mercoledì 14 marzo 2007

5.4 La Parola Vedica e il diritto per la Mīmāṃsā

La risposta mīmāṃsaka a obiezioni del tipo presentato nel capitolo precedente sarebbe che i testi sacri non hanno nulla da dirci sul mondo e che quindi non è possibile dimostrare nulla a proposito dei testi sacri semplicemente osservando il mondo. Ma il rapporto fra Veda e dharma (o "ciò che deve essere posto in essere") è di tipo biunivoco. Non solo il Veda riguarda solo il dharma, ma il dharma è conoscibile solo tramite il Veda. Non sono quindi ipotizzabili rivelazioni successive, profeti, o altri messaggi celesti. Il Veda è l'unico strumento che ci permetta di conoscere ciò che dobbiamo fare.
A questo punto mi trovo a dover affrontare un tema assai complesso, ossa le intersezioni fra autorità vedica (di tipo deontico) e ambiti mondano e trascendente (rispettivamente, laukika e alaukika). In linea teorica, possiamo dire che i mīmāṃsaka colgono un punto essenziale, ossia che l'aspetto deontico di un contenuto conoscitivo non deriva direttamente da un contenuto epistemico. In altre parole, non c'è modo di passare senza soluzione di continuità logica dal discorso descrittivo a quello prescrittivo. Proviamo a considerare affermazioni del tipo "sparando al cuore di un uomo lo si uccide". Non ci sono operazioni logiche con cui se ne possa trarre che "non è lecito sparare al cuore". La prescrittività è un di più che dipende solo da un'autorità deontica. Nell'esperienza comune, pensiamo a due bambini che giocano. Uno prende il giocattolo di un altro e pretende di portarlo via con sé. L'altro bambino si mette a piangere, interviene il padre del piccolo "ladro" che gli spiega "Questo gioco non ti appartiene". Se il bambino è ancora piccolo e non ha ancora introiettato l'autorità deontica del padre, è probabile che risponderà "E allora?". Il fatto che il giocattolo sia di un altro ha immediatamente un significato di tipo deontico per noi, ma non per chi prende l'affermazione "Questo gioco non ti appartiene" per quello che vale, ossia come la descrizione di uno stato di fatto. La prescrittività aggiunge un qualcosa che non può essere desunto dall'osservazione del mondo, né dal ragionamento e può derivare, quindi, solo dalla Parola come strumento conoscitivo.
Che conseguenze ha tutto ciò nell'ambito del diritto ordinario? Il Veda è infatti insieme fonte della prescrittività e però relegato all'ambito trascendente del dharma. Le leggi terrene derivano dal Veda (inteso come il Veda sempre inferibile della Prābhākara Mīmāṃsā o come quello effettivamente inferito della Bhāṭṭa Mīmāṃsā, si veda il capitolo 6) il proprio elemento prescrittivo, mentre il restante contenuto ha varie fonti (fra cui il comportamento dei giusti e altre fonti del diritto riconosciute anche in Occidente).
È possibile immaginare (come è accaduto in ambito cristiano o islamico) che l'autorità politica si arroghi il diritto di punire chi non esegua i rituali e i sacrifici prescritti nel Veda? No, o almeno non da un punto di vista mīmāṃsaka. Il rapporto fra ciò che viene imposto dal Veda e chi deve eseguirne gli ordini è infatti un rapporto personalizzato. Il Veda non comanda a tutti le stesse cose. L'assunto indiano della disuguaglianza fra gli uomini fa sì che ovviamente carichi diversi siano imposti a uomini diversi (con carichi più pesanti alle così dette caste più alte). Anche quando di fatto l'ordine si rivolge a tutti, esso è subordinato a una condizione in cui ognuno deve sentirsi chiamato in causa come singolo. Si dirà allora "chi desidera la felicità, deve sacrificare con i sacrifici della luna piena e della luna nuova". Tutti desiderano la felicità (almeno tale è la convinzione indiana), ma l'ordine comunque non ha la forma "tutti sacrifichino". L'essere chiamato in causa dal comando vedico riguarda perciò il singolo in quanto soggetto morale e non tutti i cittadini e non può perciò essere sottoposto a controllo giudiziario. Infine, l'autorità del Veda per essere tale non ha bisogno che si obbedisca a ciò che essa impone. Essa rimane intatta anche in caso l'uomo disobbedisca, poiché anche disobbedire implica l'essere vincolati da un comando (non disobbedisce se non chi riconosce un comando e vuole opporvisi).
In tal senso la Parola vedica è prescrittiva e non imperativa. La differenza fra prescrizioni e imperativi è quella che intercorre fra "Porta la mucca!" e "Devi portare la mucca". Nel primo caso, qualora l'ascoltatore non compia l'azione richiesta, l'imperativo perde il proprio senso. L'azione descritta dall'imperativo non risponde a realtà, in un certo senso l'imperativo perde anche la propria funzione semantica se non è posto in essere. Nel secondo caso, invece, chi oda la prescrizione sarà comunque soggettivamente vincolato dal dover portare la mucca, indipendentemente da se poi effettivamente lo faccia o no. Pensiamo per esempio ai dieci comandamenti. Questi non perdono di validità anche se non vengono obbediti; secondo alcuni teologi, anzi, essi non possono essere obbediti e hanno senso proprio in quanto esortano l'uomo in una direzione che egli da solo non può raggiungere.

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