Nel sommario ("piano delle lezioni") avevo detto come nel Nyāya la Parola avesse funzione di strumento conoscitivo purché pronunciata da parlante "esperto e affidabile" (nei capitoli precedenti e in quelli successivi ho usato e userò il solo termine "esperto" per ragioni di brevità). Questa doppia qualificazione mostra un altro dei casi in cui in una lingua occidentale siamo costretti a ricorrere a una perifrasi perché da noi non si è svolto il millenario dibattito durante il quale il termine usato dal Nyāya, ossia "āpta", si è semantizzato fino ad acquisire un doppio (o triplo, come vedremo) valore. Commentando NS 1.1.7, Vātsyāyana definisce così l'āpta:
È detto āpta il parlante che ha direttamente esperito le qualità essenziali (dharma) [delle cose] ed è mosso dal desiderio di descrivere [le cose] proprio come sono o non sono (āptaḥ khalu sākṣātkṛtadharmā yathādṛṣṭasyādṛṣṭasya cikhyāpayiṣayā prayukta upadeṣṭā).
Come evidenziato quindi dalla mia prima traduzione, l'āpta soddisfa un doppio criterio, epistemico e morale. Conosce le cose ed è onesto nel riportarle. In questo secondo criterio, come forse avrete già intuito, si nascondono però due aspetti, ossia la sincerità e il desiderio di comunicare. Uno stilita, anche se conoscesse il mondo alla perfezione e fosse assolutamente sincero non sarebbe un āpta a meno che non avesse anche voglia di scendere dalla sua colonna e andare a comunicare ad altri. Può sembrare una sottigliezza, ma vedremo (nel capitolo sul Buddhismo) che non è così.
Per quanto riguarda il primo criterio, invece, Vatyāyana insiste sul fatto che il parlante esperto abbia diretta esperienza delle "cose". Il termine sanscrito che ho qui tradotto così vagamente con "cose" è dharma, che oltre ai ben noti significati religiosi e filosofici indica anche le caratteristiche o proprietà di qualsiasi ente. Colui che "conosce direttamente i dharma" è quindi chi conosce gli oggetti nelle loro qualità specifiche. Tuttavia, questa interpretazione "laica" di dharma è messa un poco in crisi dall'ulteriore caratterizzazione "colui che ha direttamente esperito". Nel caso della comunicazione ordinaria, in realtà, sembrerebbe esserci spazio per casi di Parola come strumento conoscitivo anche laddove il parlante non abbia esperienza diretta di ciò di cui parla. Potrebbe averlo invece inferito, o conosciuto a sua volta tramite la Parola di un parlante esperto. È possibile che Vātsyāyana abbia specificato "colui che ha direttamente esperito" solo per indicare che almeno all'inizio di una catena di comunicazioni ci dev'essere qualcuno che ha visto con i propri occhi ciò di cui si parla. È anche possibile che il riferimento alla percezione sia dovuto al rango speciale di cui essa gode in quasi tutte le scuole indiane (tranne il Vedānta, si vedano i capitoli relativi). A ogni modo, la concomitanza di un'esperienza diretta e di un contenuto di tale esperienza chiamato "dharma" evoca anche il caso dell'intuizione intellettuale del trascendente propria dei ṛṣi secondo il Nyāya. Questa conclusione non è esplicita nel NS, ma sarà presente nell'interpretazione che del concetto di parlante esperto dà la scuola epistemologica buddhista ed è quindi possibile che fosse intesa anche se magari non in primo piano già nel Nyāya antico. Inoltre, un autore naiyāyika successivo all'emergere della scuola epistemologica buddhista, Jayanta Bhaṭṭa (IX secolo), leggerà appunto dharma in senso religioso per poter interpretare il passo in questione come se definisse Dio quale autore esperto dei Veda (si veda più oltre il capitolo a ciò dedicato). In ambito di comunicazione ordinaria, invece, Jayanta spiega che il parlante esperto deve aver contezza di ciò di cui parla, ma che non è necessario che ne abbia acquisito contezza tramite percezione diretta. Anche l'inferenza o un altro strumento conoscitivo possono servire allo scopo.
Cerchiamo ora di delineare meglio la personalità dell'āpta. Subito dopo la definizione sopra riferita, Vātsyāyana specifica che essa "si applica allo stesso modo a ṛṣi, abitanti di Āryavarta e stranieri". Āryavarta è l'India in senso più culturale che geografico. È la terra in cui vigono i costumi riconosciuti e i cui abitanti sono quindi puri. Il riferimento a ṛṣi e a stranieri (mleccha) prova che la Parola come strumento epistemico può rivolgersi sia all'ambito empirico ordinario (gli stranieri non hanno alcuna possibilità di comunicare alcunché di valido nell'ambito di ciò che dev'essere fatto), sia a quello ultramondano.
venerdì 2 marzo 2007
3.3 L'esperto come garanzia della Parola nel Nyaya
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