martedì 27 marzo 2007

7.5 Il Buddha come āpta per la scuola epistemologica buddhista

Il problema epistemologico dell'affidabilità del Buddha è centrale nella scuola epistemologica buddhista fin dai suoi esordi (e dal celebre verso di Dignāga in cui si celebra il Buddha come pramāṇa). Ciò non ostante, si potrebbe sostenere che questo sia un esito non necessario del pensiero buddhista, giacché il Buddha storico mirava a mostrare una via pratica e non a costruire un sistema filosofico inattaccabile. Nel costruirlo, poi, si incorrerebbe nel rischio di ipotesi metafisiche, tipo l'onniscienza (indimostrabile) del Buddha, in tal modo contravvenendo all'attitudine non metafisica del Buddha. Infine, la calibrazione dei mezzi rispetto agli interlocutori, essenziale nel messaggio del Buddha, dovrebbe far passare in secondo piano ogni questione epistemologica circa il rapporto fra la Parola del Buddha e gli altri strumenti conoscitivi, allo scopo di concentrarsi invece sul contenuto (per esempio le quattro nobili verità), raggiunto non importa se attraverso l'una o gli altri. Rispondo a tali, sensate, obiezioni, affermando che chiedersi quali siano i presupposti epistemologici della via di salvezza proposta dal Buddha è un modo per prenderla sul serio (tant'è vero che è stato tentato proprio dagli autori buddhisti che hanno fondato la scuola epistemologica buddhista). Inoltre, in un celebre discorso il Buddha racconta l'apologo di un uomo che, colpito da una freccia, rifiuti di farsi curare dal medico perché vuol prima sapere chi abbia scoccato la freccia, come si chiami, quanti capelli abbia etc. Il Buddha indica così la necessità di applicare la via che insegna, invece di fermarsi a domande speculative, ma per potersi fidare di tale via, come di chi stia per togliere la freccia della sofferenza, bisogna anzi tutto fidarsi del suo essere un medico o un insegnante affidabile. Quindi, la questione dell'affidabilità del Buddha è alla base della possibilità di intraprendere il cammino di salvezza buddhista. E questo comunque si consideri di risolvere il rapporto fra fede nel Buddha e verifica pratica dei suoi insegnamenti. D'altronde, lo stesso ascoltare i discorsi del Buddha implica il riconoscergli un'autorità, seppur provvisoria (ed è veramente solo un'autorità provvisoria?).
Poiché per la scuola epistemologica buddhista la conoscenza comunicata tramite Parola è un caso di inferenza sulla base dell'affidabiltà del suo autore, i criteri per definire l'affidabilità sono assai importanti. La scuola epistemologica buddhista sembra desumerli dal Nyāya, come appare da uno studio ravvicinato del caso del Buddha (si veda il testo di Franco citato al punto 3 della bibliografia). Anch'egli è infatti portatore di autorità epistemica e si configura come āpta fin dagli esordi della scuola epistemologica buddhista, nei testi di Dignāga. Il Buddha ha infatti raggiunto l'onniscienza in seguito all'illuminazione ed è quindi esperto, inoltre è mosso da compassione per gli esseri senzienti ed è quindi veritiero e desideroso di comunicare. Le critiche più serrate contro questa interpretazione del Buddha come āpta arrivano dai mīmāṃsaka (che possono così criticare insieme agli avversari buddhisti anche i paradigmi naiyāyika di cui si servono).
I Buddhisti sostengono che il Buddha sia un parlante affidabile (anche) quanto parla di dharma perché ćon l'illuminazione ha raggiunto l'onniscienza. Ma i mīmāṃsaka hanno gioco facile nel cercare di spingere all'angolo i buddhisti chiedendo loro come sia possibile per un essere finito raggiungere l'onniscienza. Rispondono i buddhisti che non si tratta di un'onniscienza assoluta e generica, bensì relativa a un ambito, per cui il Buddha sa tutto ciò che è necessario e funzionale alla liberazione (il Buddha non sa quanti moscerini ci siano al mondo, scrive Dharmakīrti –il maggior commentatore di Dignāga– in PV 2.31). Osserva in tal senso P. Griffiths –nell'articolo citato al punto 11a della bibliografia– che l' "onniscienza" del Buddha non indica una "scientia" di ogni cosa, bensì una "consapevolezza totale". Io direi che si tratta del superamento delle illusioni legate a desideri e avversioni e quindi dell'acquisizione di una coscienza non offuscata. Ma, insistono i mīmāṃsaka, se anche il Buddha fosse stato onnisciente, come potremmo provarlo? Ci vorrebbe un altro onnisciente per poterne giudicare l'onniscienza. La replica buddhista è ancora una volta ispirata al Nyāya. Sappiamo che il Buddha è onnisciente e che è un parlante esperto e affidabile perché abbiamo potuto verificare la porzione del suo insegnamento riguardante ambiti esperibili. Dunque, ne inferiamo la sua autorevolezza e dalla sua autorevolezza inferiamo la validità del suo insegnamento anche negli altri ambiti. Un esempio di questi altri ambiti, inattingibili in base alle sole facoltà umane, è la legge della retribuzione karmika, i cui meccanismi sono noti solo per il tramite delle affermazioni del Buddha.
Circa l'uso del linguaggio, i mīmāṃsaka chiedono come possa il Buddha continuare a usare un medium che presuppone la distinzione fra soggetto e oggetti non ostante abbia superato tale illusorio (secondo i buddhisti) livello di esperienza. Ricordo in proposito che la Parola come strumento conoscitivo è eminentemente verbale, per cui non è possibile immaginare vie d'uscita alternative all'uso del linguaggio, come sarebbe quella di un Buddha che abbia ispirato i testi che gli sono attribuiti, pur senza pronunciarli direttamente. Anzi, a ipotetiche (le definisco così perché non le ho mai trovate rappresentate in testi buddhisti, ma solo nelle ricostruzione che delle posizioni buddhiste fanno i loro avversari) soluzioni di tale tipo Kumārila risponde che si tratta di affermazioni prive di ogni verisimiglianza, "da credenti ciechi". Ma anche in questo caso, i Buddhisti replicano che non si può presupporre che il parlare del Buddha abbia alla base le erronee presupposizioni di un Io e di un Altro. Egli parla per compassione e non è confuso dal mezzo linguistico.
I mīmāṃsaka chiedono poi come possa essere "desideroso di comunicare" un essere che si presuppone non abbia più desideri poiché ha raggiunto l'illuminazione. Risponde Dharmakīrti che è la compassione e non un egoistico desiderio quello che muove il Buddha a parlare e non c'è perciò contrasto fra il comunicare e l'aver abbandonato ogni desiderio. Su questo punto si concentrano le critiche degli oppositori mīmāṃsaka, i quali negano la possibilità di un livello sovrumano di compassione. Essi contestano infatti la stessa possibilità che un essere umano giunga a un livello di onniscienza e compassione sovrumani. Queste qualità, come tutte le altre, a partire dall'abilità nel salto in alto, possono essere aumentate, ma non fino a travalicare i confini dell'esperienza umana (non sarà mai possibile saltare fin sulla luna). Replicano i buddhisti che non è possibile escludere elementi alaukika (trascendenti), quali la compassione di un essere illuminato o la sua onniscienza, sulla base di sillogismi etc. basati sull'esperienza ordinaria (laukika). L'argomento è cogente, ma mi pare potrebbe essere applicato specularmente ai buddhisti, che pure non possono dimostrare elementi che non si danno nell'esperienza ordinaria, tipo l'illuminazione del Buddha, la sua onniscienza, la sua compassione etc. Di questi si potrebbe quindi al più dire che sono coerentemente inseriti in un sistema e non che sono dimostrati come validi. In effetti lo stesso Dharmakīrti sembra conscio di questa possibile obiezione, giacché afferma che "Non c'è possibilità di accertare né l'esistenza né l'inesistenza di oggetti assolutamente al di là dell'esperienza umana". Una volta contestate le obiezioni mīmāṃsaka, dunque, l'onere di dimostrare l'autorità del Buddha si sposta sulla dimostrazione di come la compassione possa perfezionarsi indefinitamente, fino a generare l'illuminazione.
Per quanto riguarda il rapporto fra Parola come strumento epistemico e intuizione intellettuale (cfr il capitolo "Conclusioni"), il Buddha, raggiunta l'illuminazione, ha superato i limiti usuali della natura umana e ha potuto così percepire tramite intuizione intellettuale (yogipratyakṣa) anche l'ambito trascendente (alaukika). La validità delle sue affermazioni deriva perciò dall'intuizione intellettuale su cui sono fondate.
Resta ancora un dubbio sul rapporto fra conoscenza acquisita tramite la Parola del Buddha e conoscenza riguardante gli stessi ambiti acquisita grazie alle facoltà umane. La seconda è solo intesa come una verifica a posteriori, che quindi legittima quanto acquisito tramite la Parola come strumento epistemico ma che non potrebbe giungervi indipendentemente da questa, o le facoltà umane possono giungere alle stesse conclusioni indipendentemente dalla Parola del Buddha? E inoltre, che cosa legittima le conclusioni cui pervengono percezione e inferenza? Non è infatti ovvio che gli strumenti conoscitivi siano affidabili (potrebbero per esempio essere deviati da un demonio, come paventa Cartesio, o da uno scienziato pazzo, come ipotizzato da Putnam). L'esempio normalmente preso in esame è quello delle quattro nobili verità. Possono essere solo giustificate, o anche fondate dal pensiero umano? In altre parole, le quattro verità possono essere spiegate e difese dal pensiero umano, ma non fondate e nihilo, o è possibile pervenire autonomamente a queste , come se il Buddha non fosse mai esistito? Nel primo caso, ci sarebbe una sorta di circolarità, perché gli strumenti conoscitivi umani permettono di inferire che il Buddha è un parlante affidabile (e che quindi può essere creduto anche quando parla di retribuzione karmica etc.), ma la legittimità dell'applicazione degli strumenti conoscitivi sarebbe garantita dalla Parola del Buddha, e l'applicazione di tali strumenti sarebbe guidata dalle conclusioni cui si è giunti grazie alla sua Parola. È la posizione che sostengono, fra gli studiosi contemporanei, Tillmann Vetter, Steinkellner (n. 8 e 5 della bibliografia), Richard Hayes e Jackson (n.4). Vi si oppongono fra gli altri Franco (n.3 e 5) e Tillemans (n. 9 e 10), secondo i quali la scuola epistemologica buddhista sostiene di poter dimostare indipendentemente quanto raggiunto tramite la Parola del Buddha. Le quattro nobili verità sarebbero cioè dimostrate da Dharmakīrti per sillogismo. Cosa resterebbe allora alla Parola del Buddha? Alcuni ambiti inaccessibili all'uomo, ma irrilevanti per la salvezza, come la già ricordata legge di retribuzione karmica.
Si noti che secondo la prima interpretazione (quella di Vetter, Steinkellner etc.) il Buddha avrebbe l'essenziale funzione della rivelazione vedica per il Nyāya (o del Veda stesso per la Mīmāṃsā), secondo la seconda interpretazione (quella di Franco etc.), invece, il ruolo delle affermazioni del Buddha tenderebbe a somigliare a quello dela Parola come strumento conoscitivo nel Sāṅkhya. In altre parole, come nel Sāṅkhya, la Parola come strumento conoscitivo avrebbe un ristretto ambito esclusivo, anche se poi l'autorità del fondatore (Kapila o il Buddha) verrebbe ciò non ostante invocata riguardo l'intero sistema.

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