Questo capitolo ha lo scopo di puntualizzare alcuni degli elementi di sfondo del dibattito che andremo ad analizzare nei capitoli successivi. Ricorderete infatti che avevo detto che la Parola come strumento epistemico offre un'interessante occasione per osservare lo strutturarsi del dibattito filosofico all'interno delle scuole filosofiche indiane. Utilizzerò ora questo spazio per spiegare le caratteristiche generali di questo dibattito.
Secondo un uso invalso già in India e adottato in modo forse poco critico dalla quasi totalità degli interpreti occidentali, la filosofia indiana si articola in "scuole" (darsana, letteralmente "visione", nel senso di Weltanschauung). Sempre secondo la tradizione indiana, le scuole ortodosse (ossia che riconoscono il Veda) sono sei. A queste vanno poi aggiunte le varie correnti buddhiste e giainiste. Le sei scuole ortodosse sono secondo tale classificazione:
–Nyaya (da cui l'aggettivo Naiyayika, che indica anche un pensatore che aderisca alla scuola Nyāya)
–Vaisesika (Vaisesika)
–Mimamsa (Mimamsaka)
-Vedanta (Vedantin)
-Sankhya (Sankhya)
-Yoga
La prima, il Nyaya, è specializzata in temi di logica, dialettica ed epistemologia e a partire dal ix secolo circa sarà sempre più strettamente associata alla seconda, il Vaisesika. Questo nasce come indagine fisico-ontologica sul mondo. I Vaisesika elaborano, per esempio, una teoria atomistica. La Mimamsa sorge invece dal desiderio di sistematizzare l'esegesi vedica e si focalizza soprattutto sulla porzione del Veda, i Brahmana, contenente le ingiunzioni sacrificali. Anche il Vedanta è legato al Veda, ma soprattutto alle Upanisad, in cui le ingiunzioni sacrificali sono lette soprattutto a livello simbolico e prevale un approccio monista. Il Sankhya sofferma la propria attenzione sulla classificazione di tutto ciò che esiste suddividendolo innanzitutto in una natura naturans, attiva e incosciente, e uno spirito passivo ma cosciente. Infine, lo Yoga applica la distinzione del Sankhya fra natura e spirito alle proprie pratiche psicofisiche.
Spero di aver con questa brevissima presentazione evidenziato una caratteristica essenziale di queste scuole, ossia il loro presentarsi per così dire "a coppie". Questo è ancor più vero se si osserva da vicino il metodo utilizzato, in quanto le coppie tendono a essere accomunate dall'adozione di un medesimo procedimento epistemologico (e abbiamo già visto come l'epistemologia costituisca nella filosofia indiana la griglia sulla quale si articolano tutti i discorsi valoriali). Avremo perciò tre coppie più che sei distinte scuole, intorno a tre distinte metodologie: indagine umana (Nyāya e Vaiśeṣika), ermeneutica (Mīmāṃsā e Vedānta), separazione di natura e spirito (Yoga e Sāṅkhya).
Viceversa, singole scuole si dividono al loro interno, specie intorno a tesi più innovative di alcuni loro esponenti. Abbiamo perciò varie sottoscuole all'interno del Vedānta (da Śaṅkara alle scuole teiste, che nascono in seno al Vedānta), del Sāṅkhya (il Sāṅkhya ateo delle Sāṅkhyakārikā e quello teista della Bhagavadgītā...), dello Yoga, del Nyāya (in cui nel xiii secolo nasce una corrente che si autoproclama "Nuovo Nyāya"), della Mīmāṃsā (in cui si distinguono Bhāṭṭa Mīmāṃsā e Prābhākara Mīmāṃsā, oltre a figure di spicco cui viene attribuita una terza posizione, ossia Maṇḍana Miśra e Murāri Miśra). Vedremo che in alcuni casi, queste differenziazioni interne riguardano proprio la Parola come strumento epistemico, il che mostra una volta di più la sua centralità nel dibattito filosofico indiano.
Il discorso è ancora più complesso se si osserva come ognuna delle scuole si specializzi in un determinato ambito e tenda a prendere in prestito dalle altre quanto riguarda gli altri ambiti. Ognuna, specie in epoca postclassica, presenta un sistema completo, ma tale sistema è spesso composto di mattoni eterogenei. Nel caso che conosco meglio, la Mimamsa, troviamo le categorie del Vaisesika, la soteriologia del Vedanta, un'epistemologia influenzata dal Nyaya... Questo non nega la presenza di specificità anche negli ambiti presi per così dire in prestito. Ogni scuola non prende in toto tutto un blocco argomentativo da un'altra, bensì si sforza di adattarlo al proprio contesto. Tuttavia, il procedimento è tanto ovvio che non ci sono reciproche accuse di plagio. Anzi, se di plagio si può parlare si deve dire che è un plagio generalizzato e che coinvolge tutte le scuole, ora su un argomento, ora sull'altro. Le regole esegetiche della Mīmāṃsā, per esempio, sono adottate anche dalle altre scuole.
Infine, nell'India classica come in quella contemporanea la formazione dello studioso prevede la frequentazione di quasi tutti i sistemi, oltre a discipline ancora più transscolastiche, come la grammatica e la retorica. Un Naiyayika, perciò, non è mai un Naiyayika puro, che conosca solo il punto di vista della propria scuola. Egli avrà senz'altro studiato grammatica e metrica, ma anche Vaisesika e Mimamsa, e lo stesso vale per gli aderenti alle altre scuole.
In un certo senso, quindi, le "scuole" intese come organismi chiusi, non esistono. Esse sono, nelle parole di Daya Krishna, un "mito della storia della filosofia indiana". Ma questo non toglie che, una volta capito che si tratta di correnti di opinione non mutualmente esclusive, il loro studio sia essenziale per enucleare le dinamiche interne alla filosofia indiana. In quel che segue, continuerò perciò a parlare di "scuole", chiedendo ai lettori di tenere a mente le premesse cautelative ora enunciate.
Le scuole appaiono in primo piano in India molto più che in Occidente (dove pure esistono correnti come "Illuminismo", "Neoaristotelismo", "Positivismo", "Filosofia Analitica" etc.), perché l'uso comune (quasi "l'etichetta") in India prevede che la personalità del singolo pensatore sia messa in secondo piano. Gli autori tendono perciò non a presentare nuovi sistemi (come è generalmente accaduto nella filosofia moderna e contemporanea in Occidente), bensì a inserire le proprie innovazioni o riflessioni all'interno della scuola che si occupa dell'argomento corrispondente. Nella stragrande maggioranza dei casi, come già saprete, tale meccanismo è icasticamente espresso dal genere del commento. Tutti commentano, e ogni scuola progredisce attraverso successivi commenti ai propri testi radice, solitamente composti in aforismi detti sūtra.
Ciò non significa però che le polemiche fra le scuole non siano accese. Al contrario, spesso si ha l'idea che più che polemiche costruttive si tratti di tentativi di mostrare come la posizione dell'avversario sia fallace. Per valutare tali dibattiti il problema principale sta nel lessico utilizzato. Gli stessi termini hanno significati diversi a seconda delle scuole in cui vengono utilizzati e questo è particolarmente vero nel caso del tema di cui ci occuperemo, ossia la Parola. Lo stesso fatto che questo tema sia centrale per varie scuole fa infatti sì che varie tradizioni commentatoriali abbiano fissato un proprio vocabolario di riferimento per trattarne. Vedremo così che "sabda" non corrisponde allo stesso concetto se si parla da un punto di vista mimamsaka o vaisesika.
In relazione alla Parola come strumento di valida conoscenza in genere, possiamo collocare le varie scuole filosofiche indiane (i sei darśana e la scula epistemologica buddhista) in un ideale spettro:
–Nyāya: accetta solo la Parola come strumento conoscitivo se pronunciata da un esperto (in ogni ambito),
–Bhāṭṭa Mīmāṃsā: accetta la Parola come strumento conoscitivo sia se pronunciata da un esperto (in ambito mondano), sia se indipendente dal proprio autore (in ambito trascendente),
–Prābhākara Mīmāṃsā: accetta la Parola come strumento conoscitivo solo nel caso del Veda (ossia la Parola in quanto indipendente dal proprio autore) e solo in ambito trascendente.
Le altre correnti non hanno una posizione unica che accomuni tutta la scuola e tendono comunque, nei loro argomenti a favore della Parola come strumento conoscitivo, a utilizzare gli argomenti elaborati da queste tre scuole, che forniscono quindi i paradigmi di riferimento.
giovedì 1 marzo 2007
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