mercoledì 14 marzo 2007

5.6 Il Vedanta e la supremazia della Parola vedica

È difficile parlare in linee generali dell'amplia galassia del Vedānta, che spazia dal Vedānta monista di Śaṅkara a quello duale/non duale fino alla scuola radicalmente dualista di Madhva. Sarò perciò costretta a brutali semplificazioni, e sarò lieta di accogliere precisazioni circostanziate.
Anche il Vedānta, come la Pūrva Mīmāṃsā, ha al proprio centro una porzione del Veda, le Upaniṣad. Poiché in queste i passaggi all'indicativo prevalgono sulle prescrizioni, la teoria del linguaggio vedāntin si differenzia da quella prābhākaramīmāṃsaka nel considerare che una frase miri a comunicare un significato già stabilito (e non da realizzarsi). Ciò fa sì che l'interpretazione del Veda ne risulti spesso molto più dogmatica (absit iniuria verbis), come confermato anche dal rango privilegiato che esso assume nell'epistemologia vedāntin. Se infatti nella Mīmāṃsā la Parola Vedica era posta allo stesso livello della percezione sensibile, nel Vedānta (specie quello monista, o Advaita Vedānta) la svalutazione dell'esperienza ordinaria fa sì che la Parola Vedica resti l'unico strumento in grado di fornire conoscenza valida. Percezione diretta, inferenza etc. si muovono sul piano dell'illusoria esperienza ordinaria e sono quindi in ultima analisi basati su un'ignoranza di fondo (avidyā). Il Veda è invece la via che permette di superare l'ignoranza e l'illusione e raggiungere il brahman, l'assoluto. È però controverso, fin dal testo radice del Vedānta, il Brahmasūtra (BS), il rapporto fra Veda e brahman. Il BS esordisce infatti in modo comparabile al MS e al VS, enunciando il desiderio di conoscere il brahman. Afferma poi, al terzo aforisma, "tasya śāstrayonitvāt", che può essere interpretato sia come "poiché essa (la conoscenza del brahman) è originata dal Veda", sia come "poiché esso (il brahman) genera il Veda". Nel primo caso, il Veda si configura come l'unica via possibile per accedere al brahman. Nel secondo, il brahman è origine di tutto e quindi anche del Veda. Il Veda potrebbe allora essere al più una via privilegiata, ma non l'unica. I confini fra queste due ipotesi interpretative, entrambe presenti nell'opera dei pensatori dell'Advaita Vedānta, tendono a toccarsi poiché, di fatto, il Veda è l'unica via a disposizione di tutti. Alcuni autori alludono anzi al fatto che la conoscenza del brahman ottenuta indipendentemente dal Veda non possa che essere incompleta.
D'altronde, alcune scuole vedāntin si differenziano dalla Mīmāṃsā nell'ammettere la possibilità dell'esperienza diretta della realtà assoluta. Tale esperienza diretta è in effetti una sorta di yogipratyakṣa o intuizione intellettuale, in cui però sia superata l'illusoria distinzione fra facoltà cognitive, come pure fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto e che quindi sconfina al di fuori dell'esperienza epistemologica per divenire esperienza mistica.
Un ulteriore problema è dato dalla natura del Veda come via per il brahman. Sia che esso sia l'unica via possibile, sia che si configuri come una via possibile (ma di fatto l'unica accessibile a tutti), il Veda ha una funzione solo strumentale? Nel momento in cui si aprano gli occhi alla realtà assoluta, si dimentica il Veda, come sostiene non direttamente Śaṅkara, bensì il suo allievo Sureśvara, o il Veda è già identico al brahman? Il brahman può essere detto avere forma sonora?
Da tutt'altro punto di vista, sostenere che il Veda comunichi un significato già stabilito apre teoricamente la strada a un uso più intransigente delle Scritture come pietra di paragone rispetto a cui misurare l'ortodossia degli oppositori. Che ciò sia avvenuto solo in misura assai limitata deriva dalla particolare struttura non rigida e non gerarchica delle scuole religiose in India.

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