mercoledì 14 marzo 2007

6. La validita delle Scritture diverse dal Veda

(In questo capitolo come nei precedenti e successivi parlo di "validità" dei Testi Sacri e non di loro "verità". Questo perché la "verità" è una categoria metafisica, per valutare la quale occorre aver stabilito a priori un parametro di riferimento. Può parlare di verità la Chiesa Cattolica, giudicandola in riferimento ai propri dogmi. Può parlare di verità un logico, intendendola come il corrispondere alle leggi della logica. Nel nostro caso, invece, poiché i parametri di riferimento variano da scuola a scuola, dobbiamo necessariamente parlare di "validità", ossia della condizione per cui un determinato Testo Sacro è accettato come autorevole all'interno di una certa tradizione. In tale accezione, la "verità" pretende di avere carattere assoluto, la"validità" si limita a esprimere la coerenza di un elemento all'interno di un sistema.)
Il rango elevatissimo di cui godono i Veda nella cultura e società indiane ha fatto sì che spesso testi di varia natura (l'Ayurveda, Itihāsa e Purāṇa, il Mahābhārata, il Nāṭyaśāstra sono i primi a venirmi in mente) abbiano cercato di accreditarsi come "il quinto Veda", e in particolare testi sacri (ossia, testi riguardanti il trascendente, il dharma) abbiano tentato di venire considerati sullo stesso piano dei Veda o addirittura al di sopra di questi. Al di là delle circostanze storiche, sul piano teorico è interessante osservare che modalità abbiano assunto tali posizioni. Tanto più perché esse si ripetono simmetricamente anche all'interno del Buddhismo, dove periodicamente vengono "scoperti" nuovi testi che si pretende essere stati composti dal Buddha stesso, sebbene non facciano parte delle scuole del Buddhismo antico (Theravāda). In entrambi i casi, uno degli espedienti retorici più usati è quello della disuguaglianza dei destinatari del messaggio. L'India, si ricordi, è la società in cui l'armonia sociale è perseguita (lascio del tutto aperta la questione circa il successo o meno di tale perseguimento) attraverso la specializzazione di gruppi umani nei mestieri e nelle condizioni di vita loro più congeniali. L'idea di fondo è che gli uomini siano sostanzialmente disuguali e che quindi una coabitazione armonica è possibile sfruttando le loro diverse nature, come in un alveare ci sono operaie, guardiane e regine, o come in una repubblica platonica. Poiché dunque gli uomini sono diversi, diverse sono anche le modalità con cui far accettare loro uno stesso messaggio. Perciò, si sostiene, il Buddha ha pronunciato discorsi di tenore diverso, per questo Dio ha pronunciato i Veda e, per esempio, il Bhāgavatapurāṇa. Vi sarà già chiaro che queste posizioni possono essere sostenute solo dalle scuole (Nyāya, scuola epistemologica buddhista...) che sostengono che i Testi Sacri abbiano valore in quanto pronunciati da un autore esperto e affidabile. Sostiene per esempio Jayanta Bhaṭṭa che il dharma possa essere conosciuto tramite intuizione intellettuale. Dunque, chi lo abbia così conosciuto e sia un āpta potrà essere l'autore di testi affidabili, seppure diversi dal Veda.
Diversa è invece la posizione mīmāṃsaka. Ricordo che per la Mīmāṃsā il Veda gode di un'autorità incontrastata in ambito deontico (alaukika, trascendente, riguardante il dharma, in questo caso tutti questi termini sono sinonimi), il che sembrerebbe portare a escludere ogni altro testo da tale ambito. Tuttavia, la validità di altri testi diversi dal Veda (per esempio le "Leggi di Manu" o Manusmṛti) è un fatto comune in India. Si pone perciò il problema di giustificarlo. Secondo la Bhāṭṭa Mīmāṃsā, la validità dei testi non vedici ma che riguardano il dharma (ovviamente non si parla di testi di scuole teiste) proviene per inferenza da quella del Veda. Gli autori delle varie smṛti, cioè, le hanno composte a partire da testi vedici. Né potrebbe essere altrimenti, dal momento che il Veda è l'unico strumento conoscitivo che ci permetta di conoscere il dharma. Qualora non si rintracciasse il testo vedico da cui è stata tratta una qualche smṛti, ciò dipende dal fatto che essa compendia punti diversi del Veda, o dal fatto che il testo vedico da cui è direttamente tratta è andato perduto o non è stato ancora identificato. Mi permetto di soffermare l'attenzione dei lettori su questo punto, giacché si tratta di uno dei pochi casi in cui nella concezione mīmāṃsaka, solitamente aderente al dato e quindi al presente, fa irruzione la storia. Non per caso la Prābhākara Mīmāṃsā si mostra in questo più coerente con gli assunti generali della scuola e parla di due Veda, il Veda direttamente percepibile che si sostanzia nei testi vedici e il Veda "sempre inferibile" che, come corrente sotterranea si istanzia nelle varie smṛti. Di questo secondo Veda, i Prābhākara non cercano un'origine storica, limitandosi a descrivere la condizione attuale, l'unica che possiamo conoscere.
Ovviamente la spiegazione mīmāṃsaka prevede che vengano considerati validi solo i testi sacri che non contraddicono i Veda. Sono perciò escluse le Scritture buddhiste. La posizione naiyāyika, invece, è in maggiore difficoltà nel giustificare per il Veda il ruolo di parametro di riferimento. Comunque, anche per i naiyāyika le Scritture buddhiste sono inaccettabili in quanto cozzano con il Veda, mentre Jayanta Bhaṭṭa (solo in parte condizionato dalla sua stessa affiliazione religiosa) sostiene che le Scritture scivaite possano essere considerate valide giacché non contraddicono il Veda, bensì offrono cammini soteriologici opzionali (non obbligatori, come quelli descritti nel Veda) diversi.

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