giovedì 1 marzo 2007

2.1 Il caso del Buddhismo

Le scuole buddhiste rappresentano un caso più complesso all'interno della filosofia indiana. Esse sono infatti variamente legate al retroterra culturale vedico e "induista" e allo stesso tempo tendono a formare una rete di scuole specializzate. In linea di massima, è difficile affermare in generale quanta parte della cultura espressa da autori non buddhisti facesse parte di un retroterra culturale panindiano noto e magari accettato anche dai buddhisti. A impedire una generalizzazione giunge anche la diversa storia personale dei singoli autori buddhisti. Alcuni di loro sono vissuti in monasteri fin dall'infanzia e hanno quindi assorbito della cultura non buddhista solo la versione mediata da autori buddhisti. Altri invece giungono al Buddhismo convertendovisi, ovvero perché la propria famiglia si è da poco convertita (è il caso del kashmiro Śaṅkarananda) e recano quindi con sé la formazione classica delle classi alte non buddhiste (le conversioni al Buddhismo pare siano state molto più numerose nelle élites di brahmani e ksatriya).
Come poi accadrà anche all'interno delle scuole teiste in seno al così detto Induismo, tendono a evolversi una logica, una grammatica, un'epistemologia etc. propriamente buddhiste. Mentre però tale fenomeno resta sostanzialmente marginale in molti campi (molti autori buddhisti continuano per esempio a citare la grammatica di Pāṇini invece di quella di Candragomin), così non è nel caso dell'epistemologia. La scuola epistemologica buddhista, che assurge sul proscenio della filosofia indiana con Dignāga, nel v secolo d.C., diviene subito importante e influente, tanto da costringere sulla difensiva i campioni di Nyāya, Mīmāṃsā etc. Il motivo per questo diverso peso all'interno delle discipline buddhiste è facilmente intuibile alla luce di quanto detto nel cap.1. L'epistemologia è in India il presupposto per un discorso valoriale. Gli autori buddhisti non possono perciò utilizzare gli strumenti dell'epistemologia non buddhista, fortemente impregnati di un'ontologia non buddhista (nell'epistemologia del Nyāya, per esempio, si dà per scontata l'esistenza di un soggetto unico delle varie cognizioni che ciascuno identifica come proprie).
Perciò, in questa sede, parleremo soprattutto della posizione che sulla Parola come strumento conoscitivo ha assunto la scuola epistemologica buddhista (o Pramāṇavāda). Ciò non significa però che questa fosse l'unica posizione elaborata dai pensatori buddhisti circa la Parola come strumento conoscitivo e alcuni cenni saranno dedicati alle altre voci buddhiste in proposito.
La questione dell'estensione del retroterra culturale panindiano all'interno di pensatori buddhisti è rilevante anche per quanto riguarda un caso emblematico di Parola come strumento conoscitivo, ossia il Veda. Come già accennato, il Veda è trasversalmente accettato e riconosciuto dalle varie scuole "induiste". I buddhisti sono spesso, specie ai loro esordi, protagonisti di formidabili attacchi ad alcuni aspetti della cultura vedica, soprattutto la purezza castale e la violenza impiegata nei sacrifici. È tuttavia ancora oggetto di discussione se tale negazione si rivolgesse al Veda in toto, o solo ad alcune sue degenerazioni. Divinità vediche sono per esempio presenti nel corteggio del Buddha, e nei suoi discorsi contro la purezza castale il Buddha conclude spesso che "il vero brahmano" è invece chi soddisfa tutt'altri requisiti, in tal modo mostrando di non negare del tutto la categoria di brahmano, bensì di offrirne una diversa fondazione. Vedremo in seguito come tutto questo venga in qualche modo riassunto dal mīmāṃsaka Kumārila, che dirà perciò che anche i Buddhisti riconoscono il Veda, una frase in cui certamente nessun buddhista si riconoscerebbe!

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