Comincio con l'esaminare la categoria di āptavacana nel Nyāya perché questa è stata la scuola filosofica che ne ha più approfonditamente elaborato i paradigmi, fin dai suoi esordi. Inoltre, le altre scuole che riconoscono la Parola come strumento conoscitivo in quanto pronunciata da un esperto (questa lunga, ma necessaria perifrasi è sintomatica di come in Occidente non siano state elaborate categorie per poter trattare questo tema) tendono a prendere in prestito gli argomenti del Nyāya (è un altro esempio del plagio generalizzato di cui dicevamo).
Come già accennato nel cap.2, ogni scuola filosofia indiana ha a fondamento un testo radice, generalmente in brevi aforismi, detti sūtra. Questi sono spesso tanto concisi da permettere varie interpretazioni. Poiché il discorso epistemologico fa generalmente parte delle premesse di ogni studio, e tanto più nel caso del Nyāya, che si occupa principalmente di logica ed epistemologia, il Nyāyasūtra (NS) parla di āptavacana fin dai suoi primi sūtra:
āptopadeśaḥ śabdaḥ. sa dvividho, dṛṣṭādṛṣṭārthatvāt (NS 1.1.7-8),
ossia (sono costretta ad aggiungere alcune parole, dato lo stile troppo scarno e carico di sottintesi dei sūtra),
"La Parola come strumento conoscitivo consiste nell'affermazione di un esperto. Essa (Parola) è di due tipi: riguardante un oggetto esperibile o un oggetto non esperibile".
venerdì 2 marzo 2007
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4 commenti:
C'è una ragione particolare per cui traduci d.r.s.ta con "percepibile" e non "percepito"? Se il senso fosse "percepibile", mi aspetterei d.r.sya. La differenza è sottile, ma ha un importo epistemologico profondo: un oggetto d.r.sya non può essere percepito, mentre un oggetto d.r.s.ta non è stato percepito, ma potrebbe esserlo in altri momenti o circostanze o da altre persone. Ma bisogna indagare meglio nelle fonti su questa questione. Mi sai dire di più?
Sì, la scelta di tradurre con "percepibile" non è casuale. È vero, in sanscrito si potrebbe dire "dṛṣya", ma gli esempi di Vātsyāyana (Paradiso, Kuru Occidentali...) mi fanno pensare che qui si alluda proprio a un oggetto che non può essere esperibile. O almeno non esperibile nel momento cui si fa riferimento. Uddyotakara dice infatti che la Parola come strumento conoscitivo riguarda un oggetto raggiungibile da percezione diretta (dṛṣṭa) o inferenza (adṛṣṭa) e sappiamo che l'inferenza ha come presupposto fondamentale che il probandum (ciò che si vuole dimostrare) non sia direttamente percepibile al momento in cui si formula l'inferenza (il fuoco non dev'essere visibile sulla montagna, altrimenti non avrebbe senso iniziare il procedimento inferenziale).
Nel capitolo successivo (3.2) sostengo che si possa compiere un passo successivo, ossia equiparare l'"adṛṣṭa" nel senso di Uddyotakara a quello inteso dagli esempi di Vātsyāyana. Ma mi rendo conto di non essere entrata esplicitamente in argomento.
"Ogni scuola filosofica indiana ha a fondamento un testo radice,generalmente in brevi aforismi,detti sūtra. Questi sono spesso tanto concisi da permettere varie interpretazioni". Questo argomento mi interessa particolarmente, ma non sono riuscita a comprendere a pieno il significato. Sarebbe a dire che da una frase di base si svilupperà un discorso che ha come nucleo ciascuna parola? Mi scusi per il mio dubbio, ma purtroppo non ho potuto assistere alla sua lezione di mercoledì.
non c'è motivo di scusarsi, anzi colgo l'occasione di un commento per puntualizzare una questione importante che a lezione ho lasciato in ombra per non uscire troppo dal tracciato della Parola come strumento conoscitivo.
Gli aforismi che compongono i testi radice di ogni scuola erano destinati a essere accompagnati da un commento e senza di questo sono difficilmente comprensibili. Poiché l' "etichetta" nella filosofia indiana prevede che la personalità del singolo pensatore non debba venire in primo piano, ogni autore invece di scrivere opere originali solitamente inquadra il proprio pensiero, anche nei suoi aspetti più innovativi, all'interno di un commento ai testi radice, che vengono quindi ogni volta reinterpretati. Cito un esempio interessante dal Vaisesika. L'aforisma 1.1.4 dice "dal fatto di enunciare/questo, l'autorità dei Veda" ("questo" è in composto e potrebbe essere sia il complemento oggetto sia il soggetto dell'enunciazione). Dal contesto del testo radice del Vaiśeṣika sembrerebbe significare "per il fatto che enunciano questo (=il dharma), i Veda sono autorevoli". Ma commentatori più tardi intendono invece: "per il fatto di essere stati enunciati da questo (=Dio), i Veda sono autorevoli".
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