Secondo i Prābhākaramīmāṃsaka il naturale rapporto di significazione (in proposito si veda il cap. 7.5) per cui ogni frase indica il proprio significato viene interrotto nel caso delle comunicazioni umane. In tali casi, infatti, è sempre possibile che gli esseri umani introducano una distorsione in tale naturale rapporto. Dunque, nell'udire una frase in cui l'autore non abbia interferito, ossia una frase vedica, l'ascoltatore comprende direttamente il suo significato. Al contrario, nell'udire una frase pronunciata da un autore umano il giudizio rimane sospeso finché non si sia accertata l'affidabilità dell'autore. Questa viene accertata, come per Nyāya e scuola epistemologica buddhista, sulla base di precedenti casi in cui l'autore si sia rivelato attendibile. Dopo di che, dalla frase si inferisce ciò che l'ha prodotta, una cognizione nella mente del suo autore. Si inferisce poi che tale cognizione abbia un contenuto (che equivale al significato della frase), come ogni altra cognizione. A questo punto, la naturale capacità di significazione della frase, che era rimasta bloccata dal dubbio circa l'affidabilità del suo autore, si sblocca. La frase comunica il proprio significato. Ma questo significato è lo stesso che era già stato inferito come contenuto della cognizione del suo autore. Dunque, il contenuto comunicato dalla frase non è che una ripetizione di qualcosa di già noto. Ma secondo la Mīmāṃsā uno strumento conoscitivo, per essere tale, deve comunicare qualcosa di nuovo. Quindi, le affermazioni umane non sono uno strumento conoscitivo autonomo. L'elemento nuovo può essere sia un oggetto non esperito prima (per esempio un fuoco nel caso della percezione diretta), sia una relazione non accertata (per esempio lil fuoco sull'altro lato della montagna qualificato dal fumo che vedo, nel caso dell'inferenza). Ma nel caso della comunicazione umana né l'oggetto di cui si parla né le circostanze che lo accompagnano sono nuove. In altre parole, l'essere rossa della mucca (in "la mucca è rossa") era già stato appreso dal parlante tramite percezione diretta e il fatto che tale qualità fosse oggetto di una comunicazione era già stato inferito nel passaggio immediatamente precedente alla significazione da parte della frase. Non resta quindi nulla di nuovo nel contenuto che la frase esprime.
Riassumendo le fasi del procedimento inferenziale:
1) Viene udita una frase pronunciata da un uomo.
2) L'ascoltatore si chiede se l'autore abbia contezza di ciò che dice.
3) La naturale capacità della frase di significare il proprio contenuto è interrotta dal dubbio.
4) "L'autore è affidabile, perché comincia a parlare solo dopo aver conosciuto il referente di cui vuole trattare e non pronuncia mai frasi che non abbiano un referente".
5) "La frase pronunciata dall'autore è un prodotto di una sua cognizione mentale, perché è una frase, come una mia frase".
6) "La cognizione mentale di questo autore deve avere un contenuto perché è una cognizione, come una mia cognizione".
7) La naturale capacità della frase di significare il proprio contenuto non è più impedita, essa comunica il proprio significato.
8) Il significato comunicato della frase è la ripetizione del contenuto della cognizione inferito al punto 6.
Nel proporre questo schema ho seguito un testo relativamente tardo, il III capitolo del Tantrarahasya di Rāmānujācārya. Il procedimento sembra molto simile a come è descritto nella scuola epistemologica buddhista (si veda il cap. 7.4), se non che questa nega l'idea di una naturale capacità significante del linguaggio. Non mi è ancora chiaro, però, in che misura la Prābhākara Mīmāṃsā sia stata influenzata dalle descrizioni buddhiste o viceversa.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento