La vicinanza fra la scuola Nyāya e quella Vaiśeṣika fa sì che la polemica circa uno dei rari punti di divergenza, ossia lo status della Parola come strumento conoscitivo, sia particolarmente serrata. In questo capitolo esamineremo il punto di vista naiyāyika sulla questione, mentre nei capitoli relativi al Vaiśeṣika vedremo il suo punto di vista. Quindi, le obiezioni vaiśeṣika di cui discuteremo in quanto segue sono le obiezioni degli obiettori vaiśeṣika così come sono rappresentati nei testi naiyāyika. Anzi, sarebbe forse interessante controllare quanto queste corrispondano effettivamente alle posizioni effettivamente presenti nei testi vaiśeṣika.
Come già accennato, il Vaiśeṣika non nega che la Parola possa essere una fonte di conoscenza, ma sostiene che questa sia solo un caso di inferenza. Poiché "inferenza" è un termine tecnico nella filosofia indiana, spenderò qualche parola per descriverla e mostrare in che senso la Parola possa esser ridotta a inferenza. Ripensiamo all'esempio "Sulla montagna c'è fuoco, perché c'è fumo, come nella cucina". Gli elementi dell'inferenza sono tre: ciò che deve essere dimostrato (il probandum, sādhya, il fuoco nel nostro esempio), il luogo in cui dev'essere dimostrato (il locus, pakṣa, la montagna) e la causa che permette di dimostrarlo (probans, hetu, il fumo). Vi si aggiunge come quarto elemento l'esempio, in cui deve vedersi confermata la relazione fra probans e probandum (il fuoco e il fumo). Dunque, l'elemento cogente dell'inferenza sta nella validità della relazione fra questi due elementi. Se la relazione non tollera eccezioni, ossia se non si danno mai casi di fumo senza fuoco, l'inferenza sarà corretta. Ovviamente, ciò che dev'essere dimostrato (il fuoco) non deve poter essere percepibile tramite percezione sensibile al momento in cui si formula l'inferenza (ossia, il fuoco non dev'essere visibile sulla montagna), altrimenti non ci sarebbe ragione di inferirlo.
Ora, anche nel caso della Parola, sostengono gli obiettori vaiśeṣika (così come citati nei testi naiyāyika, non si dimentichi), si ottiene conoscenza di un oggetto invisibile sulla base di una relazione. Più in particolare, sulla relazione fra i vocaboli impiegati e il loro significato. Si può quindi sostenere che io conosco l'oggetto fuoco perché lo inferisco a partire dal vocabolo "fuoco". Rispondono i naiyāyika che una relazione esiste, ma non è una relazione di invariabile concomitanza, come necessario per un'inferenza. Se infatti è vero che dovunque ci sia fumo c'è fuoco, non è invece vero che dovunque ci sia il vocabolo "fuoco" ci sia anche l'oggetto fuoco. Altrimenti, scherzano i naiyāyika, dovrei gustare un dolce quando pronuncio il vocabolo "torta" o ferirmi la bocca mentre pronuncio il vocabolo "coltello". Inoltre, sostengono i naiyāyika (e questo secondo elemento è forse anche più rilevante), nel caso della Parola come strumento conoscitivo, la relazione fra vocaboli e loro significati non basta a spiegare la conoscenza che ne deriva. Non otteniamo conoscenza (con questo termine intendo sempre "conoscenza valida", in sanscrito pramāṇa) da qualsiasi frase, bensì, secondo il Nyāya, solo da quelle pronunciate da un parlante esperto. Quindi, c'è bisogno di un terzo elemento oltre alla relazione vocabolo/significato, ossia l'affidabilità del parlante ed è perciò impossibile costruire l'inferenza. Infine, come abbiamo visto nel capitolo precedente, il Nyāya sostiene che il linguaggio sia convenzionale. Ammette perciò una pluralità di lingue possibili. E poiché in diverse lingue lo stesso vocabolo può essere collegato a significati diversi, non si può parlare di relazione di invariabile concomitanza come nel caso di fumo e fuoco (dovunque ci sia fumo, c'è fuoco, ma non in tutte le lingue "anna" significa "frumento", anzi lo stesso vocabolo può avere addirittura significati diversi in lingue diverse). Un ulteriore elemento contro la riduzione della Parola come strumento conoscitivo a un caso di inferenza potrebbe venire dalla constatazione che la trasmissione di un contenuto conoscitivo non deriva mai da una singola parola, bensì da una frase. E in un contesto di frase, non si può stabilire una relazione biunivoca fra parola e significato, giacché una parola assume sfumature diverse a seconda del contesto. Tuttavia, non tratterò qui estesamente questo argomento perché esso sarà valorizzato dalla Mīmāṃsā, ma non dal Nyāya, il quale propone una teoria atomistica del linguaggio (a ogni parola corrisponde un significato e la frase è solo la somma dei significati delle parole che la compongono).
Aggiungo qui una mia valutazione circa l'argomento sulla pluralità delle lingue. Il Nyāya appare decisamente moderno nell'accettare la pluralità delle lingue pur in un'India in cui il sanscrito si poneva come unico modello linguistico. La Mīmāṃsā, per esempio, sostiene che i vari pracriti (ossia i vernacoli più o meno direttamente legati al sanscrito) possano comunicare conoscenza solo perché dalle loro forme "storpiate" uno inferisce la parola sanscrita corrispondente. Va quindi reso pieno merito al Nyāya per la sua apertura e per aver saputo relativizzare il mondo culturale di cui pure fa parte. Tuttavia, è d'altra parte vero che l'argomento sulla non invariabile concomitanza fra vocabolo e significato nelle diverse lingue sembra relativizzare troppo l'importanza di una lingua. In effetti, ogni lingua offre in un certo senso un universo di riferimento, all'interno del quale ogni vocabolo è invariabilmente legato al suo significato. Il fatto che in altre lingue la convenzione sia diversa è tanto poco rilevante, a mio parere, quanto lo sarebbe sapere che su qualche remoto pianeta una particolare atmosfera fa sì che ci sia fumo senza fuoco.
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