Dignāga, il fondatore della scuola epistemologica buddhista, riconduce la Parola come strumento conoscitivo all'inferenza. Alla base di questo atteggiamento, come vedremo, sta una concezione del linguaggio radicalmente convenzionalista e uno scetticismo nei confronti della capacità di pensiero e linguaggio di rispecchiare la realtà. Vi è poi un elemento esterno, legato alla polemica fra scuole filosofiche, ossia la contrapposizione fra autorità del Veda e antidogmatismo buddhista. Elementi del genere non possono svolgere una funzione determinante rispetto al pensiero di un filosofo, specie di nel caso di un pensiero complesso e sistematico come quello di Dharmakīrti e Dignāga, possono però almeno in parte spiegare i motivi per cui una certa tesi è stata vista con più o meno favore. È infatti ipotizzabile che i Buddhisti desiderassero distinguersi dall'atteggiamento dell'ortodossia brahmanica (identificabile con le posizioni di Nyāya e Mīmāṃsā, seppur in modo diverso) nei confronti del Veda. È con orgoglio che i buddhisti ricordano come il Buddha stesso abbia invitato i suoi discepoli a vagliare le sue parole, come si fa con l'oro. E nel Canone del Buddhismo antico ricorrono espressioni circa la strumentalità delle parole del Buddha, cui non ci si deve affezionare come se fossero di per sé importanti. Il Buddha le descrive come "una zattera", che serve solo per superare l'oceano della trasmigrazione e di cui si può fare a meno una volta questo sia stato superato. Successivamente, come nel caso del Sāṅkhya (per cui si veda il cap. 4.2), la Parola del Buddha tende a valere come parametro autorevole di riferimento per ogni dottrina (il complesso rapporto fra l'autorevolezza del Buddha e la verificabilità di quanto da lui affermato sarà esaminato nel prossimo capitolo). Tuttavia, rimane nel Buddhismo una corrente di consapevolezza della propria differenza rispetto al principio dell'autorità del Veda sancito nel mondo brahmanico. È la corrente che impregnerà di sé molte riletture successive del Buddhismo, da certi aspetti dello zen al Buddhismo contemporaneo e al suo porsi come interlocutore antidogmatico per il mondo della scienza occidentale.
Dopo questo inciso, torno alla concezione di Dignāga circa il rapporto fra vocabolo e oggetto significato. Costante nel pensiero buddhista è l'idea di una distanza fra realtà e linguaggio. La prima fluisce, mentre il secondo segmenta il reale in maniera rigida, sovrapponendovi una propria griglia interpretativa. Il pensiero e il linguaggio (che da questo dipende), non corrispondono perciò alla realtà, bensì al nostro modo di vederla. Questa affermazione, presente già nei discorsi del Buddha, viene rielaborata in chiave concettuale dalla scuola epistemologica buddhista, la quale di sforza di colmare il silenzio del Buddha sugli aspetti teorici e filosofici del proprio cammino di salvezza. Sostiene perciò Dignāga che il linguaggio non colga l'oggetto (che nel suo fluire non potrebbe essere colto da una forma fissa) ed elabora una conseguente teoria linguistica che procede per negazione, la teoria di apoha. Ci si potrebbe infatti chiedere come mai il linguaggio, pur non cogliendo il reale, funzioni sul piano pratico (per cui se dico "porta l'acqua con la brocca" chi mi obbedisce riesce a portarmi quanto desidero). Secondo l'apoha, il linguaggio funziona come il radar di un pipistrello (la metafora è mia), ossia cogliendo i confini di ciò che l'oggetto non è, e non identificandolo come tale. Di fatto, il termine "mucca" non ci dice nulla circa un referente esterno, è solo una denominazione, che però funziona escludendo tutto quanto è altro dalla mucca. Anzi, dal punto di vista della scuola epistemologica buddhista non è nemmeno detto che esista alcunché al di fuori del linguaggio e del pensiero. Perciò i singoli vocaboli, come vedremo più avanti, non sono probans (come il fumo nel famoso esempio di inferenza) degli oggetti che designano, bensì dei (corrispondenti?) stati mentali del parlante, che costituiscono quindi rispettivamente il probandum e il locus del sillogismo, come fuoco e montagna. La Parola come strumento conoscitivo è quindi un tipo di conoscenza indiretta, un'inferenza. In quest'analisi, Dignāga si contrappone alla visione dei grammatici (come Kātyāyana, Patañjali, Bhartṛhari) e dei mīmāṃsaka. Secondo questi ultimi, non ha senso parlare di un oggetto indipendentemente dal suo essere designato da un vocabolo. Il vocabolo non può quindi essere una griglia esterna sovrapposta all'oggetto, perché l'oggetto non è dato precedentemente al suo essere designato. Non è ipotizzabile, sostengono i mīmāṃsaka, un momento precedente il linguaggio in cui gli uomini potessero conoscere tutti gli oggetti e non avessero però ancora "inventato" i vocaboli con cui definirli. Infatti, non è possibile stabilire una convenzione se non con frasi che la spieghino, né una volta stabilita la convenzione è possibile comunicarla ad altri se non parlando. Gli altri fautori della convenzionalità del linguaggio, i naiyāyika, evitano questo punto critico sostenendo che ciò che è impossibile per gli uomini è possibile per Dio e che Lui può ben aver ideato una convenzione linguistica imponendola agli uomini (forse tramite telepatia?) senza bisogno di ricorrere a vocaboli, giacché per Lui tutto è possibile (ovviamente i mīmāṃsaka rifiutano questa tesi come mera fantasticheria senza fondamento).
Vengo ora alla formalizzazione (per cui seguo Śāntarakṣita, Tattvasaṅgraha 1520-25) dell'inferenza a cui la scuola epistemologica buddhista sostiene di poter ridurre la Parola come strumento conoscitivo (si tratta del caso b cui già accennato nel cap.7).
Mantenendo in mente lo schema "sulla montagna c'è fuoco, perché c'è fumo, come in cucina", il locus dell'inferenza (la montagna dell'esempio) è il parlante. Il probandum (il fuoco) è l'intenzione del parlante e il probans (il fumo) che permette di inferirla è la frase che pronuncia. Ossia, dalla frase "la mucca è rossa" inferisco la presenza del concetto "la mucca è rossa" nella testa del parlante. Se poi si è potuto indipendentemente accertare che il parlante è affidabile, si può inferire che a tale cognizione corrisponderà un contenuto valido, ossia "la mucca è rossa". Ciò implica, come già accennato, che i vocaboli non si riferiscano direttamente a dei referenti esterni, bensì a degli stati mentali del parlante che li enuncia (come in Occidente hanno sostenuto Frege e Grice fra gli altri). Questa posizione è insostenibile per un mīmāṃsaka perché sul piano laukika (della nostra esperienza comune) depriva il linguaggio del suo ancoramento all'ambito dei referenti oggettivi. Sul piano alaukika, invece, essa di fatto toglie ogni autorità al Veda. Se infatti la Parola comunica conoscenza tramite un'inferenza basata sull'intenzione del suo autore, è evidente che un testo senza autore (anche ammesso che esista) non ha alcuna autorità. Esso sarebbe come le lettere che per caso i tarli possono tracciare nel legno. È possibile che i tarli nello scavare il legno compongano casualmente una lettera o persino una breve parola, ma in nessun caso si potrebbe dire che tali gallerie nel legno comunicano un significato linguistico.
domenica 25 marzo 2007
7.4 La Parola come inferenza per la scuola epistemologica buddhista
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