, ossia l'uso dell'inferenza applicata al trascendente. Garante dell'aspetto alaukika (trascendente) pare infatti Kapila stesso. Perché? Esistono due possibili interpretazioni. Prima interpretazione: il Sāṅkhya esordisce come sistema dimostrabile in modo indipendente dalla Parola vedica o da quella di chiunque altro, non può però negare che esista un ambito inaccessibile al ragionamento umano e, attraverso tale via, finisce con l'accogliere nel sistema l'autorità del Veda e di Kapila e, infine, a trarre da questi la legittimazione dell'intero sistema. In alternativa, si potrebbe immaginare che tale esito non fosse affatto imprevisto, e che ogni tentativo di limitare l'applicazione della Parola come strumento conoscitivo mirasse solo a limitare l'autorità esclusiva del Veda. Ci troveremo a valutare un simile dilemma anche nel caso di un'altra corrent nata con un forte connotato contestatore e antivedico, il Buddhismo.
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