In questo capitolo dedicherò un breve spazio a un tema cui ho accennato circa la Prābhākara Mīmāṃsā e che mi pare di estrema rilevanza politica prima ancora che filosofica. La Mīmāṃsā, come già detto, si sviluppa intorno al Veda e pone il Veda al centro della propria speculazione ermeneutica e filosofica in genere. Il Veda è per la Mīmāṃsā un a priori mai posto in discussione e indubitabile. Esso precede ogni discussione etica, nel senso che il dharma (definito come "ciò che deve essere fatto") è definito come il contenuto stesso del Veda e non esiste a prescindere da questo. Il Veda non è perciò "moralmente buono", nel senso che esso fonda il discorso morale e non vi si conforma. È una visione certamente dogmatica e assolutistica, che tuttavia prevede per il Veda un ambito di applicazione assai limitato. La Mīmāṃsā difende infatti il realismo diretto e il senso comune per tutto quel che riguarda il mondo, il saeculum. In questo ambito, essa è anzi ostile alle posizioni dogmatiche delle altre scuole e accusa per esempio i buddhisti di essere dei "credenti ciechi" quando parlano della possibilità che un essere umano raggiunga l'onniscienza. Nel mondo, i mīmāṃsaka si attengono alla massima per cui "da parte di noi mīmāṃsaka niente di non esperibile viene mai postulato" e negano perciò la possibilità di interruzioni delle leggi di natura, siano esse configurate come "miracoli" o come ipotesi di esiti e premesse diverse dall'attuale status quo. In ragione di ciò, la Mīmāṃsā rifiuta l'ipotesi di una creazione del mondo, di esseri dai poteri sovrumani, di un'estensione indefinita di qualità che nei fatti si danno solo in quantità finita, come la compassione, e così via. Roger Jackson (nell'articolo citato al punto 4 della bibliografia) nota come sia impossibile immaginare un discorso privo di presupposti e sostiene che quindi l'indipendenza conoscitiva di un discorso vada valutata in base a quanti meno presupposti esso abbia. Il caso della Mīmāṃsā mi suggerisce che si potrebbe invertire questo procedimento e sostenere che, dal momento che i presupposti sono inevitabili, è lecito valutare l'indipendenza conoscitiva di una tesi in base a quanto questa si mostri consapevole di tali presupposti e li sappia gestire. La Mīmāṃsā si sviluppa infatti come una scuola vivace (e anche ricca di punti di vista diversi) all'ombra dell'ingombrante presenza del Veda perché non cerca di sottrarsi alla sua paradossale insostituibilità in ambito deontico, limitandola però allo stesso tempo solo a tale ambito. La Mīmāṃsā, ha scritto John Taber (suoi sono i testi 12 e 14 della bibliografia), è crudelmente riduttiva nei confronti del Veda. Non prende in considerazione gli aspetti mitici, metaforici, spesso anche mistici del Veda, che riduce radicalmente a un'autorità solo deontica. Non voglio qui entrare nella controversia circa cosa sia il "vero" Veda, se quello dei mīmāṃsaka, quello delle scuole teiste, dei vedāntin o dei filologi contemporanei. Di certo, il Veda dal punto di vista mīmāṃsaka è l'unico strumento conoscitivo che ci permetta di conoscere il dharma e in tale ambito esso può essere solo accettato perché è al contempo l'unica fonte e anche la pietra di paragone rispetto a cui andrebbe valutata. In tutti gli altri ambiti, invece, non ha alcuna autorità. Questo è il prezzo che la Mīmāṃsā paga a voler mantenere intatta l'autorità assoluta del Veda in ambito deontico e la sua inarrivabilità in tale ambito. Paradossalmente, l'espansione dell'autorità del Veda ad altri ambiti, come avviene per il Nyāya ha finito invece per rendere tale autorità commisurabile, valutabile e quindi, in ultima analisi relativa.
Sostiene per esempio la Mīmāṃsā che non abbia senso considerare autorevoli le porzioni del Veda che affermano quanto può essere conosciuto anche tramite altri strumenti conoscitivi, né quelle il cui contenuto contrasta con i dati degli altri strumenti conoscitivi. Tali porzioni, in quanto espresse in forma descrittiva, vanno intese come sussidiarie alle prescrizioni. Esse fungono da eulogia di elementi da utilizzarsi nei sacrifici prescritti e non vanno invece interpretate autonomamente. In questo modo la Mīmāṃsā può mantenere un ruolo di strumento conoscitivo al Veda, seppur più limitatamente rispetto a come esso è intesto dal Nyāya.
In un esperimento mentale, possiamo ipotizzare che sia possibile provare che l'Āyurveda sia completamente errato. La validità dell'Ayurveda era l'esempio sulla base del quale era stato possibile nel NS stabilire l'invariabile concomitanza fra i ṛṣi autori di Veda e Ayurveda e l'enunciazione di conoscenza valida. Se l'Ayurveda non fosse più conoscenza valida, ne deriverebbe forse che anche il Veda non lo è? Si tratta di una conseguenza paradossale, ma che possiamo paragonare all'impatto che la scienza contemporanea ha effettivamente avuto su molti ambienti cristiani. Per citare un italiano, il matematico Piergiorgio Odifreddi, per esempio, si è chiesto in un recente libro (Perché non possiamo dirci cristiani (e meno che mai cattolici)) come possa essere creduta la Bibbia, dato che in tanti punti (la creazione, il sole che ruoterebbe intorno alla terra...) la scienza ne ha dimostrato la falsità.
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