martedì 6 marzo 2007

3.4 Il Nyaya, Dio e il Veda come Parola di un esperto

Va notato che Vātsyāyana non enuncia Dio fra i possibli āpta. I limiti di ogni argumentum e silentio sono noti, ma mi sembra di poterne dedurre che all'epoca di Vātsyāyana (come del suo successore Uddyotakara) nel Nyāya (come pure nella correlata scuola Vaiśeṣika) non si era ancora affermato il teismo. Più tardi (forse nel IX secolo, all'epoca di Jayanta Bhaṭṭa e Vācaspati Miśra), Dio venne invece introdotto nel Vaiśeṣika come garanzia del sistema retributivo karmico e occupò anche nel Nyāya (che non era mai stato ateo) un ruolo filosoficamente più rilevante in ambito linguistico. Di fatti, il Nyāya si era inizialmente contrapposto alla Mīmāṃsā nel sostenere una tesi che potrei definire fondazionalista. Alla Mīmāṃsā, che sostiene che il mondo (inteso come l'insieme delle esperienze umane), il linguaggio e il Veda sono semplicemente dati, e rifiuta di andarne a cercare un'ipotetica origine, il Nyāya aveva inizialmente contrapposto tesi nettamente diverse. Per questo primo Nyāya, il linguaggio sarebbe solo convenzionale e il Veda sarebbe stato composto (dai ṛṣi). La potenza oppositiva della tesi della convenzionalità del linguaggio può forse apparire con maggiore chiarezza se si pensa che in tal modo il Nyāya si trovava a condividere la stessa impostazione dei Buddhisti. Con Jayanta e Vācaspati, invece, l'autore della convenzione diventa Dio stesso, il che sposta la convenzione al di fuori del tempo e della disponibilità umane, con un risultato in ultima analisi simile a quello della tesi mīmāṃsaka. Quanto al Veda, renderne Dio l'autore fa sì che il Veda si distanzi ancor più dalle comunicazioni degne di fede di autori ordinari.
Oltre a motivi storici, l'introduzione di Dio nel sistema (o l'esaltazione del Suo ruolo) può essere stata dettata dal desiderio di rispondere a obiezioni circa le proprie argomentazioni. Nel NS, l'unico argomento positivo in favore del valore di strumento conoscitivo del Veda è questo:
"E quello (il Veda) è uno strumento conoscitivo perché è una fonte di conoscenza il parlante esperto che lo ha pronunciato, come nel caso di conoscenze valide tipo mantra e Ayurveda" (NS 2.1.68).
L'argomento sembra avere forma sillogistica:
Il Veda è uno strumento conoscitivo (tesi) perché enunciato da un autore esperto e affidabile (probans), come nel caso di mantra e Ayurveda (esempio).
Questa formulazione, però, avrebbe ben poco valere probatorio (giacché il fatto che l'autore dell'Ayurveda sia esperto non ha nessun'influenza sul fatto che anche l'autore del Veda lo sia) se non fosse che l'autore dell'Ayurveda coincide con quello del Veda. Nel commento di Vātsyāyana abbiamo perciò una sorta di entimema:
La porzione del Veda che tratta di oggetti non esperibili è uno strumento conoscitivo perché enunciata da autori esperti e affidabili, come la porzione del Veda che tratta di oggetti non esperibili. Gli autori della porzione del Veda che tratta di oggetti esperibili sono autori esperti e affidabili, perché autori di conoscenze valide, come nel caso di mantra e Ayurveda.
La questione è in realtà lievemente più complessa (v. Freschi, Graheli 2005, pp. 303-304), ma per i nostri scopi è sufficiente aggiungere quanto segue:
1) Vātsyāyana parla di autori al plurale. Si riferisce perciò a vari ṛṣi (nel NS "autore" è in composto e quindi non si può dire se fosse inteso come plurale o come singolare).
2) Al contrario della rigida cesura dei mīmāṃsaka, Vātsyāyana individua un continuum fra conoscenze riferite a oggetti esperibili e conoscenze ultramondane.
Tuttavia, il mīmāṃsaka Kumārila Bhaṭṭa ha buon gioco a ribattere che se questo sillogismo è valido, allora è valido anche: "La mia affermazione 'i ṛṣi non sono esperti [e quindi non possono essere stati in grado di pronunciare il Veda]' è vera, perché è una mia affermazione, come la mia affermazione vera 'il fuoco è caldo e brillante'!". Ossia, l'uguaglianza dell'autore non è una garanzia, perché un autore potrebbe essere esperto e affidabile in un determinato campo, ma non in un altro. Il Nyāya potrebbe rispondere a questa obiezione facendo appello alla propria definizione di āpta. Questi non deve infatti essere solo esperto, bensì anche onesto e animato dal desiderio di far conoscere ad altri ciò che sa e non può quindi essere un ciarlatano. Inoltre, egli deve aver visto direttamente ciò di cui parla. Ma la tutela definitiva dalle obiezioni di questo tipo si ha dilatando al punto il concetto di "esperto" da farlo coincidere con "onnisciente" e, quindi, con Dio. Se solo Dio, infatti, soddisfa i criteri, allora non sussiste più il rischio di esempi controfattuali come quello di Kumārila.
Come già accennato, nell'introdurre Dio come autore del Veda, Jayanta si fonda sulla definizione di āpta presente nel NS. Dio è un āpta, spiega Jayanta «Perché, come una [persona ordinaria è detta āpta se] ha esperito direttamente le qualità essenziali (dharma) [delle cose], Dio percepisce direttamente il dharma; quanto al desiderio di comunicare, spiegheremo che Dio è compassionevole, ed egli è un insegnante perché ha pronunciato i Veda». È da notare che Jayanta utilizzi i metodi già adottati dalla scuola epistemologica buddhista per adattare la definizione di āpta al Buddha: dharma è qui reinterpretato in chiave morale e il desiderio di comunicare è attribuito a Dio perché Egli è compassionevole. In quanto compassionevole, Dio è mosso da pietà nei confronti degli esseri umani e decide perciò di donare loro il Veda. La Sua compassione è perciò insieme garanzia di veridicità e spiegazione del perché Egli desideri comunicare con esseri inferiori.
Aggiungo infine che i timori dei mīmāṃsaka, ossia che far dipendere l'autorità del Veda da Dio possa aprire la porta all'equiparazione del Veda a successive "rivelazioni" divine sono più che fondati nel caso di Jayanta. Questi dedica infatti una sezione della sua enciclopedica opera Nyāyamañjarī all'autorevolezza delle Scritture diverse dal Veda e venerate dalle scuole teiste.

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