Tornando alla Parola come strumento conoscitivo in senso proprio, alcuni autori occidentali le hanno esplicitamente riconosciuto un ruolo. Fra questi, notevole è Thomas Reid (1710-1796), un pastore anglicano scozzese contemporaneo di Hume e che fu da questi molto influenzato. Reid parte da una constatazione di Hume, per il quale la ragione (intesa come l'applicazione dei procedimenti inferenziali ai dati della percezione sensibile) è debole nell'infanzia, mentre fin da piccoli i bambini agiscono fidando nella consuetudine. Quando ancora non sono in grado di argomentare, essi confidano infatti già nel rapporto di causa-effetto (per esempio afferrando oggetti che desiderano). Reid "personalizza" tale affidamento alla consuetudine spiegando che fin da piccoli i bambini si affidano a quanto viene detto loro. E fanno benissimo, continua Reid, giacché senza tale affidamento non arriverebbero mai all'età adulta giacché se non ascoltassero i genitori finirebbero per incorrere in incidenti gravi.
Prima di proseguire, è però necessaria una premessa terminologica. Abbiamo fin dall'inizio osservato (si veda il cap. 0) che il concetto indiano di Parola come strumento conoscitivo raccoglie casi in Occidente sentiti come diversi. Per tale motivo, nel cercare agganci occidentali per possibili paralleli e sviluppi ulteriori, dobbiamo essere pronti a cogliere somiglianze di temi pur nelle diverse terminologie. Il termine che Reid (per cui si veda il cap. 8) utilizza per riferirsi alla Parola come strumento conoscitivo è "testimonianza".
Nel suo "An Inquiry into the Human Mind on the Principles of Common Sense" (1764, v. bibliografia per le edizioni), largo spazio è dedicato alla testimonianza, in particolare nell'ultimo capitolo. Lì si stabilisce un'analogia fra percezione diretta e testimonianza. Un simile paragone era stato stabilito da Śabara nel suo commento al MS. Śabara sostiene infatti che lo śāstra (ossia il Veda, la Parola come strumento epistemico indipendente dal suo autore) sia, come la percezione sensibile per il mondo ordinario, l'unica fonte di conoscenza per il trascendente (inferenza etc. rielaborano cioè i dati originariamente tratti da percezione o śāstra). Afferma inoltre Śabara che lo śāstra comunica conoscenza direttamente, come la percezione sensibile (mentre inferenza etc. offrono conoscenze mediate). L'argomento di Reid è simile nel considerare l'inferenza e gli altri strumenti conoscitivi subordinati a percezione diretta e testimonianza. Tuttavia, originale in Reid è il trattamento dell'altro elemento di somiglianza, ossia l'immediatezza. Sostiene infatti Reid che in realtà nessuna delle due comunichi immediatamente conoscenza. Al contrario, nell'una e nell'altra si succedono un livello immediato (quello rispettivamente delle sensazioni brute e del tono della voce/espressione del volto etc.) e uno mediato (quello dei dati sensori già parzialmente elaborati e del linguaggio). In tal senso, Reid parla anche circa i dati sensori di "testimonianza", attribuendo alla natura (e, implicitamente, al suo autore) il ruolo di teste.
Per quanto riguarda le categorie concettuali elaborate nei capitoli precedenti, Reid riconosce l'inevitabilità della testimonianza, in ogni ambito. Non individua un ambito, per esempio quello deontico, in cui la testimonianza sia l'unico strumento conoscitivo, e anzi sembra alludere al fatto che il suo ambito di applicazione si sovrapponga interamente a quello di percezione e ragionamento (=inferenza etc.). Tuttavia, la testimonianza è il principale strumento conoscitivo per chi non abbia ancora affinato percezione e ragionamento, ossia bambini e gente semplice. Riconoscere un tale ruolo forte alla testimonianza fa sì che Reid non debba ricorrere ad altre fonti (tipo le idee innate o l'intuizione intellettuale).
Il termine "testimonianza" rimanda necessariamente a un autore, per cui potrebbe sorprendere che poco o nessuno spazio sia destinato da Reid al problema dell'affidabilità del teste. Anzi, non ostante parli di "testimonianza", Reid non prende affatto in considerazione la figura del teste. In un certo senso, si potrebbe sostenere che nella sua testimonianza l'autore tende a scomparire in quanto individualità definita. Si parla perciò, come accennato sopra, di testimonianza anche nei riguardi della natura. Il riferimento potrebbe essere a Dio che parlerebbe attraverso di questa, ma Reid non Lo cita esplicitamente e in generale Dio pare piuttosto svolgere un ruolo di sfondo, di garante della totalità del sistema elaborato da Reid più che rivestirvi un ruolo specifico. Sul piano della testimonianza propriamente detta, invece, l'apparente distonia fra il termine "testimonianza" e l'assenza di un autore individuato si spiega perché Reid non ha bisogno di dare criteri specifici per l'affidabilità del teste, come se questa fosse un'eccezione. Si limita invece a osservare che l'affidabilità è la regola e che quindi fidarsi di ciò che vien detto è giusto, oltre a essere indispensabile. "[...] La propensità a dire la verità –scrive Reid– [...] opera potentemente anche nei maggiori bugiardi, perché per ogni volta che mentono anch'essi dicono la verità cento volte". Tale generale affidabilità fa sì che si sviluppi un legame fra vocabolo e significato. Tale legame non è quindi per Reid fissato direttamente da Dio (come per il Nyāya), né oggetto di una convenzione stipulata da alcuni uomini (come per la scuola epistemologica buddhista). Al contrario, la connessione deriva dall'uso dei parlanti ed è detta essere "reale". Se Reid si limitasse a questa constatazione, potremmo dire che la sua conclusione circa il rapporto vocabolo/significato è molto simile alla posizione della Mīmāṃsā. Ma Reid scrive dopo Hume (anzi Hume lesse e commentò il manoscritto dell'Inquiry prima della sua pubblicazione e Reid lo corresse dopo tale lettura), e non ostante anche i mīmāṃsaka abbiano dovuto fronteggiare avversari scettici, Reid è più esplicito nel porre il problema dell'affidabilità del dato. Infatti, sia Reid sia la Mīmāṃsā desiderano render conto del dato di fatto della generale diffusione della Parola come strumento di conoscenza. Entrambi notano che perché la Parola comunichi conoscenza il linguaggio in sé deve essere una via d'accesso sicura al pensiero e quindi al mondo oggettivo, e non una sua irregolare deformazione. Ma Reid si chiede esplicitamente come ciò sia possibile. Come possiamo, domanda, contare sul fatto che le stesse parole continuino a essere usate dai nostri simili per esprimere gli stessi significati? Hume ha già mostrato che la ripetitività non è una garanzia e che la ripetizione di uno stesso evento per un numero elevato di volte comunque non dimostra nulla circa il futuro. Reid deve perciò ricorrere a Dio. Infatti, per tornare allo sfondo di garanzia offerto da Dio, l'istintivo fidarsi della testimonianza, così come l'istintiva veracità sono due segni evidenti, secondo Reid, del piano di Dio il quale vuole per il nostro bene che sia possibile scambiarsi informazioni. Il problema della persistenza del dato (per esempio, del rapporto fra vocabolo e significato) si sposta così sul problema dell'esistenza di Dio. Rispetto alla Mīmāṃsā, Reid ha compiuto un passo innanzi nell'ancorare il dato a una base salda, ma anche uno indietro, poiché al di fuori del dato empiricamente riscontrabile ogni teoria è destinata a poter essere confutata. Questo è almeno quanto sosterrebbero i mīmāṃsaka. Si potrebbe obiettare che anche il dato può essere revocato in dubbio (è avvenuto sia in India con alcune scuole buddhiste, sia in Occidente, con Kant, Hegel, Schopenhauer, Fichte etc.), ma di certo l'esperienza ordinaria rappresenta un limite per l'interpretazione filosofica, che deve comunque essere in grado di renderne conto, e il modo più diretto di renderne conto è fidarsene. Quest'ultimo punto sembrerebbe portare alla conclusione per cui, anche in Reid, apparentemente Dio conferisce certezza al dato, ma in ultima analisi è l'evidenza del dato, in cui si riscontra una "connessione reale" fra vocabolo e significato etc., a deporre a favore dell'esistenza di un garante che consenta tutto ciò.
sabato 31 marzo 2007
9. Applicazioni occidentali
Tento ora alcuni spunti applicativi, al fine di indagare circa la possibilità di ripensare la filosofia occidentale alla luce dei paradigmi elaborati in India intorno alla Parola come strumento conoscitivo. Fine dell'esperimento è vedere se tale applicazione può servire a offrire un nuovo punto di vista da cui ripensare la filosofia occidentale.
Come punto di partenza di un'attitudine (mi pare) diffusa in ambito occidentale, cito alcune parole di Denis Diderot:
"L'intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso le sue incertezze, la memoria i suoi limiti, l'immaginazione le sue oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono infiniti, le cause nascoste, le forme –forse– transitorie. Contro tanti ostacoli che troviamo in noi stessi e che la natura ci oppone, disponiamo solo di un'esperienza lenta e di una riflessione limitata. Queste sono le leve mediante le quali la filosofia si è proposta di sollevare il mondo".
La polemica contro i pregiudizi mi sembra riconducibile al rifiuto di tributare un ruolo alla Parola come strumento conoscitivo, mentre da notare è che gli unici strumenti conoscitivi riconosciuti sono percezione diretta ("esperienza") e procedimenti inferenziali ("riflessione").
Ma lo stesso Illuminismo non è affatto univoco nel promuovere questi due strumenti conoscitivi. Un caso interessantissimo è quello di David Hume (Edimburgo 1711-1776). Relativamente al nostro ambito di indagine, Hume nota che la "ragione" (ossia i procedimenti inferenziali applicati ai dati della percezione diretta) non fonda la morale. La ragione, continua Hume, non ci dice per esempio che è sbagliato preferire la distruzione del mondo al graffiarci un dito (né ci dice che sia sbagliato il contrario). Il giudizio morale, potremmo dire, contiene uno scarto che non deriva dalla rielaborazione dei dati dell'esperienza (si vedano in proposito le mie conclusioni, cap. 8, e i capitoli sulla Mīmāṃsā). Più dirompente può apparire la constatazione di Hume che la ragione non ha valore fondante nemmeno nell'ambito epistemico dell'esperienza ordinaria. Infatti, ogni nostra conclusione si basa su categorie che prescindono dall'esperienza (e che non possono provenire da procedimenti inferenziali, dato che questi non sono che rielaborazioni di dati sensibli). Un esempio di tali categorie è la connessione fra causa ed effetto. Nulla nell'esperienza ci autorizza a concludere che un evento sia causa di un altro. Tutto ciò che l'esperienza ci autorizza a concludere è l'usuale successione temporale fra due eventi (tipo il muoversi di una pallina dopo che sia stata colpita da una stecca da biliardo, l'esempio è di Hume stesso). Fondante diventa perciò, per Hume, la consuetudine. Questa sembra coprire il ruolo di fondamento normativo che in India spesso ricopre la Parola come strumento conoscitivo.
Ciò mi dà anche modo di spendere qualche parola circa un apparente paradosso presente nella filosofia moderna in Occidente. Gran parte dei suoi autori, come abbiamo più volte ricordato, è orgogliosa della propria indipendenza intellettuale e condanna la Parola come strumento conoscitivo condannando pregiudizi e sudditanza al principio di autorità. Tuttavia molti di questi stessi autori erano devoti cristiani e spesso sacerdoti essi stessi. Mi chiedo allora se, esplicitamente (come nel caso di Cartesio) o implicitamente tutti considerassero la conoscenza umana autonoma poiché ciò è permesso da Dio. Dio si troverebbe perciò ad avere valore fondante anche dell'autonomia della conoscenza. In modo, mi pare, simile, Steinkellner (testi 8 e 5 della bibliografia) nota come il Buddha garantisca che gli strumenti conoscitivi umani non siano fallaci.
(Ringrazio un ignaro Paolo Rossi che in un suo articolo mi ha offerto una citazione di Diderot e qualche idea che ho collocato in ordine sparso. Ovviamente resto io l'unica responsabile di quanto scrivo sui paralleli fra filosofia indiana e occidentale e anche delle mie opinioni circa la filosofia occidentale).
Come punto di partenza di un'attitudine (mi pare) diffusa in ambito occidentale, cito alcune parole di Denis Diderot:
"L'intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso le sue incertezze, la memoria i suoi limiti, l'immaginazione le sue oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono infiniti, le cause nascoste, le forme –forse– transitorie. Contro tanti ostacoli che troviamo in noi stessi e che la natura ci oppone, disponiamo solo di un'esperienza lenta e di una riflessione limitata. Queste sono le leve mediante le quali la filosofia si è proposta di sollevare il mondo".
La polemica contro i pregiudizi mi sembra riconducibile al rifiuto di tributare un ruolo alla Parola come strumento conoscitivo, mentre da notare è che gli unici strumenti conoscitivi riconosciuti sono percezione diretta ("esperienza") e procedimenti inferenziali ("riflessione").
Ma lo stesso Illuminismo non è affatto univoco nel promuovere questi due strumenti conoscitivi. Un caso interessantissimo è quello di David Hume (Edimburgo 1711-1776). Relativamente al nostro ambito di indagine, Hume nota che la "ragione" (ossia i procedimenti inferenziali applicati ai dati della percezione diretta) non fonda la morale. La ragione, continua Hume, non ci dice per esempio che è sbagliato preferire la distruzione del mondo al graffiarci un dito (né ci dice che sia sbagliato il contrario). Il giudizio morale, potremmo dire, contiene uno scarto che non deriva dalla rielaborazione dei dati dell'esperienza (si vedano in proposito le mie conclusioni, cap. 8, e i capitoli sulla Mīmāṃsā). Più dirompente può apparire la constatazione di Hume che la ragione non ha valore fondante nemmeno nell'ambito epistemico dell'esperienza ordinaria. Infatti, ogni nostra conclusione si basa su categorie che prescindono dall'esperienza (e che non possono provenire da procedimenti inferenziali, dato che questi non sono che rielaborazioni di dati sensibli). Un esempio di tali categorie è la connessione fra causa ed effetto. Nulla nell'esperienza ci autorizza a concludere che un evento sia causa di un altro. Tutto ciò che l'esperienza ci autorizza a concludere è l'usuale successione temporale fra due eventi (tipo il muoversi di una pallina dopo che sia stata colpita da una stecca da biliardo, l'esempio è di Hume stesso). Fondante diventa perciò, per Hume, la consuetudine. Questa sembra coprire il ruolo di fondamento normativo che in India spesso ricopre la Parola come strumento conoscitivo.
Ciò mi dà anche modo di spendere qualche parola circa un apparente paradosso presente nella filosofia moderna in Occidente. Gran parte dei suoi autori, come abbiamo più volte ricordato, è orgogliosa della propria indipendenza intellettuale e condanna la Parola come strumento conoscitivo condannando pregiudizi e sudditanza al principio di autorità. Tuttavia molti di questi stessi autori erano devoti cristiani e spesso sacerdoti essi stessi. Mi chiedo allora se, esplicitamente (come nel caso di Cartesio) o implicitamente tutti considerassero la conoscenza umana autonoma poiché ciò è permesso da Dio. Dio si troverebbe perciò ad avere valore fondante anche dell'autonomia della conoscenza. In modo, mi pare, simile, Steinkellner (testi 8 e 5 della bibliografia) nota come il Buddha garantisca che gli strumenti conoscitivi umani non siano fallaci.
(Ringrazio un ignaro Paolo Rossi che in un suo articolo mi ha offerto una citazione di Diderot e qualche idea che ho collocato in ordine sparso. Ovviamente resto io l'unica responsabile di quanto scrivo sui paralleli fra filosofia indiana e occidentale e anche delle mie opinioni circa la filosofia occidentale).
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scuola epistemologica buddhista
8. Conclusioni
Concludo raccordando i due aspetti che hanno svolto la funzione di Leitmotiv sin dal primo capitolo, ossia la fondamentalità della Parola come strumento conoscitivo e la comparazione fra filosofia indiana e occidentale. A parte alcuni scettici pirroniani, nessuno, né in ambito indiano né occidentale, nega la necessità di utilizzare la percezione sensibile per poter acquisire conoscenza. Anzi, secondo varie scuole (che potremmo definire grosso modo empiriste) questa è il fondamento unico a partire dal quale sarebbe possibile ricavare ogni altra conoscenza. In realtà (fatte salve, anche in questo caso, alcune posizioni estreme, ma marginali), nessuno ha sostenuto che dalla percezione sensibile potesse essere dedotta DIRETTAMENTE ogni nozione complessa. I processi di astrazione e generalizzazione restano necessari e possono essere ricondotti a quella capacità di mettere in relazione i propri contenuti conoscitivi che possiamo chiamare in senso lato "inferenza". Ma, poiché l'inferenza ha bisogno di premesse, essa non può essere la fonte ultima delle nostre conoscenze. Si candida invece a tale ruolo la percezione sensibile. Nel capitolo 0. ("Perché parlare di Parola come fondamento della filosofia?") ho esposto il mio scetticismo in merito. Anche escludendo però i miei dubbi circa la fondamentalità della percezione sensibile nel suo proprio dominio, resta certo che da questa non possiamo trarre alcuna nozione che travalichi la descrizione del presente. Tramite percezione sensibile non possiamo venire a conoscere nulla del futuro, né di quanto non è al momento, ma dovrebbe essere, dato che gli organi di senso per definizione non possono essere in contatto che con oggetti presenti. A questo punto di presentano due alternative. O affidarsi a una fonte altra oppure escludere dalla conoscenza propriamente detta tutto quanto non sia accessibile tramite percezione sensibile. Quest'ultima operazione è stata tentata in Occidente dalla filosofia analitica laddove ha sostenuto (con Ayer, professore di logica a Oxford, 1910-1989) che le proposizioni etiche o metafisiche non sono né vere né false, ma semplicemente senza significato, come "Ho udito l'anno prossimo un cerchio quadrato" o "xxx2 yy´x zz33". Tale riduzione dell'ambito della conoscenza è però opinabile anche dall'interno, nel senso che non è affatto detto che la stessa scienza non poggi su assunti indimostrati, tipo la relazione di causa-effetto o, più in concreto, il Big Bang. Pertanto, in questo corso ho tentato invece di recuperare alla conoscenza anche dominii essenziali per l'esistenza umana quali la morale, il diritto, la religione. Per tutti questi ambiti bisogna affidarsi a una fonte altra rispetto alla percezione sensibile.
In Occidente, tale ruolo è stato spesso rivestito dalle idee innate e dalla loro fonte ultima, Dio. In India, troviamo l'intuizione intellettuale dei ṛṣi, Dio, e la Parola vedica. Le scuole buddhiste e il Sāṅkhya tentano di mostrare come, sebbene esistano ambiti accessibili solo dalla Parola come strumento epistemico, questi abbiano scarsa rilevanza epistemica (giacché non influenzano l'ambito empirico, che è quello in cui si gioca la vera partita circa la validità della conoscenza), e scarsa importanza anche ai fini della liberazione. Non so se tale tentativo potrebbe a priori realizzarsi, di fatto però nella storia delle suddette scuole l'autorità dei fondatori tende ad acquisire un ruolo importante e a travalicare gli ambiti ristretti suindicati. È anche possibile che questa non sia una conseguenza indesiderata, bensì una premessa che era ben chiara fin dagli esordi di queste scuole, che hanno perciò espresso scetticismo nei confronti, per esempio, della sola Parola vedica e non di ogni sorta di Parola come strumento conoscitivo.
Sembrerebbe uscire da questo schema il Nyāya, in cui troviamo una doppia fonte per il trascendente, ossia la Parola come strumento conoscitivo e l'intuizione intellettuale (yogipratyaksa). Di fatto la situazione, a partire dal NS è senz'altro quella di una doppia fonte, ma esistono secondo la mia opinione vari indizi che mostrano come tale situazione sia un esito secondario della preistoria naiyāyika. Infatti, la forma di Parola come strumento conoscitivo accettata, ossia la Parola come testimonianza di un esperto depone a favore di un uso principalmente mondano della Parola come strumento conoscitivo. In un momento x della storia precedente al NS, possiamo perciò ipotizzare che la Parola come strumento conoscitivo avesse come ambito la comunicazione ordinaria, mentre l'intuizione intellettuale servisse ad accertare quanto trascende l'ordinario. Probabilmente la necessità di accogliere il Veda con una posizione a sé nella propria epistemologia ha fatto sì che anche l'intuizione intellettuale dei ṛṣi venisse inclusa nella Parola come strumento conoscitivo (cfr Vātsyāyana ad NS 1.1.7, dove spiega che la definizione di Parola come strumento conoscitivo si applica a barbari, persone ordinarie e ṛṣi).
Un cammino simmetrico è compiuto dalla Mīmāṃsā, in cui il Veda è a priori accettato come fonte conoscitiva, ma nella Bhāṭṭa Mīmāṃsā, forse per influenza del Nyāya, o in genere per attenzione ai dati di fatto reali, si accetta come strumento conoscitivo anche la Parola di persone ordinarie.
Sul piano storico, abbiamo osservato come intorno alla Parola come strumento conoscitivo evolvano il Sāṅkhya (nell'accettare il Veda) il Nyāya (nel conferire un ruolo prominente a Dio e accettare l'autorevolezza di testi sacri diversi dal Veda), il Vaiśeṣika (nell'accettare Dio come autore del Veda e, fondendosi con il Nyāya, finire per rinunciare anche alla propria posizione circa la Parola come caso di inferenza).
Aggiungo una mia valutazione personale. Lo studio delle correnti filosofiche indiane è indicativo, perché secoli di storia e di dibattiti permettono di vedere alla prova la Parola come strumento conoscitivo. Mi sembra se ne possa trarre l'insostituibilità della Parola come strumento conoscitivo in ambito deontico (ciò che deve essere fatto non esiste in quanto tale e quindi non può essere raggiunto da percezione diretta o inferenza). Sfruttando i confini più ampi dell'epistemologia in India il Nyāya può (si veda l'esordio del commento al NS) proporre che conoscenza di un oggetto e valutazione morale di questo siano in continuum. Ma mi pare che la distinzione netta operata dalla Mīmāṃsā sia empiricamente più valida, data la difficoltà di giustificare, e l'impossibilità di verificare, tale continuum. In ambito trascendente, invece, la Parola come strumento conoscitivo è più inevitabile che insostituibile. Potrebbe infatti essere sostituita se si riuscisse a rendere il trascendente non più tale (per esempio mettendolo alla portata dell'intuizione intellettuale, o minimizzandone l'entità). Per quanto concerne l'esperienza ordinaria, invece, nessuna scuola sostiene che la Parola come strumento conoscitivo sia insostituibile, ma di fatto è impensabile pensare di acquisire conoscenza scartando una tale fonte (oltre ai dubbi, non espressi in India, circa la possibilità stessa di una tale intrapresa, sia per il regressus ad infinitum che comporta, sia per il circolo virtuoso che spesso si innesta fra Parola come strumento conoscitivo e percezione sensibile).
Sul piano politico, infine, che conseguenze hanno questi diversi modi di intendere i testi che hanno autorità in ambito religioso (il che significa spesso anche in ambito morale e anche in ambito giuridico)? L'approccio del Nyāya permette di ampliare potenzialmente all'infinito la Rivelazione, nel senso che se si attribuisce a Dio l'autorità che per Suo tramite giunge ai testi sacri, è sempre possibile immaginare che Dio enunci nuovi testi di pari autorità. Come distinguere però le nuove rivelazioni da testi sedicenti tali? A questa domanda in realtà insolubile (perché tocca l'ambito privatissimo della fede, per cui finiamo per riconoscere un certo testo come autorevole o per disconoscerlo come apocrifo solo in quanto abbiamo fede in questo o nel suo enunciatore) il Nyāya risponde facendo appello all'accettazione da parte della comunità. La Mīmāṃsā è più netta, almeno in linea di principio, nel separare il Veda da tutti gli altri possibili testi sacri. Ma riconduce al Veda, tramite inferenza, ogni altro testo autorevole sul piano giuridico e morale e anche lo stesso comportamento retto dei giusti. Infine, i buddhisti e comunque tutte le scuole che attribuiscono valore fondante all'intuizione intellettuale (yogipratyakṣa) di un singolo sembrano a prima vista meno dogmatiche, ma allo stesso tempo esaltando un uomo senza pari lo allontanano dall'esperienza ordinaria. Il suo messaggio può così essere inteso come un "miracolo", un unicum irripetibile. Se infatti è teoricamente possibile che altri uomini (più complessa la situazione per le donne) raggiungano il risveglio e siano quindi alla pari del Buddha storico, tuttavia nei secoli intercorsi dalla fondazione del Buddhismo a oggi ciò non si è mai realizzato se non in gruppi carismatici (tipo la Soka Gakkai), che hanno di fatto sostituito il proprio capo carismatico al Buddha Śakyamuni.
In Occidente, tale ruolo è stato spesso rivestito dalle idee innate e dalla loro fonte ultima, Dio. In India, troviamo l'intuizione intellettuale dei ṛṣi, Dio, e la Parola vedica. Le scuole buddhiste e il Sāṅkhya tentano di mostrare come, sebbene esistano ambiti accessibili solo dalla Parola come strumento epistemico, questi abbiano scarsa rilevanza epistemica (giacché non influenzano l'ambito empirico, che è quello in cui si gioca la vera partita circa la validità della conoscenza), e scarsa importanza anche ai fini della liberazione. Non so se tale tentativo potrebbe a priori realizzarsi, di fatto però nella storia delle suddette scuole l'autorità dei fondatori tende ad acquisire un ruolo importante e a travalicare gli ambiti ristretti suindicati. È anche possibile che questa non sia una conseguenza indesiderata, bensì una premessa che era ben chiara fin dagli esordi di queste scuole, che hanno perciò espresso scetticismo nei confronti, per esempio, della sola Parola vedica e non di ogni sorta di Parola come strumento conoscitivo.
Sembrerebbe uscire da questo schema il Nyāya, in cui troviamo una doppia fonte per il trascendente, ossia la Parola come strumento conoscitivo e l'intuizione intellettuale (yogipratyaksa). Di fatto la situazione, a partire dal NS è senz'altro quella di una doppia fonte, ma esistono secondo la mia opinione vari indizi che mostrano come tale situazione sia un esito secondario della preistoria naiyāyika. Infatti, la forma di Parola come strumento conoscitivo accettata, ossia la Parola come testimonianza di un esperto depone a favore di un uso principalmente mondano della Parola come strumento conoscitivo. In un momento x della storia precedente al NS, possiamo perciò ipotizzare che la Parola come strumento conoscitivo avesse come ambito la comunicazione ordinaria, mentre l'intuizione intellettuale servisse ad accertare quanto trascende l'ordinario. Probabilmente la necessità di accogliere il Veda con una posizione a sé nella propria epistemologia ha fatto sì che anche l'intuizione intellettuale dei ṛṣi venisse inclusa nella Parola come strumento conoscitivo (cfr Vātsyāyana ad NS 1.1.7, dove spiega che la definizione di Parola come strumento conoscitivo si applica a barbari, persone ordinarie e ṛṣi).
Un cammino simmetrico è compiuto dalla Mīmāṃsā, in cui il Veda è a priori accettato come fonte conoscitiva, ma nella Bhāṭṭa Mīmāṃsā, forse per influenza del Nyāya, o in genere per attenzione ai dati di fatto reali, si accetta come strumento conoscitivo anche la Parola di persone ordinarie.
Sul piano storico, abbiamo osservato come intorno alla Parola come strumento conoscitivo evolvano il Sāṅkhya (nell'accettare il Veda) il Nyāya (nel conferire un ruolo prominente a Dio e accettare l'autorevolezza di testi sacri diversi dal Veda), il Vaiśeṣika (nell'accettare Dio come autore del Veda e, fondendosi con il Nyāya, finire per rinunciare anche alla propria posizione circa la Parola come caso di inferenza).
Aggiungo una mia valutazione personale. Lo studio delle correnti filosofiche indiane è indicativo, perché secoli di storia e di dibattiti permettono di vedere alla prova la Parola come strumento conoscitivo. Mi sembra se ne possa trarre l'insostituibilità della Parola come strumento conoscitivo in ambito deontico (ciò che deve essere fatto non esiste in quanto tale e quindi non può essere raggiunto da percezione diretta o inferenza). Sfruttando i confini più ampi dell'epistemologia in India il Nyāya può (si veda l'esordio del commento al NS) proporre che conoscenza di un oggetto e valutazione morale di questo siano in continuum. Ma mi pare che la distinzione netta operata dalla Mīmāṃsā sia empiricamente più valida, data la difficoltà di giustificare, e l'impossibilità di verificare, tale continuum. In ambito trascendente, invece, la Parola come strumento conoscitivo è più inevitabile che insostituibile. Potrebbe infatti essere sostituita se si riuscisse a rendere il trascendente non più tale (per esempio mettendolo alla portata dell'intuizione intellettuale, o minimizzandone l'entità). Per quanto concerne l'esperienza ordinaria, invece, nessuna scuola sostiene che la Parola come strumento conoscitivo sia insostituibile, ma di fatto è impensabile pensare di acquisire conoscenza scartando una tale fonte (oltre ai dubbi, non espressi in India, circa la possibilità stessa di una tale intrapresa, sia per il regressus ad infinitum che comporta, sia per il circolo virtuoso che spesso si innesta fra Parola come strumento conoscitivo e percezione sensibile).
Sul piano politico, infine, che conseguenze hanno questi diversi modi di intendere i testi che hanno autorità in ambito religioso (il che significa spesso anche in ambito morale e anche in ambito giuridico)? L'approccio del Nyāya permette di ampliare potenzialmente all'infinito la Rivelazione, nel senso che se si attribuisce a Dio l'autorità che per Suo tramite giunge ai testi sacri, è sempre possibile immaginare che Dio enunci nuovi testi di pari autorità. Come distinguere però le nuove rivelazioni da testi sedicenti tali? A questa domanda in realtà insolubile (perché tocca l'ambito privatissimo della fede, per cui finiamo per riconoscere un certo testo come autorevole o per disconoscerlo come apocrifo solo in quanto abbiamo fede in questo o nel suo enunciatore) il Nyāya risponde facendo appello all'accettazione da parte della comunità. La Mīmāṃsā è più netta, almeno in linea di principio, nel separare il Veda da tutti gli altri possibili testi sacri. Ma riconduce al Veda, tramite inferenza, ogni altro testo autorevole sul piano giuridico e morale e anche lo stesso comportamento retto dei giusti. Infine, i buddhisti e comunque tutte le scuole che attribuiscono valore fondante all'intuizione intellettuale (yogipratyakṣa) di un singolo sembrano a prima vista meno dogmatiche, ma allo stesso tempo esaltando un uomo senza pari lo allontanano dall'esperienza ordinaria. Il suo messaggio può così essere inteso come un "miracolo", un unicum irripetibile. Se infatti è teoricamente possibile che altri uomini (più complessa la situazione per le donne) raggiungano il risveglio e siano quindi alla pari del Buddha storico, tuttavia nei secoli intercorsi dalla fondazione del Buddhismo a oggi ciò non si è mai realizzato se non in gruppi carismatici (tipo la Soka Gakkai), che hanno di fatto sostituito il proprio capo carismatico al Buddha Śakyamuni.
martedì 27 marzo 2007
7.6 La polemica Franco-Steinkellner circa il Buddha come pramana
Osserviamo ora più in dettaglio i termini dell'opposizione fra fede nel Buddha e autonomia degli strumenti conoscitivi umani così come si configura nella scuola epistemologica buddhista.
Punto di partenza centrale è il maṅgala (verso iniziale di buon augurio) del Pramāṇasamuccaya di Dignāga che, come abbiamo visto nel cap. 7.4, funge da testo radice per la scuola epistemologica buddhista. Dignāga vi saluta il Buddha chiamandolo "pramāṇabhūta", ossia "che è come uno strumento conoscitivo", ovvero "che è divenuto uno strumento conoscitivo". L'attribuzione di un tale attributo a un uomo ha fatto molto discutere sia all'interno della scuola epistemologica buddhista, sia fra gli studiosi contemporanei. David Seyfort Ruegg (si vedano i punti 6 e 7 della bibliografia) spiega che il termine pramāṇabhūta è diffusissimo in India. Lo si trova già nel Mahābhāṣya di Patañjali (un'opera grammaticale di fondamentale importanza e grandissima diffusione, databile intorno al II secolo a. Ch.) ed è frequente anche nella letteratura non buddhista, sempre in relazione a un ācārya (maestro) di grande valore. Come già accennato, bhūta al termine del composto può essere tradotto "divenuto" (il Buddha, che è divenuto uno strumento conoscitivo, nel senso che è divenuto tale nel corso della sua vita, in opposizione al presunto Dio venerato da Naiyāyika etc., che è perfetto fin dall'inizio), o "come" (Il Buddha, che è come uno strumento conoscitivo). Ovviamente la prima soluzione sarà preferita da chi è disposto ad ammettere che la Parola del Buddha ha un valore fondante, mentre la seconda è prediletta da chi sostiene che il verso di Dignāga non vuole riconoscere valore autonomo alla Parola del Buddha, bensì sostenere che il Buddha ha detto cose giuste e quindi è "come" uno strumento conoscitivo (pur non essendo letteralmente tale).
La prima ipotesi interpretativa è stata presentata per la prima volta nella storia degli studi sulla scuola epistemologica buddhista da Tillman Vetter nel suo pionieristico Erkenntnisprobleme bei Dharmakirti e ha il suo campione attuale in Ernst Steinkellner (punti 8 e 5 della bibliografia). L'assunto di fondo di Steinkellner è che non abbia senso parlare di pensatori indipendenti da un'autorità nel contesto dell'India classica e medievale. Al di là quindi della singola interpretazione di passi controversi, Steinkellner afferma che la Parola del Buddha delinei l'universo di riferimento per i pensatori buddhisti, che non la mettono in dubbio, bensì partono da questa per ulteriori speculazioni. La fede nel Buddha fa sì che si creda nella validità di quanto egli ha visto per yogipratyakṣa (intuizione intellettuale). Questa fonda perciò l'autorità del suo insegnamento. Anzi, in senso lato l'autorità del Buddha fonda l'intera conoscenza, giacché non esistono conferme dirette della validità di quanto conosciamo tramite percezione sensibile etc., al di fuori della stessa Parola del Buddha. Invece, il fatto che il Buddha si basi su percezione diretta e inferenza nel proprio argomentare mostra ai suoi successori che questi sono strumenti legittimi.
Eli Franco (punti 3 e 5 della bibliografia), al contrario, sostiene che processo logico e processo apologetico possano e debbano essere distinti e che l'attributo "pramāṇabhūta" rientri nel secondo. Dignāga non avrebbe cioè inteso dire che filosoficamente il Buddhismo riconosce come strumento di conoscenza la Parola del Buddha. L'autorità del Buddha deriva invece dal fatto che se ne è saggiato l'insegnamento. Rispetto all'altro corno della controversia, ossia la conferma di percezione diretta etc., Franco ritiene che l'assunto di Steinkellner renda il processo di acquisizione di conoscenza inutilmente complicato. Secondo Franco, infatti, Steinkellner sosterrebbe che il fatto che io abbia davanti ai miei occhi un foglio bianco possa essere giustificato solo per il tramite dell'autorità del Buddha (che fonda la validità delle conoscenze ottenute tramite percezione diretta). È invece molto più intuitivo sostenere che sia la stessa percezione diretta a fondare la validità delle informazioni che fornisce. E il fatto che il Buddha si sia servito di percezione diretta e inferenza non le fonda (come sostiene Steinkellner), bensì al contrario mostra come tale insegnamento sia alla portata degli strumenti conoscitivi umani.
La distinzione fra piano logico e piano apologetico operata da Franco mi sembra però presentare almeno un problema, ossia come collocare le discussioni circa l'onniscienza del Buddha? Relegarle sul piano apologetico sembra inadeguato giacché esse sono condotte con rigore di argomenti e proposte ai propri oppositori come tesi filosoficamente sostenibili. Forse Franco risponderebbe che si tratta di tesi argomentate filosoficamente e che quindi vanno valutate sul piano filosofico (anche se magari concludendo che sono errate).
Secondo le parole di I. durante un intervento in questo corso, il Dharmakīrti di Steinkellner è più mīmāṃsaka, nel senso che riconosce l'autorità del Buddha come un dato a priori, su cui sia inutile discutere, mentre il Dharmakīrti di Franco è espicitamente naiyāyika, nel senso che sostiene che l'insegnamento del Buddha vada messo alla prova.
Punto di partenza centrale è il maṅgala (verso iniziale di buon augurio) del Pramāṇasamuccaya di Dignāga che, come abbiamo visto nel cap. 7.4, funge da testo radice per la scuola epistemologica buddhista. Dignāga vi saluta il Buddha chiamandolo "pramāṇabhūta", ossia "che è come uno strumento conoscitivo", ovvero "che è divenuto uno strumento conoscitivo". L'attribuzione di un tale attributo a un uomo ha fatto molto discutere sia all'interno della scuola epistemologica buddhista, sia fra gli studiosi contemporanei. David Seyfort Ruegg (si vedano i punti 6 e 7 della bibliografia) spiega che il termine pramāṇabhūta è diffusissimo in India. Lo si trova già nel Mahābhāṣya di Patañjali (un'opera grammaticale di fondamentale importanza e grandissima diffusione, databile intorno al II secolo a. Ch.) ed è frequente anche nella letteratura non buddhista, sempre in relazione a un ācārya (maestro) di grande valore. Come già accennato, bhūta al termine del composto può essere tradotto "divenuto" (il Buddha, che è divenuto uno strumento conoscitivo, nel senso che è divenuto tale nel corso della sua vita, in opposizione al presunto Dio venerato da Naiyāyika etc., che è perfetto fin dall'inizio), o "come" (Il Buddha, che è come uno strumento conoscitivo). Ovviamente la prima soluzione sarà preferita da chi è disposto ad ammettere che la Parola del Buddha ha un valore fondante, mentre la seconda è prediletta da chi sostiene che il verso di Dignāga non vuole riconoscere valore autonomo alla Parola del Buddha, bensì sostenere che il Buddha ha detto cose giuste e quindi è "come" uno strumento conoscitivo (pur non essendo letteralmente tale).
La prima ipotesi interpretativa è stata presentata per la prima volta nella storia degli studi sulla scuola epistemologica buddhista da Tillman Vetter nel suo pionieristico Erkenntnisprobleme bei Dharmakirti e ha il suo campione attuale in Ernst Steinkellner (punti 8 e 5 della bibliografia). L'assunto di fondo di Steinkellner è che non abbia senso parlare di pensatori indipendenti da un'autorità nel contesto dell'India classica e medievale. Al di là quindi della singola interpretazione di passi controversi, Steinkellner afferma che la Parola del Buddha delinei l'universo di riferimento per i pensatori buddhisti, che non la mettono in dubbio, bensì partono da questa per ulteriori speculazioni. La fede nel Buddha fa sì che si creda nella validità di quanto egli ha visto per yogipratyakṣa (intuizione intellettuale). Questa fonda perciò l'autorità del suo insegnamento. Anzi, in senso lato l'autorità del Buddha fonda l'intera conoscenza, giacché non esistono conferme dirette della validità di quanto conosciamo tramite percezione sensibile etc., al di fuori della stessa Parola del Buddha. Invece, il fatto che il Buddha si basi su percezione diretta e inferenza nel proprio argomentare mostra ai suoi successori che questi sono strumenti legittimi.
Eli Franco (punti 3 e 5 della bibliografia), al contrario, sostiene che processo logico e processo apologetico possano e debbano essere distinti e che l'attributo "pramāṇabhūta" rientri nel secondo. Dignāga non avrebbe cioè inteso dire che filosoficamente il Buddhismo riconosce come strumento di conoscenza la Parola del Buddha. L'autorità del Buddha deriva invece dal fatto che se ne è saggiato l'insegnamento. Rispetto all'altro corno della controversia, ossia la conferma di percezione diretta etc., Franco ritiene che l'assunto di Steinkellner renda il processo di acquisizione di conoscenza inutilmente complicato. Secondo Franco, infatti, Steinkellner sosterrebbe che il fatto che io abbia davanti ai miei occhi un foglio bianco possa essere giustificato solo per il tramite dell'autorità del Buddha (che fonda la validità delle conoscenze ottenute tramite percezione diretta). È invece molto più intuitivo sostenere che sia la stessa percezione diretta a fondare la validità delle informazioni che fornisce. E il fatto che il Buddha si sia servito di percezione diretta e inferenza non le fonda (come sostiene Steinkellner), bensì al contrario mostra come tale insegnamento sia alla portata degli strumenti conoscitivi umani.
La distinzione fra piano logico e piano apologetico operata da Franco mi sembra però presentare almeno un problema, ossia come collocare le discussioni circa l'onniscienza del Buddha? Relegarle sul piano apologetico sembra inadeguato giacché esse sono condotte con rigore di argomenti e proposte ai propri oppositori come tesi filosoficamente sostenibili. Forse Franco risponderebbe che si tratta di tesi argomentate filosoficamente e che quindi vanno valutate sul piano filosofico (anche se magari concludendo che sono errate).
Secondo le parole di I. durante un intervento in questo corso, il Dharmakīrti di Steinkellner è più mīmāṃsaka, nel senso che riconosce l'autorità del Buddha come un dato a priori, su cui sia inutile discutere, mentre il Dharmakīrti di Franco è espicitamente naiyāyika, nel senso che sostiene che l'insegnamento del Buddha vada messo alla prova.
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7.5 Il Buddha come āpta per la scuola epistemologica buddhista
Il problema epistemologico dell'affidabilità del Buddha è centrale nella scuola epistemologica buddhista fin dai suoi esordi (e dal celebre verso di Dignāga in cui si celebra il Buddha come pramāṇa). Ciò non ostante, si potrebbe sostenere che questo sia un esito non necessario del pensiero buddhista, giacché il Buddha storico mirava a mostrare una via pratica e non a costruire un sistema filosofico inattaccabile. Nel costruirlo, poi, si incorrerebbe nel rischio di ipotesi metafisiche, tipo l'onniscienza (indimostrabile) del Buddha, in tal modo contravvenendo all'attitudine non metafisica del Buddha. Infine, la calibrazione dei mezzi rispetto agli interlocutori, essenziale nel messaggio del Buddha, dovrebbe far passare in secondo piano ogni questione epistemologica circa il rapporto fra la Parola del Buddha e gli altri strumenti conoscitivi, allo scopo di concentrarsi invece sul contenuto (per esempio le quattro nobili verità), raggiunto non importa se attraverso l'una o gli altri. Rispondo a tali, sensate, obiezioni, affermando che chiedersi quali siano i presupposti epistemologici della via di salvezza proposta dal Buddha è un modo per prenderla sul serio (tant'è vero che è stato tentato proprio dagli autori buddhisti che hanno fondato la scuola epistemologica buddhista). Inoltre, in un celebre discorso il Buddha racconta l'apologo di un uomo che, colpito da una freccia, rifiuti di farsi curare dal medico perché vuol prima sapere chi abbia scoccato la freccia, come si chiami, quanti capelli abbia etc. Il Buddha indica così la necessità di applicare la via che insegna, invece di fermarsi a domande speculative, ma per potersi fidare di tale via, come di chi stia per togliere la freccia della sofferenza, bisogna anzi tutto fidarsi del suo essere un medico o un insegnante affidabile. Quindi, la questione dell'affidabilità del Buddha è alla base della possibilità di intraprendere il cammino di salvezza buddhista. E questo comunque si consideri di risolvere il rapporto fra fede nel Buddha e verifica pratica dei suoi insegnamenti. D'altronde, lo stesso ascoltare i discorsi del Buddha implica il riconoscergli un'autorità, seppur provvisoria (ed è veramente solo un'autorità provvisoria?).
Poiché per la scuola epistemologica buddhista la conoscenza comunicata tramite Parola è un caso di inferenza sulla base dell'affidabiltà del suo autore, i criteri per definire l'affidabilità sono assai importanti. La scuola epistemologica buddhista sembra desumerli dal Nyāya, come appare da uno studio ravvicinato del caso del Buddha (si veda il testo di Franco citato al punto 3 della bibliografia). Anch'egli è infatti portatore di autorità epistemica e si configura come āpta fin dagli esordi della scuola epistemologica buddhista, nei testi di Dignāga. Il Buddha ha infatti raggiunto l'onniscienza in seguito all'illuminazione ed è quindi esperto, inoltre è mosso da compassione per gli esseri senzienti ed è quindi veritiero e desideroso di comunicare. Le critiche più serrate contro questa interpretazione del Buddha come āpta arrivano dai mīmāṃsaka (che possono così criticare insieme agli avversari buddhisti anche i paradigmi naiyāyika di cui si servono).
I Buddhisti sostengono che il Buddha sia un parlante affidabile (anche) quanto parla di dharma perché ćon l'illuminazione ha raggiunto l'onniscienza. Ma i mīmāṃsaka hanno gioco facile nel cercare di spingere all'angolo i buddhisti chiedendo loro come sia possibile per un essere finito raggiungere l'onniscienza. Rispondono i buddhisti che non si tratta di un'onniscienza assoluta e generica, bensì relativa a un ambito, per cui il Buddha sa tutto ciò che è necessario e funzionale alla liberazione (il Buddha non sa quanti moscerini ci siano al mondo, scrive Dharmakīrti –il maggior commentatore di Dignāga– in PV 2.31). Osserva in tal senso P. Griffiths –nell'articolo citato al punto 11a della bibliografia– che l' "onniscienza" del Buddha non indica una "scientia" di ogni cosa, bensì una "consapevolezza totale". Io direi che si tratta del superamento delle illusioni legate a desideri e avversioni e quindi dell'acquisizione di una coscienza non offuscata. Ma, insistono i mīmāṃsaka, se anche il Buddha fosse stato onnisciente, come potremmo provarlo? Ci vorrebbe un altro onnisciente per poterne giudicare l'onniscienza. La replica buddhista è ancora una volta ispirata al Nyāya. Sappiamo che il Buddha è onnisciente e che è un parlante esperto e affidabile perché abbiamo potuto verificare la porzione del suo insegnamento riguardante ambiti esperibili. Dunque, ne inferiamo la sua autorevolezza e dalla sua autorevolezza inferiamo la validità del suo insegnamento anche negli altri ambiti. Un esempio di questi altri ambiti, inattingibili in base alle sole facoltà umane, è la legge della retribuzione karmika, i cui meccanismi sono noti solo per il tramite delle affermazioni del Buddha.
Circa l'uso del linguaggio, i mīmāṃsaka chiedono come possa il Buddha continuare a usare un medium che presuppone la distinzione fra soggetto e oggetti non ostante abbia superato tale illusorio (secondo i buddhisti) livello di esperienza. Ricordo in proposito che la Parola come strumento conoscitivo è eminentemente verbale, per cui non è possibile immaginare vie d'uscita alternative all'uso del linguaggio, come sarebbe quella di un Buddha che abbia ispirato i testi che gli sono attribuiti, pur senza pronunciarli direttamente. Anzi, a ipotetiche (le definisco così perché non le ho mai trovate rappresentate in testi buddhisti, ma solo nelle ricostruzione che delle posizioni buddhiste fanno i loro avversari) soluzioni di tale tipo Kumārila risponde che si tratta di affermazioni prive di ogni verisimiglianza, "da credenti ciechi". Ma anche in questo caso, i Buddhisti replicano che non si può presupporre che il parlare del Buddha abbia alla base le erronee presupposizioni di un Io e di un Altro. Egli parla per compassione e non è confuso dal mezzo linguistico.
I mīmāṃsaka chiedono poi come possa essere "desideroso di comunicare" un essere che si presuppone non abbia più desideri poiché ha raggiunto l'illuminazione. Risponde Dharmakīrti che è la compassione e non un egoistico desiderio quello che muove il Buddha a parlare e non c'è perciò contrasto fra il comunicare e l'aver abbandonato ogni desiderio. Su questo punto si concentrano le critiche degli oppositori mīmāṃsaka, i quali negano la possibilità di un livello sovrumano di compassione. Essi contestano infatti la stessa possibilità che un essere umano giunga a un livello di onniscienza e compassione sovrumani. Queste qualità, come tutte le altre, a partire dall'abilità nel salto in alto, possono essere aumentate, ma non fino a travalicare i confini dell'esperienza umana (non sarà mai possibile saltare fin sulla luna). Replicano i buddhisti che non è possibile escludere elementi alaukika (trascendenti), quali la compassione di un essere illuminato o la sua onniscienza, sulla base di sillogismi etc. basati sull'esperienza ordinaria (laukika). L'argomento è cogente, ma mi pare potrebbe essere applicato specularmente ai buddhisti, che pure non possono dimostrare elementi che non si danno nell'esperienza ordinaria, tipo l'illuminazione del Buddha, la sua onniscienza, la sua compassione etc. Di questi si potrebbe quindi al più dire che sono coerentemente inseriti in un sistema e non che sono dimostrati come validi. In effetti lo stesso Dharmakīrti sembra conscio di questa possibile obiezione, giacché afferma che "Non c'è possibilità di accertare né l'esistenza né l'inesistenza di oggetti assolutamente al di là dell'esperienza umana". Una volta contestate le obiezioni mīmāṃsaka, dunque, l'onere di dimostrare l'autorità del Buddha si sposta sulla dimostrazione di come la compassione possa perfezionarsi indefinitamente, fino a generare l'illuminazione.
Per quanto riguarda il rapporto fra Parola come strumento epistemico e intuizione intellettuale (cfr il capitolo "Conclusioni"), il Buddha, raggiunta l'illuminazione, ha superato i limiti usuali della natura umana e ha potuto così percepire tramite intuizione intellettuale (yogipratyakṣa) anche l'ambito trascendente (alaukika). La validità delle sue affermazioni deriva perciò dall'intuizione intellettuale su cui sono fondate.
Resta ancora un dubbio sul rapporto fra conoscenza acquisita tramite la Parola del Buddha e conoscenza riguardante gli stessi ambiti acquisita grazie alle facoltà umane. La seconda è solo intesa come una verifica a posteriori, che quindi legittima quanto acquisito tramite la Parola come strumento epistemico ma che non potrebbe giungervi indipendentemente da questa, o le facoltà umane possono giungere alle stesse conclusioni indipendentemente dalla Parola del Buddha? E inoltre, che cosa legittima le conclusioni cui pervengono percezione e inferenza? Non è infatti ovvio che gli strumenti conoscitivi siano affidabili (potrebbero per esempio essere deviati da un demonio, come paventa Cartesio, o da uno scienziato pazzo, come ipotizzato da Putnam). L'esempio normalmente preso in esame è quello delle quattro nobili verità. Possono essere solo giustificate, o anche fondate dal pensiero umano? In altre parole, le quattro verità possono essere spiegate e difese dal pensiero umano, ma non fondate e nihilo, o è possibile pervenire autonomamente a queste , come se il Buddha non fosse mai esistito? Nel primo caso, ci sarebbe una sorta di circolarità, perché gli strumenti conoscitivi umani permettono di inferire che il Buddha è un parlante affidabile (e che quindi può essere creduto anche quando parla di retribuzione karmica etc.), ma la legittimità dell'applicazione degli strumenti conoscitivi sarebbe garantita dalla Parola del Buddha, e l'applicazione di tali strumenti sarebbe guidata dalle conclusioni cui si è giunti grazie alla sua Parola. È la posizione che sostengono, fra gli studiosi contemporanei, Tillmann Vetter, Steinkellner (n. 8 e 5 della bibliografia), Richard Hayes e Jackson (n.4). Vi si oppongono fra gli altri Franco (n.3 e 5) e Tillemans (n. 9 e 10), secondo i quali la scuola epistemologica buddhista sostiene di poter dimostare indipendentemente quanto raggiunto tramite la Parola del Buddha. Le quattro nobili verità sarebbero cioè dimostrate da Dharmakīrti per sillogismo. Cosa resterebbe allora alla Parola del Buddha? Alcuni ambiti inaccessibili all'uomo, ma irrilevanti per la salvezza, come la già ricordata legge di retribuzione karmica.
Si noti che secondo la prima interpretazione (quella di Vetter, Steinkellner etc.) il Buddha avrebbe l'essenziale funzione della rivelazione vedica per il Nyāya (o del Veda stesso per la Mīmāṃsā), secondo la seconda interpretazione (quella di Franco etc.), invece, il ruolo delle affermazioni del Buddha tenderebbe a somigliare a quello dela Parola come strumento conoscitivo nel Sāṅkhya. In altre parole, come nel Sāṅkhya, la Parola come strumento conoscitivo avrebbe un ristretto ambito esclusivo, anche se poi l'autorità del fondatore (Kapila o il Buddha) verrebbe ciò non ostante invocata riguardo l'intero sistema.
Poiché per la scuola epistemologica buddhista la conoscenza comunicata tramite Parola è un caso di inferenza sulla base dell'affidabiltà del suo autore, i criteri per definire l'affidabilità sono assai importanti. La scuola epistemologica buddhista sembra desumerli dal Nyāya, come appare da uno studio ravvicinato del caso del Buddha (si veda il testo di Franco citato al punto 3 della bibliografia). Anch'egli è infatti portatore di autorità epistemica e si configura come āpta fin dagli esordi della scuola epistemologica buddhista, nei testi di Dignāga. Il Buddha ha infatti raggiunto l'onniscienza in seguito all'illuminazione ed è quindi esperto, inoltre è mosso da compassione per gli esseri senzienti ed è quindi veritiero e desideroso di comunicare. Le critiche più serrate contro questa interpretazione del Buddha come āpta arrivano dai mīmāṃsaka (che possono così criticare insieme agli avversari buddhisti anche i paradigmi naiyāyika di cui si servono).
I Buddhisti sostengono che il Buddha sia un parlante affidabile (anche) quanto parla di dharma perché ćon l'illuminazione ha raggiunto l'onniscienza. Ma i mīmāṃsaka hanno gioco facile nel cercare di spingere all'angolo i buddhisti chiedendo loro come sia possibile per un essere finito raggiungere l'onniscienza. Rispondono i buddhisti che non si tratta di un'onniscienza assoluta e generica, bensì relativa a un ambito, per cui il Buddha sa tutto ciò che è necessario e funzionale alla liberazione (il Buddha non sa quanti moscerini ci siano al mondo, scrive Dharmakīrti –il maggior commentatore di Dignāga– in PV 2.31). Osserva in tal senso P. Griffiths –nell'articolo citato al punto 11a della bibliografia– che l' "onniscienza" del Buddha non indica una "scientia" di ogni cosa, bensì una "consapevolezza totale". Io direi che si tratta del superamento delle illusioni legate a desideri e avversioni e quindi dell'acquisizione di una coscienza non offuscata. Ma, insistono i mīmāṃsaka, se anche il Buddha fosse stato onnisciente, come potremmo provarlo? Ci vorrebbe un altro onnisciente per poterne giudicare l'onniscienza. La replica buddhista è ancora una volta ispirata al Nyāya. Sappiamo che il Buddha è onnisciente e che è un parlante esperto e affidabile perché abbiamo potuto verificare la porzione del suo insegnamento riguardante ambiti esperibili. Dunque, ne inferiamo la sua autorevolezza e dalla sua autorevolezza inferiamo la validità del suo insegnamento anche negli altri ambiti. Un esempio di questi altri ambiti, inattingibili in base alle sole facoltà umane, è la legge della retribuzione karmika, i cui meccanismi sono noti solo per il tramite delle affermazioni del Buddha.
Circa l'uso del linguaggio, i mīmāṃsaka chiedono come possa il Buddha continuare a usare un medium che presuppone la distinzione fra soggetto e oggetti non ostante abbia superato tale illusorio (secondo i buddhisti) livello di esperienza. Ricordo in proposito che la Parola come strumento conoscitivo è eminentemente verbale, per cui non è possibile immaginare vie d'uscita alternative all'uso del linguaggio, come sarebbe quella di un Buddha che abbia ispirato i testi che gli sono attribuiti, pur senza pronunciarli direttamente. Anzi, a ipotetiche (le definisco così perché non le ho mai trovate rappresentate in testi buddhisti, ma solo nelle ricostruzione che delle posizioni buddhiste fanno i loro avversari) soluzioni di tale tipo Kumārila risponde che si tratta di affermazioni prive di ogni verisimiglianza, "da credenti ciechi". Ma anche in questo caso, i Buddhisti replicano che non si può presupporre che il parlare del Buddha abbia alla base le erronee presupposizioni di un Io e di un Altro. Egli parla per compassione e non è confuso dal mezzo linguistico.
I mīmāṃsaka chiedono poi come possa essere "desideroso di comunicare" un essere che si presuppone non abbia più desideri poiché ha raggiunto l'illuminazione. Risponde Dharmakīrti che è la compassione e non un egoistico desiderio quello che muove il Buddha a parlare e non c'è perciò contrasto fra il comunicare e l'aver abbandonato ogni desiderio. Su questo punto si concentrano le critiche degli oppositori mīmāṃsaka, i quali negano la possibilità di un livello sovrumano di compassione. Essi contestano infatti la stessa possibilità che un essere umano giunga a un livello di onniscienza e compassione sovrumani. Queste qualità, come tutte le altre, a partire dall'abilità nel salto in alto, possono essere aumentate, ma non fino a travalicare i confini dell'esperienza umana (non sarà mai possibile saltare fin sulla luna). Replicano i buddhisti che non è possibile escludere elementi alaukika (trascendenti), quali la compassione di un essere illuminato o la sua onniscienza, sulla base di sillogismi etc. basati sull'esperienza ordinaria (laukika). L'argomento è cogente, ma mi pare potrebbe essere applicato specularmente ai buddhisti, che pure non possono dimostrare elementi che non si danno nell'esperienza ordinaria, tipo l'illuminazione del Buddha, la sua onniscienza, la sua compassione etc. Di questi si potrebbe quindi al più dire che sono coerentemente inseriti in un sistema e non che sono dimostrati come validi. In effetti lo stesso Dharmakīrti sembra conscio di questa possibile obiezione, giacché afferma che "Non c'è possibilità di accertare né l'esistenza né l'inesistenza di oggetti assolutamente al di là dell'esperienza umana". Una volta contestate le obiezioni mīmāṃsaka, dunque, l'onere di dimostrare l'autorità del Buddha si sposta sulla dimostrazione di come la compassione possa perfezionarsi indefinitamente, fino a generare l'illuminazione.
Per quanto riguarda il rapporto fra Parola come strumento epistemico e intuizione intellettuale (cfr il capitolo "Conclusioni"), il Buddha, raggiunta l'illuminazione, ha superato i limiti usuali della natura umana e ha potuto così percepire tramite intuizione intellettuale (yogipratyakṣa) anche l'ambito trascendente (alaukika). La validità delle sue affermazioni deriva perciò dall'intuizione intellettuale su cui sono fondate.
Resta ancora un dubbio sul rapporto fra conoscenza acquisita tramite la Parola del Buddha e conoscenza riguardante gli stessi ambiti acquisita grazie alle facoltà umane. La seconda è solo intesa come una verifica a posteriori, che quindi legittima quanto acquisito tramite la Parola come strumento epistemico ma che non potrebbe giungervi indipendentemente da questa, o le facoltà umane possono giungere alle stesse conclusioni indipendentemente dalla Parola del Buddha? E inoltre, che cosa legittima le conclusioni cui pervengono percezione e inferenza? Non è infatti ovvio che gli strumenti conoscitivi siano affidabili (potrebbero per esempio essere deviati da un demonio, come paventa Cartesio, o da uno scienziato pazzo, come ipotizzato da Putnam). L'esempio normalmente preso in esame è quello delle quattro nobili verità. Possono essere solo giustificate, o anche fondate dal pensiero umano? In altre parole, le quattro verità possono essere spiegate e difese dal pensiero umano, ma non fondate e nihilo, o è possibile pervenire autonomamente a queste , come se il Buddha non fosse mai esistito? Nel primo caso, ci sarebbe una sorta di circolarità, perché gli strumenti conoscitivi umani permettono di inferire che il Buddha è un parlante affidabile (e che quindi può essere creduto anche quando parla di retribuzione karmica etc.), ma la legittimità dell'applicazione degli strumenti conoscitivi sarebbe garantita dalla Parola del Buddha, e l'applicazione di tali strumenti sarebbe guidata dalle conclusioni cui si è giunti grazie alla sua Parola. È la posizione che sostengono, fra gli studiosi contemporanei, Tillmann Vetter, Steinkellner (n. 8 e 5 della bibliografia), Richard Hayes e Jackson (n.4). Vi si oppongono fra gli altri Franco (n.3 e 5) e Tillemans (n. 9 e 10), secondo i quali la scuola epistemologica buddhista sostiene di poter dimostare indipendentemente quanto raggiunto tramite la Parola del Buddha. Le quattro nobili verità sarebbero cioè dimostrate da Dharmakīrti per sillogismo. Cosa resterebbe allora alla Parola del Buddha? Alcuni ambiti inaccessibili all'uomo, ma irrilevanti per la salvezza, come la già ricordata legge di retribuzione karmica.
Si noti che secondo la prima interpretazione (quella di Vetter, Steinkellner etc.) il Buddha avrebbe l'essenziale funzione della rivelazione vedica per il Nyāya (o del Veda stesso per la Mīmāṃsā), secondo la seconda interpretazione (quella di Franco etc.), invece, il ruolo delle affermazioni del Buddha tenderebbe a somigliare a quello dela Parola come strumento conoscitivo nel Sāṅkhya. In altre parole, come nel Sāṅkhya, la Parola come strumento conoscitivo avrebbe un ristretto ambito esclusivo, anche se poi l'autorità del fondatore (Kapila o il Buddha) verrebbe ciò non ostante invocata riguardo l'intero sistema.
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domenica 25 marzo 2007
7.4 La Parola come inferenza per la scuola epistemologica buddhista
Dignāga, il fondatore della scuola epistemologica buddhista, riconduce la Parola come strumento conoscitivo all'inferenza. Alla base di questo atteggiamento, come vedremo, sta una concezione del linguaggio radicalmente convenzionalista e uno scetticismo nei confronti della capacità di pensiero e linguaggio di rispecchiare la realtà. Vi è poi un elemento esterno, legato alla polemica fra scuole filosofiche, ossia la contrapposizione fra autorità del Veda e antidogmatismo buddhista. Elementi del genere non possono svolgere una funzione determinante rispetto al pensiero di un filosofo, specie di nel caso di un pensiero complesso e sistematico come quello di Dharmakīrti e Dignāga, possono però almeno in parte spiegare i motivi per cui una certa tesi è stata vista con più o meno favore. È infatti ipotizzabile che i Buddhisti desiderassero distinguersi dall'atteggiamento dell'ortodossia brahmanica (identificabile con le posizioni di Nyāya e Mīmāṃsā, seppur in modo diverso) nei confronti del Veda. È con orgoglio che i buddhisti ricordano come il Buddha stesso abbia invitato i suoi discepoli a vagliare le sue parole, come si fa con l'oro. E nel Canone del Buddhismo antico ricorrono espressioni circa la strumentalità delle parole del Buddha, cui non ci si deve affezionare come se fossero di per sé importanti. Il Buddha le descrive come "una zattera", che serve solo per superare l'oceano della trasmigrazione e di cui si può fare a meno una volta questo sia stato superato. Successivamente, come nel caso del Sāṅkhya (per cui si veda il cap. 4.2), la Parola del Buddha tende a valere come parametro autorevole di riferimento per ogni dottrina (il complesso rapporto fra l'autorevolezza del Buddha e la verificabilità di quanto da lui affermato sarà esaminato nel prossimo capitolo). Tuttavia, rimane nel Buddhismo una corrente di consapevolezza della propria differenza rispetto al principio dell'autorità del Veda sancito nel mondo brahmanico. È la corrente che impregnerà di sé molte riletture successive del Buddhismo, da certi aspetti dello zen al Buddhismo contemporaneo e al suo porsi come interlocutore antidogmatico per il mondo della scienza occidentale.
Dopo questo inciso, torno alla concezione di Dignāga circa il rapporto fra vocabolo e oggetto significato. Costante nel pensiero buddhista è l'idea di una distanza fra realtà e linguaggio. La prima fluisce, mentre il secondo segmenta il reale in maniera rigida, sovrapponendovi una propria griglia interpretativa. Il pensiero e il linguaggio (che da questo dipende), non corrispondono perciò alla realtà, bensì al nostro modo di vederla. Questa affermazione, presente già nei discorsi del Buddha, viene rielaborata in chiave concettuale dalla scuola epistemologica buddhista, la quale di sforza di colmare il silenzio del Buddha sugli aspetti teorici e filosofici del proprio cammino di salvezza. Sostiene perciò Dignāga che il linguaggio non colga l'oggetto (che nel suo fluire non potrebbe essere colto da una forma fissa) ed elabora una conseguente teoria linguistica che procede per negazione, la teoria di apoha. Ci si potrebbe infatti chiedere come mai il linguaggio, pur non cogliendo il reale, funzioni sul piano pratico (per cui se dico "porta l'acqua con la brocca" chi mi obbedisce riesce a portarmi quanto desidero). Secondo l'apoha, il linguaggio funziona come il radar di un pipistrello (la metafora è mia), ossia cogliendo i confini di ciò che l'oggetto non è, e non identificandolo come tale. Di fatto, il termine "mucca" non ci dice nulla circa un referente esterno, è solo una denominazione, che però funziona escludendo tutto quanto è altro dalla mucca. Anzi, dal punto di vista della scuola epistemologica buddhista non è nemmeno detto che esista alcunché al di fuori del linguaggio e del pensiero. Perciò i singoli vocaboli, come vedremo più avanti, non sono probans (come il fumo nel famoso esempio di inferenza) degli oggetti che designano, bensì dei (corrispondenti?) stati mentali del parlante, che costituiscono quindi rispettivamente il probandum e il locus del sillogismo, come fuoco e montagna. La Parola come strumento conoscitivo è quindi un tipo di conoscenza indiretta, un'inferenza. In quest'analisi, Dignāga si contrappone alla visione dei grammatici (come Kātyāyana, Patañjali, Bhartṛhari) e dei mīmāṃsaka. Secondo questi ultimi, non ha senso parlare di un oggetto indipendentemente dal suo essere designato da un vocabolo. Il vocabolo non può quindi essere una griglia esterna sovrapposta all'oggetto, perché l'oggetto non è dato precedentemente al suo essere designato. Non è ipotizzabile, sostengono i mīmāṃsaka, un momento precedente il linguaggio in cui gli uomini potessero conoscere tutti gli oggetti e non avessero però ancora "inventato" i vocaboli con cui definirli. Infatti, non è possibile stabilire una convenzione se non con frasi che la spieghino, né una volta stabilita la convenzione è possibile comunicarla ad altri se non parlando. Gli altri fautori della convenzionalità del linguaggio, i naiyāyika, evitano questo punto critico sostenendo che ciò che è impossibile per gli uomini è possibile per Dio e che Lui può ben aver ideato una convenzione linguistica imponendola agli uomini (forse tramite telepatia?) senza bisogno di ricorrere a vocaboli, giacché per Lui tutto è possibile (ovviamente i mīmāṃsaka rifiutano questa tesi come mera fantasticheria senza fondamento).
Vengo ora alla formalizzazione (per cui seguo Śāntarakṣita, Tattvasaṅgraha 1520-25) dell'inferenza a cui la scuola epistemologica buddhista sostiene di poter ridurre la Parola come strumento conoscitivo (si tratta del caso b cui già accennato nel cap.7).
Mantenendo in mente lo schema "sulla montagna c'è fuoco, perché c'è fumo, come in cucina", il locus dell'inferenza (la montagna dell'esempio) è il parlante. Il probandum (il fuoco) è l'intenzione del parlante e il probans (il fumo) che permette di inferirla è la frase che pronuncia. Ossia, dalla frase "la mucca è rossa" inferisco la presenza del concetto "la mucca è rossa" nella testa del parlante. Se poi si è potuto indipendentemente accertare che il parlante è affidabile, si può inferire che a tale cognizione corrisponderà un contenuto valido, ossia "la mucca è rossa". Ciò implica, come già accennato, che i vocaboli non si riferiscano direttamente a dei referenti esterni, bensì a degli stati mentali del parlante che li enuncia (come in Occidente hanno sostenuto Frege e Grice fra gli altri). Questa posizione è insostenibile per un mīmāṃsaka perché sul piano laukika (della nostra esperienza comune) depriva il linguaggio del suo ancoramento all'ambito dei referenti oggettivi. Sul piano alaukika, invece, essa di fatto toglie ogni autorità al Veda. Se infatti la Parola comunica conoscenza tramite un'inferenza basata sull'intenzione del suo autore, è evidente che un testo senza autore (anche ammesso che esista) non ha alcuna autorità. Esso sarebbe come le lettere che per caso i tarli possono tracciare nel legno. È possibile che i tarli nello scavare il legno compongano casualmente una lettera o persino una breve parola, ma in nessun caso si potrebbe dire che tali gallerie nel legno comunicano un significato linguistico.
Dopo questo inciso, torno alla concezione di Dignāga circa il rapporto fra vocabolo e oggetto significato. Costante nel pensiero buddhista è l'idea di una distanza fra realtà e linguaggio. La prima fluisce, mentre il secondo segmenta il reale in maniera rigida, sovrapponendovi una propria griglia interpretativa. Il pensiero e il linguaggio (che da questo dipende), non corrispondono perciò alla realtà, bensì al nostro modo di vederla. Questa affermazione, presente già nei discorsi del Buddha, viene rielaborata in chiave concettuale dalla scuola epistemologica buddhista, la quale di sforza di colmare il silenzio del Buddha sugli aspetti teorici e filosofici del proprio cammino di salvezza. Sostiene perciò Dignāga che il linguaggio non colga l'oggetto (che nel suo fluire non potrebbe essere colto da una forma fissa) ed elabora una conseguente teoria linguistica che procede per negazione, la teoria di apoha. Ci si potrebbe infatti chiedere come mai il linguaggio, pur non cogliendo il reale, funzioni sul piano pratico (per cui se dico "porta l'acqua con la brocca" chi mi obbedisce riesce a portarmi quanto desidero). Secondo l'apoha, il linguaggio funziona come il radar di un pipistrello (la metafora è mia), ossia cogliendo i confini di ciò che l'oggetto non è, e non identificandolo come tale. Di fatto, il termine "mucca" non ci dice nulla circa un referente esterno, è solo una denominazione, che però funziona escludendo tutto quanto è altro dalla mucca. Anzi, dal punto di vista della scuola epistemologica buddhista non è nemmeno detto che esista alcunché al di fuori del linguaggio e del pensiero. Perciò i singoli vocaboli, come vedremo più avanti, non sono probans (come il fumo nel famoso esempio di inferenza) degli oggetti che designano, bensì dei (corrispondenti?) stati mentali del parlante, che costituiscono quindi rispettivamente il probandum e il locus del sillogismo, come fuoco e montagna. La Parola come strumento conoscitivo è quindi un tipo di conoscenza indiretta, un'inferenza. In quest'analisi, Dignāga si contrappone alla visione dei grammatici (come Kātyāyana, Patañjali, Bhartṛhari) e dei mīmāṃsaka. Secondo questi ultimi, non ha senso parlare di un oggetto indipendentemente dal suo essere designato da un vocabolo. Il vocabolo non può quindi essere una griglia esterna sovrapposta all'oggetto, perché l'oggetto non è dato precedentemente al suo essere designato. Non è ipotizzabile, sostengono i mīmāṃsaka, un momento precedente il linguaggio in cui gli uomini potessero conoscere tutti gli oggetti e non avessero però ancora "inventato" i vocaboli con cui definirli. Infatti, non è possibile stabilire una convenzione se non con frasi che la spieghino, né una volta stabilita la convenzione è possibile comunicarla ad altri se non parlando. Gli altri fautori della convenzionalità del linguaggio, i naiyāyika, evitano questo punto critico sostenendo che ciò che è impossibile per gli uomini è possibile per Dio e che Lui può ben aver ideato una convenzione linguistica imponendola agli uomini (forse tramite telepatia?) senza bisogno di ricorrere a vocaboli, giacché per Lui tutto è possibile (ovviamente i mīmāṃsaka rifiutano questa tesi come mera fantasticheria senza fondamento).
Vengo ora alla formalizzazione (per cui seguo Śāntarakṣita, Tattvasaṅgraha 1520-25) dell'inferenza a cui la scuola epistemologica buddhista sostiene di poter ridurre la Parola come strumento conoscitivo (si tratta del caso b cui già accennato nel cap.7).
Mantenendo in mente lo schema "sulla montagna c'è fuoco, perché c'è fumo, come in cucina", il locus dell'inferenza (la montagna dell'esempio) è il parlante. Il probandum (il fuoco) è l'intenzione del parlante e il probans (il fumo) che permette di inferirla è la frase che pronuncia. Ossia, dalla frase "la mucca è rossa" inferisco la presenza del concetto "la mucca è rossa" nella testa del parlante. Se poi si è potuto indipendentemente accertare che il parlante è affidabile, si può inferire che a tale cognizione corrisponderà un contenuto valido, ossia "la mucca è rossa". Ciò implica, come già accennato, che i vocaboli non si riferiscano direttamente a dei referenti esterni, bensì a degli stati mentali del parlante che li enuncia (come in Occidente hanno sostenuto Frege e Grice fra gli altri). Questa posizione è insostenibile per un mīmāṃsaka perché sul piano laukika (della nostra esperienza comune) depriva il linguaggio del suo ancoramento all'ambito dei referenti oggettivi. Sul piano alaukika, invece, essa di fatto toglie ogni autorità al Veda. Se infatti la Parola comunica conoscenza tramite un'inferenza basata sull'intenzione del suo autore, è evidente che un testo senza autore (anche ammesso che esista) non ha alcuna autorità. Esso sarebbe come le lettere che per caso i tarli possono tracciare nel legno. È possibile che i tarli nello scavare il legno compongano casualmente una lettera o persino una breve parola, ma in nessun caso si potrebbe dire che tali gallerie nel legno comunicano un significato linguistico.
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sabato 24 marzo 2007
7.3 Il Vaisesika e il Veda
Nel VS, la posizione circa il Veda riunisce elementi di tipo mīmāṃsaka e naiyāyika. Difatti, alcuni studiosi (per es. Dasgupta nella sua celebre Storia della Filosofia Indiana) hanno ipotizzato che il Vaiśeṣika abbia avuto origine da una scuola mīmāṃsaka.
Nell'aforisma 1.1.3 il Veda è detto essere autorevole in quanto esprime il dharma (come nell'aforisma 1.1.5 del Mīmāṃsāsūtra). In seguito, il sesto libro del VS è dedicato al dharma e mostra un approccio di tipo mīmāṃsaka, nel senso che fa dipendere il dharma dalle prescrizioni vediche. Tuttavia, nel primo aforisma di questo libro il Veda è detto presupporre un'intelligenza [che lo abbia composto], come per il Nyāya. Nei primi commenti al VS (in particolare a VS 2.1.18), gli autori del Veda sono detti essere i ṛṣi. Più avanti, si parlerà invece di Dio come autore del Veda.
Come già accennato, infatti, il Vaiśeṣika è inizialmente ateo, ma Dio vi viene successivamente (VIII-IX secolo, come per il Nyāya) introdotto come risposta a una mutata temperie culturale e perché permette di risolvere alcuni impasse evidenziati dagli avversari (Johannes Bronkhorst nel suo intervento in Rationality in Asia, 2001, ha espresso la tesi per cui l'introduzione di Dio nel sistema sia funzionale alla retribuzione karmica, che per funzionare secondo giustizia ha bisogno di un garante, ma è possibile che anche le obiezioni circa l'autorità del Veda abbiano avuto un ruolo in tale introduzione). Solo a questo punto della storia del Vaiśeṣika il Veda viene attribuito a Dio.
In che senso il Veda può avere autorità, se la Parola come strumento conoscitivo non è che inferenza? Come già più volte ricordato, il fatto che la Parola come strumento conoscitivo sia ricondotta all'inferenza non significa che questa non abbia valore conoscitivo. Significa solo che non ha un valore conoscitivo distinto. Da un certo punto in poi, la validità del Veda sarà inferita in base al suo essere opera di un autore esperto e affidabile, ossia Dio, un po' come per il Nyāya. I primi testi vaiśeṣiḳa, come abbiamo visto nell'interpretazione a) del cap. 7, sostengono invece che si possa inferire un determinato contenuto conoscitivo a partire dalla forma linguistica che esso ha nel Veda. Il linguaggio vedico sarebbe cioè di per sé significante, indipendentemente dall'autorità conferitagli dall'esterno da un autore. Si noti che in tal senso l'autorità del Veda sembra essere scontata, e anche questo avvicina il Vaiśeṣika alla Mīmāṃsā. Differenzia comunque le due scuole l'assunto mīmāṃsaka che il potere naturalmente significante del linguaggio è intatto nel caso del Veda, dove non ci sono interferenze umane, mentre può venir interrotto nella comunicazione ordinaria.
Nell'aforisma 1.1.3 il Veda è detto essere autorevole in quanto esprime il dharma (come nell'aforisma 1.1.5 del Mīmāṃsāsūtra). In seguito, il sesto libro del VS è dedicato al dharma e mostra un approccio di tipo mīmāṃsaka, nel senso che fa dipendere il dharma dalle prescrizioni vediche. Tuttavia, nel primo aforisma di questo libro il Veda è detto presupporre un'intelligenza [che lo abbia composto], come per il Nyāya. Nei primi commenti al VS (in particolare a VS 2.1.18), gli autori del Veda sono detti essere i ṛṣi. Più avanti, si parlerà invece di Dio come autore del Veda.
Come già accennato, infatti, il Vaiśeṣika è inizialmente ateo, ma Dio vi viene successivamente (VIII-IX secolo, come per il Nyāya) introdotto come risposta a una mutata temperie culturale e perché permette di risolvere alcuni impasse evidenziati dagli avversari (Johannes Bronkhorst nel suo intervento in Rationality in Asia, 2001, ha espresso la tesi per cui l'introduzione di Dio nel sistema sia funzionale alla retribuzione karmica, che per funzionare secondo giustizia ha bisogno di un garante, ma è possibile che anche le obiezioni circa l'autorità del Veda abbiano avuto un ruolo in tale introduzione). Solo a questo punto della storia del Vaiśeṣika il Veda viene attribuito a Dio.
In che senso il Veda può avere autorità, se la Parola come strumento conoscitivo non è che inferenza? Come già più volte ricordato, il fatto che la Parola come strumento conoscitivo sia ricondotta all'inferenza non significa che questa non abbia valore conoscitivo. Significa solo che non ha un valore conoscitivo distinto. Da un certo punto in poi, la validità del Veda sarà inferita in base al suo essere opera di un autore esperto e affidabile, ossia Dio, un po' come per il Nyāya. I primi testi vaiśeṣiḳa, come abbiamo visto nell'interpretazione a) del cap. 7, sostengono invece che si possa inferire un determinato contenuto conoscitivo a partire dalla forma linguistica che esso ha nel Veda. Il linguaggio vedico sarebbe cioè di per sé significante, indipendentemente dall'autorità conferitagli dall'esterno da un autore. Si noti che in tal senso l'autorità del Veda sembra essere scontata, e anche questo avvicina il Vaiśeṣika alla Mīmāṃsā. Differenzia comunque le due scuole l'assunto mīmāṃsaka che il potere naturalmente significante del linguaggio è intatto nel caso del Veda, dove non ci sono interferenze umane, mentre può venir interrotto nella comunicazione ordinaria.
7.2 La Parola come inferenza nel Vaisesika
Il testo radice del Vaiśeṣika, il Vaiśeṣikasūtra (VS), presenta gravi problemi testuali e appare in molti punti assai oscuro. Tanto più perché il primo commento al testo radice (che in tutte le altre scuole è una glossa puntuale al testo) non è in questo caso un commento ai singoli aforismi, bensì ai temi in questi trattati. Gli aforismi non vi sono perciò analizzati parola per parola e quindi il commento non risolve molti dei punti oscuri. In generale, poi, la posizione del VS circa la Parola come strumento conoscitivo è frastagliata e composita, come l'intero VS.
Nel nono libro del VS si analizzano i mezzi per acquisire conoscenza. Discutendo della percezione, vi si ammette l'intuizione intellettuale (yogipratyakṣa). Successivamente, l'aforisma 9.2.3 spiega che la Parola come strumento conoscitivo è una sorta di inferenza. Non vi è, spiegano i commenti, alcun tipo di conoscenza specificamente legata alla Parola. Questa è solo un caso di inferenza per cui udendo "c'è una mucca" si inferisce l'oggetto mucca dotato della qualità "esistenza". Si noti che i commenti (sto seguendo in particolare la Vivṛti di Jayanārāyaṇa o Jāyarāma, del XIX secolo) specificano che l'inferenza avviene sulla base di frasi e non di singoli vocaboli e che ne risulta la conoscenza di un oggetto e di alcune qualità specifiche. L'argomento in favore del ricondurre la Parola come strumento epistemico all'inferenza sta nel fatto che entrambe si basano su una relazione (quella fra vocabolo e significato in un caso, quella fra probans e probandum nell'altro). Ma al di là di tale somiglianza, com'è possibile formalizzare tale tipo di inferenza? In prima istanza, sembrerebbe di poter dire che i vocaboli sono il probans (come il fumo dell'esempio) che permette di pervenire al probandum (il fuoco dell'esempio). Ma allora quale sarebbe il locus (la montagna)? Vācaspati (un poligrafo del X secolo?) suggerisce che i vocaboli sono il probans, i significati dei singoli vocaboli il locus e il significato della frase come insieme il probandum. Ma il locus (come la montagna) dovrebbe essere già certo prima del processo inferenziale ed è difficile in tal senso che i significati dei singoli vocaboli possano ricoprire tale funzione. Si potrebbe (ma questa è solo una mia ipotesi( immaginare che il probans sia la frase, per esempio "la mucca è rossa", il probandum la qualità di essere rossa e il locus la sostanza mucca in cui tale qualità inerisce. Questo è possibile perché secondo Nyāya e Vaiśeṣika il significato di una frase è una sostanza unita a delle qualificazioni. In quest'ottica, "la mucca cammina" è reinterpretato come "mucca+qualità di essere camminante", mentre "porta la mucca!" equivale a "tu+qualità di dover essere portante la mucca". Ovviamente, tale analisi sarebbe più difficilmente applicabile nel caso di teorie del linguaggio diverse (la Prābhākara Mīmāṃsā sostiene per esempio che il significato della frase è ciò che deve essere realizzato, e in genere l'azione ha un ruolo centrale per la Mīmāṃsā).
L'analisi ora riportata rientra nel caso a) descritto nel cap. 7, ossia la Parola come strumento conoscitivo viene ricondotta a un'inferenza in cui il probans è la frase. Tale procedimento viene però abbandonato anche in seno al Vaiśeṣika per via delle tante obiezioni cui non riesce a rispondere. Alcuni autori Vaiśeṣika successivi, perciò, utilizzano il metodo escogitato dalla scuola epistemologica buddhista per ridurre la Parola come strumento conoscitivo all'inferenza. Altri, invece, aderiscono alla posizione naiyāyika.
Nel nono libro del VS si analizzano i mezzi per acquisire conoscenza. Discutendo della percezione, vi si ammette l'intuizione intellettuale (yogipratyakṣa). Successivamente, l'aforisma 9.2.3 spiega che la Parola come strumento conoscitivo è una sorta di inferenza. Non vi è, spiegano i commenti, alcun tipo di conoscenza specificamente legata alla Parola. Questa è solo un caso di inferenza per cui udendo "c'è una mucca" si inferisce l'oggetto mucca dotato della qualità "esistenza". Si noti che i commenti (sto seguendo in particolare la Vivṛti di Jayanārāyaṇa o Jāyarāma, del XIX secolo) specificano che l'inferenza avviene sulla base di frasi e non di singoli vocaboli e che ne risulta la conoscenza di un oggetto e di alcune qualità specifiche. L'argomento in favore del ricondurre la Parola come strumento epistemico all'inferenza sta nel fatto che entrambe si basano su una relazione (quella fra vocabolo e significato in un caso, quella fra probans e probandum nell'altro). Ma al di là di tale somiglianza, com'è possibile formalizzare tale tipo di inferenza? In prima istanza, sembrerebbe di poter dire che i vocaboli sono il probans (come il fumo dell'esempio) che permette di pervenire al probandum (il fuoco dell'esempio). Ma allora quale sarebbe il locus (la montagna)? Vācaspati (un poligrafo del X secolo?) suggerisce che i vocaboli sono il probans, i significati dei singoli vocaboli il locus e il significato della frase come insieme il probandum. Ma il locus (come la montagna) dovrebbe essere già certo prima del processo inferenziale ed è difficile in tal senso che i significati dei singoli vocaboli possano ricoprire tale funzione. Si potrebbe (ma questa è solo una mia ipotesi( immaginare che il probans sia la frase, per esempio "la mucca è rossa", il probandum la qualità di essere rossa e il locus la sostanza mucca in cui tale qualità inerisce. Questo è possibile perché secondo Nyāya e Vaiśeṣika il significato di una frase è una sostanza unita a delle qualificazioni. In quest'ottica, "la mucca cammina" è reinterpretato come "mucca+qualità di essere camminante", mentre "porta la mucca!" equivale a "tu+qualità di dover essere portante la mucca". Ovviamente, tale analisi sarebbe più difficilmente applicabile nel caso di teorie del linguaggio diverse (la Prābhākara Mīmāṃsā sostiene per esempio che il significato della frase è ciò che deve essere realizzato, e in genere l'azione ha un ruolo centrale per la Mīmāṃsā).
L'analisi ora riportata rientra nel caso a) descritto nel cap. 7, ossia la Parola come strumento conoscitivo viene ricondotta a un'inferenza in cui il probans è la frase. Tale procedimento viene però abbandonato anche in seno al Vaiśeṣika per via delle tante obiezioni cui non riesce a rispondere. Alcuni autori Vaiśeṣika successivi, perciò, utilizzano il metodo escogitato dalla scuola epistemologica buddhista per ridurre la Parola come strumento conoscitivo all'inferenza. Altri, invece, aderiscono alla posizione naiyāyika.
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martedì 20 marzo 2007
7.1 la Parola come inferenza nella Prabhakara Mimamsa
Secondo i Prābhākaramīmāṃsaka il naturale rapporto di significazione (in proposito si veda il cap. 7.5) per cui ogni frase indica il proprio significato viene interrotto nel caso delle comunicazioni umane. In tali casi, infatti, è sempre possibile che gli esseri umani introducano una distorsione in tale naturale rapporto. Dunque, nell'udire una frase in cui l'autore non abbia interferito, ossia una frase vedica, l'ascoltatore comprende direttamente il suo significato. Al contrario, nell'udire una frase pronunciata da un autore umano il giudizio rimane sospeso finché non si sia accertata l'affidabilità dell'autore. Questa viene accertata, come per Nyāya e scuola epistemologica buddhista, sulla base di precedenti casi in cui l'autore si sia rivelato attendibile. Dopo di che, dalla frase si inferisce ciò che l'ha prodotta, una cognizione nella mente del suo autore. Si inferisce poi che tale cognizione abbia un contenuto (che equivale al significato della frase), come ogni altra cognizione. A questo punto, la naturale capacità di significazione della frase, che era rimasta bloccata dal dubbio circa l'affidabilità del suo autore, si sblocca. La frase comunica il proprio significato. Ma questo significato è lo stesso che era già stato inferito come contenuto della cognizione del suo autore. Dunque, il contenuto comunicato dalla frase non è che una ripetizione di qualcosa di già noto. Ma secondo la Mīmāṃsā uno strumento conoscitivo, per essere tale, deve comunicare qualcosa di nuovo. Quindi, le affermazioni umane non sono uno strumento conoscitivo autonomo. L'elemento nuovo può essere sia un oggetto non esperito prima (per esempio un fuoco nel caso della percezione diretta), sia una relazione non accertata (per esempio lil fuoco sull'altro lato della montagna qualificato dal fumo che vedo, nel caso dell'inferenza). Ma nel caso della comunicazione umana né l'oggetto di cui si parla né le circostanze che lo accompagnano sono nuove. In altre parole, l'essere rossa della mucca (in "la mucca è rossa") era già stato appreso dal parlante tramite percezione diretta e il fatto che tale qualità fosse oggetto di una comunicazione era già stato inferito nel passaggio immediatamente precedente alla significazione da parte della frase. Non resta quindi nulla di nuovo nel contenuto che la frase esprime.
Riassumendo le fasi del procedimento inferenziale:
1) Viene udita una frase pronunciata da un uomo.
2) L'ascoltatore si chiede se l'autore abbia contezza di ciò che dice.
3) La naturale capacità della frase di significare il proprio contenuto è interrotta dal dubbio.
4) "L'autore è affidabile, perché comincia a parlare solo dopo aver conosciuto il referente di cui vuole trattare e non pronuncia mai frasi che non abbiano un referente".
5) "La frase pronunciata dall'autore è un prodotto di una sua cognizione mentale, perché è una frase, come una mia frase".
6) "La cognizione mentale di questo autore deve avere un contenuto perché è una cognizione, come una mia cognizione".
7) La naturale capacità della frase di significare il proprio contenuto non è più impedita, essa comunica il proprio significato.
8) Il significato comunicato della frase è la ripetizione del contenuto della cognizione inferito al punto 6.
Nel proporre questo schema ho seguito un testo relativamente tardo, il III capitolo del Tantrarahasya di Rāmānujācārya. Il procedimento sembra molto simile a come è descritto nella scuola epistemologica buddhista (si veda il cap. 7.4), se non che questa nega l'idea di una naturale capacità significante del linguaggio. Non mi è ancora chiaro, però, in che misura la Prābhākara Mīmāṃsā sia stata influenzata dalle descrizioni buddhiste o viceversa.
Riassumendo le fasi del procedimento inferenziale:
1) Viene udita una frase pronunciata da un uomo.
2) L'ascoltatore si chiede se l'autore abbia contezza di ciò che dice.
3) La naturale capacità della frase di significare il proprio contenuto è interrotta dal dubbio.
4) "L'autore è affidabile, perché comincia a parlare solo dopo aver conosciuto il referente di cui vuole trattare e non pronuncia mai frasi che non abbiano un referente".
5) "La frase pronunciata dall'autore è un prodotto di una sua cognizione mentale, perché è una frase, come una mia frase".
6) "La cognizione mentale di questo autore deve avere un contenuto perché è una cognizione, come una mia cognizione".
7) La naturale capacità della frase di significare il proprio contenuto non è più impedita, essa comunica il proprio significato.
8) Il significato comunicato della frase è la ripetizione del contenuto della cognizione inferito al punto 6.
Nel proporre questo schema ho seguito un testo relativamente tardo, il III capitolo del Tantrarahasya di Rāmānujācārya. Il procedimento sembra molto simile a come è descritto nella scuola epistemologica buddhista (si veda il cap. 7.4), se non che questa nega l'idea di una naturale capacità significante del linguaggio. Non mi è ancora chiaro, però, in che misura la Prābhākara Mīmāṃsā sia stata influenzata dalle descrizioni buddhiste o viceversa.
mercoledì 14 marzo 2007
7. La Parola come inferenza
Vaiśeṣika e scuola epistemologica buddhista, pur ammettendo che è tramite la Parola che acquisiamo molte conoscenze su temi inattingibili dalla percezione diretta, la considerano un caso di inferenza. A sua volta, la Prābhākara Mīmāṃsā, coerentemente con l'assunto mīmāṃsaka per cui uno strumento conoscitivo, per essere tale, deve comunicare qualcosa di nuovo, considera la Parola (vedica) uno strumento conoscitivo autonomo solo in ambito deontico, mentre riconduce ogni comunicazione umana a un caso di inferenza.
La Parola come strumento conoscitivo può essere ricondotta all'inferenza in due modi.
a) Un parlante dice "la mucca è rossa". L'ascoltatore inferisce da tali parole che l'oggetto mucca è connesso con il colore rosso come sua qualità.
Questa descrizione (presente solo nel VS e nel suo primo commento) incontra però le critiche naiyāyika e mīmāṃsaka descritte nel cap. 3.5 ("Il Nyāya sulla differenza fra inferenza e Parola come strumento conoscitivo"), circa la non invariabile concomitanza fra vocabolo e significato; l'immediatezza della conoscenza derivata da Parola come strumento conoscitivo (in contrasto con la mediatezza della conoscenza inferenziale); e la presenza di un terzo elemento, ossia l'affidabilità del parlante, nel caso della Parola come strumento conoscitivo.
b) Un parlante dice "la mucca è rossa". L'ascoltatore inferisce che la mucca è rossa perché il parlante è affidabile, attraverso il passaggio intermedio della cognizione corrisponente che viene inferita esistere nella mente del parlante.
Il contenuto conoscitivo di una comunicazione avvenuta tramite Parola sarebbe cioè in realtà inferito per il tramite dell'affidabilità del parlante/autore. Ossia, io conosco che x perché così ritiene Y, il quale è una fonte affidabile. Questa analisi ha il vantaggio di render conto dei casi di comprensione senza accettazione. Sembra infatti possibile comprendere una frase pur senza prestar fede al suo contenuto, il che mostrerebbe che la conoscenza che deriva da Parola come strumento conoscitivo è di tipo indiretto, inferenziale. In altre parole, nell'udire "la mucca è rossa" un ascoltatore dapprima inferisce che il parlante ritiene che la mucca sia rossa, indi valuta l'affidabilità del parlante e, se questi è in effetti esperto e affidabile, inferisce da ciò che quanto ha detto deve essere valido e, finalmente, conosce che "la mucca è rossa". Tale processo è solitamente tanto rapido da passare inosservato, ma diventa evidente nei casi in cui a dire che "la mucca è rossa" sia un parlate inaffidabile, per esempio un daltonico. In tale caso l'ascoltatore coglie il significato, ma non conosce che "la mucca è rossa" perché non può inferire tale conoscenza valida sulla base dell'affidabilità del parlante.
Come si vede, questa descrizione si fonda sulla distinzione fra uno stato preliminare di comprensione e uno successivo di conoscenza. Sostengono invece i sostenitori della Parola come strumento conoscitivo autonomo che tale distinzione non ha senso. In altre parole, chi sostiene che la Parola sia un distinto strumento epistemico afferma che l'udire che x sia tutt'uno con il conoscere che x e che quello della conoscenza tramite Parola non sia un processo a due fasi (comprensione e poi conoscenza). La normalità è che all'udire "la mucca è rossa" noi conosciamo che la mucca è rossa, mentre il caso in cui si abbia comprensione senza accettazione è un caso particolare. Solo in tale caso noi ritiriamo la fiducia concessa da subito alla frase "la mucca è rossa" perché notiamo che il parlante è daltonico. Un simile ritiro del consenso non crea problemi alla Mīmāṃsā, per cui è sempre possibile falsificare la conoscenza in un momento successivo. Va però sottolineato che la Mīmāṃsā può solo immaginare di considerare una certa proposizione (poniamo "la mucca è rossa") vera e poi in seguito falsa qualora si scopra che il parlante è daltonico. In accordo alla Mīmāṃsā non è invece spiegabile (ammesso che esista) lo stato di comprensione di una frase mantenendo sospeso il giudizio. Tale attitudine mentale può essere spiegata solo intendendo la Parola come strumento conoscitivo un caso di inferenza per cui qualora il parlante non sia stato accertato come affidabile il giudizio rimane sospeso, non avviene il processo inferenziale e non si acquisisce nuova conoscenza.
Per quanto attiene in generale alla valutazione di queste due inferenze, in entrambi i casi il sillogismo è ulteriormente complicato dalla presenza di un quarto elemento (oltre a probans, probandum e locus), ossia l'affidabilità del parlante. Ciò rende poco plausibile il tentativo di formalizzare la Parola come strumento conoscitivo all'interno della struttura del sillogismo indiano.
La Parola come strumento conoscitivo può essere ricondotta all'inferenza in due modi.
a) Un parlante dice "la mucca è rossa". L'ascoltatore inferisce da tali parole che l'oggetto mucca è connesso con il colore rosso come sua qualità.
Questa descrizione (presente solo nel VS e nel suo primo commento) incontra però le critiche naiyāyika e mīmāṃsaka descritte nel cap. 3.5 ("Il Nyāya sulla differenza fra inferenza e Parola come strumento conoscitivo"), circa la non invariabile concomitanza fra vocabolo e significato; l'immediatezza della conoscenza derivata da Parola come strumento conoscitivo (in contrasto con la mediatezza della conoscenza inferenziale); e la presenza di un terzo elemento, ossia l'affidabilità del parlante, nel caso della Parola come strumento conoscitivo.
b) Un parlante dice "la mucca è rossa". L'ascoltatore inferisce che la mucca è rossa perché il parlante è affidabile, attraverso il passaggio intermedio della cognizione corrisponente che viene inferita esistere nella mente del parlante.
Il contenuto conoscitivo di una comunicazione avvenuta tramite Parola sarebbe cioè in realtà inferito per il tramite dell'affidabilità del parlante/autore. Ossia, io conosco che x perché così ritiene Y, il quale è una fonte affidabile. Questa analisi ha il vantaggio di render conto dei casi di comprensione senza accettazione. Sembra infatti possibile comprendere una frase pur senza prestar fede al suo contenuto, il che mostrerebbe che la conoscenza che deriva da Parola come strumento conoscitivo è di tipo indiretto, inferenziale. In altre parole, nell'udire "la mucca è rossa" un ascoltatore dapprima inferisce che il parlante ritiene che la mucca sia rossa, indi valuta l'affidabilità del parlante e, se questi è in effetti esperto e affidabile, inferisce da ciò che quanto ha detto deve essere valido e, finalmente, conosce che "la mucca è rossa". Tale processo è solitamente tanto rapido da passare inosservato, ma diventa evidente nei casi in cui a dire che "la mucca è rossa" sia un parlate inaffidabile, per esempio un daltonico. In tale caso l'ascoltatore coglie il significato, ma non conosce che "la mucca è rossa" perché non può inferire tale conoscenza valida sulla base dell'affidabilità del parlante.
Come si vede, questa descrizione si fonda sulla distinzione fra uno stato preliminare di comprensione e uno successivo di conoscenza. Sostengono invece i sostenitori della Parola come strumento conoscitivo autonomo che tale distinzione non ha senso. In altre parole, chi sostiene che la Parola sia un distinto strumento epistemico afferma che l'udire che x sia tutt'uno con il conoscere che x e che quello della conoscenza tramite Parola non sia un processo a due fasi (comprensione e poi conoscenza). La normalità è che all'udire "la mucca è rossa" noi conosciamo che la mucca è rossa, mentre il caso in cui si abbia comprensione senza accettazione è un caso particolare. Solo in tale caso noi ritiriamo la fiducia concessa da subito alla frase "la mucca è rossa" perché notiamo che il parlante è daltonico. Un simile ritiro del consenso non crea problemi alla Mīmāṃsā, per cui è sempre possibile falsificare la conoscenza in un momento successivo. Va però sottolineato che la Mīmāṃsā può solo immaginare di considerare una certa proposizione (poniamo "la mucca è rossa") vera e poi in seguito falsa qualora si scopra che il parlante è daltonico. In accordo alla Mīmāṃsā non è invece spiegabile (ammesso che esista) lo stato di comprensione di una frase mantenendo sospeso il giudizio. Tale attitudine mentale può essere spiegata solo intendendo la Parola come strumento conoscitivo un caso di inferenza per cui qualora il parlante non sia stato accertato come affidabile il giudizio rimane sospeso, non avviene il processo inferenziale e non si acquisisce nuova conoscenza.
Per quanto attiene in generale alla valutazione di queste due inferenze, in entrambi i casi il sillogismo è ulteriormente complicato dalla presenza di un quarto elemento (oltre a probans, probandum e locus), ossia l'affidabilità del parlante. Ciò rende poco plausibile il tentativo di formalizzare la Parola come strumento conoscitivo all'interno della struttura del sillogismo indiano.
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6. La validita delle Scritture diverse dal Veda
(In questo capitolo come nei precedenti e successivi parlo di "validità" dei Testi Sacri e non di loro "verità". Questo perché la "verità" è una categoria metafisica, per valutare la quale occorre aver stabilito a priori un parametro di riferimento. Può parlare di verità la Chiesa Cattolica, giudicandola in riferimento ai propri dogmi. Può parlare di verità un logico, intendendola come il corrispondere alle leggi della logica. Nel nostro caso, invece, poiché i parametri di riferimento variano da scuola a scuola, dobbiamo necessariamente parlare di "validità", ossia della condizione per cui un determinato Testo Sacro è accettato come autorevole all'interno di una certa tradizione. In tale accezione, la "verità" pretende di avere carattere assoluto, la"validità" si limita a esprimere la coerenza di un elemento all'interno di un sistema.)
Il rango elevatissimo di cui godono i Veda nella cultura e società indiane ha fatto sì che spesso testi di varia natura (l'Ayurveda, Itihāsa e Purāṇa, il Mahābhārata, il Nāṭyaśāstra sono i primi a venirmi in mente) abbiano cercato di accreditarsi come "il quinto Veda", e in particolare testi sacri (ossia, testi riguardanti il trascendente, il dharma) abbiano tentato di venire considerati sullo stesso piano dei Veda o addirittura al di sopra di questi. Al di là delle circostanze storiche, sul piano teorico è interessante osservare che modalità abbiano assunto tali posizioni. Tanto più perché esse si ripetono simmetricamente anche all'interno del Buddhismo, dove periodicamente vengono "scoperti" nuovi testi che si pretende essere stati composti dal Buddha stesso, sebbene non facciano parte delle scuole del Buddhismo antico (Theravāda). In entrambi i casi, uno degli espedienti retorici più usati è quello della disuguaglianza dei destinatari del messaggio. L'India, si ricordi, è la società in cui l'armonia sociale è perseguita (lascio del tutto aperta la questione circa il successo o meno di tale perseguimento) attraverso la specializzazione di gruppi umani nei mestieri e nelle condizioni di vita loro più congeniali. L'idea di fondo è che gli uomini siano sostanzialmente disuguali e che quindi una coabitazione armonica è possibile sfruttando le loro diverse nature, come in un alveare ci sono operaie, guardiane e regine, o come in una repubblica platonica. Poiché dunque gli uomini sono diversi, diverse sono anche le modalità con cui far accettare loro uno stesso messaggio. Perciò, si sostiene, il Buddha ha pronunciato discorsi di tenore diverso, per questo Dio ha pronunciato i Veda e, per esempio, il Bhāgavatapurāṇa. Vi sarà già chiaro che queste posizioni possono essere sostenute solo dalle scuole (Nyāya, scuola epistemologica buddhista...) che sostengono che i Testi Sacri abbiano valore in quanto pronunciati da un autore esperto e affidabile. Sostiene per esempio Jayanta Bhaṭṭa che il dharma possa essere conosciuto tramite intuizione intellettuale. Dunque, chi lo abbia così conosciuto e sia un āpta potrà essere l'autore di testi affidabili, seppure diversi dal Veda.
Diversa è invece la posizione mīmāṃsaka. Ricordo che per la Mīmāṃsā il Veda gode di un'autorità incontrastata in ambito deontico (alaukika, trascendente, riguardante il dharma, in questo caso tutti questi termini sono sinonimi), il che sembrerebbe portare a escludere ogni altro testo da tale ambito. Tuttavia, la validità di altri testi diversi dal Veda (per esempio le "Leggi di Manu" o Manusmṛti) è un fatto comune in India. Si pone perciò il problema di giustificarlo. Secondo la Bhāṭṭa Mīmāṃsā, la validità dei testi non vedici ma che riguardano il dharma (ovviamente non si parla di testi di scuole teiste) proviene per inferenza da quella del Veda. Gli autori delle varie smṛti, cioè, le hanno composte a partire da testi vedici. Né potrebbe essere altrimenti, dal momento che il Veda è l'unico strumento conoscitivo che ci permetta di conoscere il dharma. Qualora non si rintracciasse il testo vedico da cui è stata tratta una qualche smṛti, ciò dipende dal fatto che essa compendia punti diversi del Veda, o dal fatto che il testo vedico da cui è direttamente tratta è andato perduto o non è stato ancora identificato. Mi permetto di soffermare l'attenzione dei lettori su questo punto, giacché si tratta di uno dei pochi casi in cui nella concezione mīmāṃsaka, solitamente aderente al dato e quindi al presente, fa irruzione la storia. Non per caso la Prābhākara Mīmāṃsā si mostra in questo più coerente con gli assunti generali della scuola e parla di due Veda, il Veda direttamente percepibile che si sostanzia nei testi vedici e il Veda "sempre inferibile" che, come corrente sotterranea si istanzia nelle varie smṛti. Di questo secondo Veda, i Prābhākara non cercano un'origine storica, limitandosi a descrivere la condizione attuale, l'unica che possiamo conoscere.
Ovviamente la spiegazione mīmāṃsaka prevede che vengano considerati validi solo i testi sacri che non contraddicono i Veda. Sono perciò escluse le Scritture buddhiste. La posizione naiyāyika, invece, è in maggiore difficoltà nel giustificare per il Veda il ruolo di parametro di riferimento. Comunque, anche per i naiyāyika le Scritture buddhiste sono inaccettabili in quanto cozzano con il Veda, mentre Jayanta Bhaṭṭa (solo in parte condizionato dalla sua stessa affiliazione religiosa) sostiene che le Scritture scivaite possano essere considerate valide giacché non contraddicono il Veda, bensì offrono cammini soteriologici opzionali (non obbligatori, come quelli descritti nel Veda) diversi.
Il rango elevatissimo di cui godono i Veda nella cultura e società indiane ha fatto sì che spesso testi di varia natura (l'Ayurveda, Itihāsa e Purāṇa, il Mahābhārata, il Nāṭyaśāstra sono i primi a venirmi in mente) abbiano cercato di accreditarsi come "il quinto Veda", e in particolare testi sacri (ossia, testi riguardanti il trascendente, il dharma) abbiano tentato di venire considerati sullo stesso piano dei Veda o addirittura al di sopra di questi. Al di là delle circostanze storiche, sul piano teorico è interessante osservare che modalità abbiano assunto tali posizioni. Tanto più perché esse si ripetono simmetricamente anche all'interno del Buddhismo, dove periodicamente vengono "scoperti" nuovi testi che si pretende essere stati composti dal Buddha stesso, sebbene non facciano parte delle scuole del Buddhismo antico (Theravāda). In entrambi i casi, uno degli espedienti retorici più usati è quello della disuguaglianza dei destinatari del messaggio. L'India, si ricordi, è la società in cui l'armonia sociale è perseguita (lascio del tutto aperta la questione circa il successo o meno di tale perseguimento) attraverso la specializzazione di gruppi umani nei mestieri e nelle condizioni di vita loro più congeniali. L'idea di fondo è che gli uomini siano sostanzialmente disuguali e che quindi una coabitazione armonica è possibile sfruttando le loro diverse nature, come in un alveare ci sono operaie, guardiane e regine, o come in una repubblica platonica. Poiché dunque gli uomini sono diversi, diverse sono anche le modalità con cui far accettare loro uno stesso messaggio. Perciò, si sostiene, il Buddha ha pronunciato discorsi di tenore diverso, per questo Dio ha pronunciato i Veda e, per esempio, il Bhāgavatapurāṇa. Vi sarà già chiaro che queste posizioni possono essere sostenute solo dalle scuole (Nyāya, scuola epistemologica buddhista...) che sostengono che i Testi Sacri abbiano valore in quanto pronunciati da un autore esperto e affidabile. Sostiene per esempio Jayanta Bhaṭṭa che il dharma possa essere conosciuto tramite intuizione intellettuale. Dunque, chi lo abbia così conosciuto e sia un āpta potrà essere l'autore di testi affidabili, seppure diversi dal Veda.
Diversa è invece la posizione mīmāṃsaka. Ricordo che per la Mīmāṃsā il Veda gode di un'autorità incontrastata in ambito deontico (alaukika, trascendente, riguardante il dharma, in questo caso tutti questi termini sono sinonimi), il che sembrerebbe portare a escludere ogni altro testo da tale ambito. Tuttavia, la validità di altri testi diversi dal Veda (per esempio le "Leggi di Manu" o Manusmṛti) è un fatto comune in India. Si pone perciò il problema di giustificarlo. Secondo la Bhāṭṭa Mīmāṃsā, la validità dei testi non vedici ma che riguardano il dharma (ovviamente non si parla di testi di scuole teiste) proviene per inferenza da quella del Veda. Gli autori delle varie smṛti, cioè, le hanno composte a partire da testi vedici. Né potrebbe essere altrimenti, dal momento che il Veda è l'unico strumento conoscitivo che ci permetta di conoscere il dharma. Qualora non si rintracciasse il testo vedico da cui è stata tratta una qualche smṛti, ciò dipende dal fatto che essa compendia punti diversi del Veda, o dal fatto che il testo vedico da cui è direttamente tratta è andato perduto o non è stato ancora identificato. Mi permetto di soffermare l'attenzione dei lettori su questo punto, giacché si tratta di uno dei pochi casi in cui nella concezione mīmāṃsaka, solitamente aderente al dato e quindi al presente, fa irruzione la storia. Non per caso la Prābhākara Mīmāṃsā si mostra in questo più coerente con gli assunti generali della scuola e parla di due Veda, il Veda direttamente percepibile che si sostanzia nei testi vedici e il Veda "sempre inferibile" che, come corrente sotterranea si istanzia nelle varie smṛti. Di questo secondo Veda, i Prābhākara non cercano un'origine storica, limitandosi a descrivere la condizione attuale, l'unica che possiamo conoscere.
Ovviamente la spiegazione mīmāṃsaka prevede che vengano considerati validi solo i testi sacri che non contraddicono i Veda. Sono perciò escluse le Scritture buddhiste. La posizione naiyāyika, invece, è in maggiore difficoltà nel giustificare per il Veda il ruolo di parametro di riferimento. Comunque, anche per i naiyāyika le Scritture buddhiste sono inaccettabili in quanto cozzano con il Veda, mentre Jayanta Bhaṭṭa (solo in parte condizionato dalla sua stessa affiliazione religiosa) sostiene che le Scritture scivaite possano essere considerate valide giacché non contraddicono il Veda, bensì offrono cammini soteriologici opzionali (non obbligatori, come quelli descritti nel Veda) diversi.
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5.6 Il Vedanta e la supremazia della Parola vedica
È difficile parlare in linee generali dell'amplia galassia del Vedānta, che spazia dal Vedānta monista di Śaṅkara a quello duale/non duale fino alla scuola radicalmente dualista di Madhva. Sarò perciò costretta a brutali semplificazioni, e sarò lieta di accogliere precisazioni circostanziate.
Anche il Vedānta, come la Pūrva Mīmāṃsā, ha al proprio centro una porzione del Veda, le Upaniṣad. Poiché in queste i passaggi all'indicativo prevalgono sulle prescrizioni, la teoria del linguaggio vedāntin si differenzia da quella prābhākaramīmāṃsaka nel considerare che una frase miri a comunicare un significato già stabilito (e non da realizzarsi). Ciò fa sì che l'interpretazione del Veda ne risulti spesso molto più dogmatica (absit iniuria verbis), come confermato anche dal rango privilegiato che esso assume nell'epistemologia vedāntin. Se infatti nella Mīmāṃsā la Parola Vedica era posta allo stesso livello della percezione sensibile, nel Vedānta (specie quello monista, o Advaita Vedānta) la svalutazione dell'esperienza ordinaria fa sì che la Parola Vedica resti l'unico strumento in grado di fornire conoscenza valida. Percezione diretta, inferenza etc. si muovono sul piano dell'illusoria esperienza ordinaria e sono quindi in ultima analisi basati su un'ignoranza di fondo (avidyā). Il Veda è invece la via che permette di superare l'ignoranza e l'illusione e raggiungere il brahman, l'assoluto. È però controverso, fin dal testo radice del Vedānta, il Brahmasūtra (BS), il rapporto fra Veda e brahman. Il BS esordisce infatti in modo comparabile al MS e al VS, enunciando il desiderio di conoscere il brahman. Afferma poi, al terzo aforisma, "tasya śāstrayonitvāt", che può essere interpretato sia come "poiché essa (la conoscenza del brahman) è originata dal Veda", sia come "poiché esso (il brahman) genera il Veda". Nel primo caso, il Veda si configura come l'unica via possibile per accedere al brahman. Nel secondo, il brahman è origine di tutto e quindi anche del Veda. Il Veda potrebbe allora essere al più una via privilegiata, ma non l'unica. I confini fra queste due ipotesi interpretative, entrambe presenti nell'opera dei pensatori dell'Advaita Vedānta, tendono a toccarsi poiché, di fatto, il Veda è l'unica via a disposizione di tutti. Alcuni autori alludono anzi al fatto che la conoscenza del brahman ottenuta indipendentemente dal Veda non possa che essere incompleta.
D'altronde, alcune scuole vedāntin si differenziano dalla Mīmāṃsā nell'ammettere la possibilità dell'esperienza diretta della realtà assoluta. Tale esperienza diretta è in effetti una sorta di yogipratyakṣa o intuizione intellettuale, in cui però sia superata l'illusoria distinzione fra facoltà cognitive, come pure fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto e che quindi sconfina al di fuori dell'esperienza epistemologica per divenire esperienza mistica.
Un ulteriore problema è dato dalla natura del Veda come via per il brahman. Sia che esso sia l'unica via possibile, sia che si configuri come una via possibile (ma di fatto l'unica accessibile a tutti), il Veda ha una funzione solo strumentale? Nel momento in cui si aprano gli occhi alla realtà assoluta, si dimentica il Veda, come sostiene non direttamente Śaṅkara, bensì il suo allievo Sureśvara, o il Veda è già identico al brahman? Il brahman può essere detto avere forma sonora?
Da tutt'altro punto di vista, sostenere che il Veda comunichi un significato già stabilito apre teoricamente la strada a un uso più intransigente delle Scritture come pietra di paragone rispetto a cui misurare l'ortodossia degli oppositori. Che ciò sia avvenuto solo in misura assai limitata deriva dalla particolare struttura non rigida e non gerarchica delle scuole religiose in India.
Anche il Vedānta, come la Pūrva Mīmāṃsā, ha al proprio centro una porzione del Veda, le Upaniṣad. Poiché in queste i passaggi all'indicativo prevalgono sulle prescrizioni, la teoria del linguaggio vedāntin si differenzia da quella prābhākaramīmāṃsaka nel considerare che una frase miri a comunicare un significato già stabilito (e non da realizzarsi). Ciò fa sì che l'interpretazione del Veda ne risulti spesso molto più dogmatica (absit iniuria verbis), come confermato anche dal rango privilegiato che esso assume nell'epistemologia vedāntin. Se infatti nella Mīmāṃsā la Parola Vedica era posta allo stesso livello della percezione sensibile, nel Vedānta (specie quello monista, o Advaita Vedānta) la svalutazione dell'esperienza ordinaria fa sì che la Parola Vedica resti l'unico strumento in grado di fornire conoscenza valida. Percezione diretta, inferenza etc. si muovono sul piano dell'illusoria esperienza ordinaria e sono quindi in ultima analisi basati su un'ignoranza di fondo (avidyā). Il Veda è invece la via che permette di superare l'ignoranza e l'illusione e raggiungere il brahman, l'assoluto. È però controverso, fin dal testo radice del Vedānta, il Brahmasūtra (BS), il rapporto fra Veda e brahman. Il BS esordisce infatti in modo comparabile al MS e al VS, enunciando il desiderio di conoscere il brahman. Afferma poi, al terzo aforisma, "tasya śāstrayonitvāt", che può essere interpretato sia come "poiché essa (la conoscenza del brahman) è originata dal Veda", sia come "poiché esso (il brahman) genera il Veda". Nel primo caso, il Veda si configura come l'unica via possibile per accedere al brahman. Nel secondo, il brahman è origine di tutto e quindi anche del Veda. Il Veda potrebbe allora essere al più una via privilegiata, ma non l'unica. I confini fra queste due ipotesi interpretative, entrambe presenti nell'opera dei pensatori dell'Advaita Vedānta, tendono a toccarsi poiché, di fatto, il Veda è l'unica via a disposizione di tutti. Alcuni autori alludono anzi al fatto che la conoscenza del brahman ottenuta indipendentemente dal Veda non possa che essere incompleta.
D'altronde, alcune scuole vedāntin si differenziano dalla Mīmāṃsā nell'ammettere la possibilità dell'esperienza diretta della realtà assoluta. Tale esperienza diretta è in effetti una sorta di yogipratyakṣa o intuizione intellettuale, in cui però sia superata l'illusoria distinzione fra facoltà cognitive, come pure fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto e che quindi sconfina al di fuori dell'esperienza epistemologica per divenire esperienza mistica.
Un ulteriore problema è dato dalla natura del Veda come via per il brahman. Sia che esso sia l'unica via possibile, sia che si configuri come una via possibile (ma di fatto l'unica accessibile a tutti), il Veda ha una funzione solo strumentale? Nel momento in cui si aprano gli occhi alla realtà assoluta, si dimentica il Veda, come sostiene non direttamente Śaṅkara, bensì il suo allievo Sureśvara, o il Veda è già identico al brahman? Il brahman può essere detto avere forma sonora?
Da tutt'altro punto di vista, sostenere che il Veda comunichi un significato già stabilito apre teoricamente la strada a un uso più intransigente delle Scritture come pietra di paragone rispetto a cui misurare l'ortodossia degli oppositori. Che ciò sia avvenuto solo in misura assai limitata deriva dalla particolare struttura non rigida e non gerarchica delle scuole religiose in India.
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5.5 La Mimamsa contro il Nyaya sulla Parola Vedica
Il naiyāyika Jayanta Bhaṭṭa capovolge le accuse normalmente rivolte al Nyāya sostenendo che proprio il Nyāya è il vero baluardo del Veda. In un certo senso ha ragione, giacché i naiyāyika, al contrario dei mīmāṃsaka, si preoccupano di trovare argomenti positivi a favore dell'autorità del Veda (uno di questi argomenti, l'unico presente fin dal NS, è stato qui esaminato nel cap. 3.4). Resta tuttavia il dubbio che i naiyāyika sentano l'esigenza di fondare l'autorevolezza del Veda proprio perché il loro sistema è più esterno al Veda rispetto alla Mīmāṃsā. Questa infatti nasce come esegesi vedica e interpreta poi il mondo ordinario alla luce delle categorie elaborate anzi tutto in riferimento al Veda. Al contrario il Nyāya nasce da esigenze mondane, soprattutto di regolamentazione delle contese dialettiche, e si avvicina al Veda successivamente. Tale atteggiamento è evidente quando si parla della Parola come strumento conoscitivo. Per il Nyāya, la Parola è uno strumento conoscitivo in quanto pronunciata da un autore affidabile. La definizione vale anche per il Veda, ma sembra elaborata anzi tutto per spiegare la Parola come strumento conoscitivo nel mondo dell'esperienza ordinaria. Al contrario, per la Mīmāṃsā la Parola come strumento conoscitivo è in prima istanza indipendente dal suo autore, e il caso di Parola come strumento conoscitivo in quanto pronunciata da un parlante esperto è accolto solo dalla Bhāṭṭa Mīmāṃsā come concessione al funzionamento dell'esperienza comune. Inoltre, la Parola come strumento conoscitivo coincide con il Veda. Per quanto riguarda la difesa del Veda, i mīmāṃsaka si limitano a mostrare le incongruenze dei ragionamenti delle altre scuole (soprattutto dei loro oppositori diretti, ossia buddhisti e naiyāyika). Una volta sgombrato il campo da quelle che agli occhi di un mīmāṃsaka sono fantasticherie metafisiche (postulare un Dio o un Buddha onnisciente...) e indimostrabili, resta solo ciò che fin dall'inizio era sotto gli occhi di tutti, il Veda. Che resta l'unica fonte cui attingere per conoscere il dharma.
Ogni argomento positivo in favore del Veda sembra invece per i mīmāṃsaka destinato a relativizzarne l'autorità. Abbiamo parlato di come far dipendere il Veda da Dio significhi di fatto sottoporlo alla Sua volontà e quindi renderlo sostituibile, addirittura accidentale. Ma più in generale ogni argomento elaborato da uomini in favore del Veda implica secondo la Mīmāṃsā che questo possa essere nella disponibilità del ragionamento umano. Dunque, esso potrebbe essere sostituibile da inferenze etc., mentre la strategia mīmāṃsaka per giustificarne (non "fondarne") l'autorità sta proprio nel mostrarne l'alterità rispetto agli strumenti conoscitivi umani. Non a caso, al contrario, il Nyāya ammette che il Veda abbia autorità anche epistemica e anche nell'ambito dell'esperienza comune (si veda il cap.3.4). La replica naiyāyika sarebbe (ma non l'ho mai incontrata in maniera esplicita) che il ragionamento umano serve a fondare l'autorità epistemica del Veda nell'ambito dell'esperienza ordinaria. Da qui si deduce l'autorità del Veda anche per il trascendente (che quindi non è direttamente fondato da inferenze umane). Ma è probabile che tale difesa parrebbe a un mīmāṃsaka un sotterfugio.
Ogni argomento positivo in favore del Veda sembra invece per i mīmāṃsaka destinato a relativizzarne l'autorità. Abbiamo parlato di come far dipendere il Veda da Dio significhi di fatto sottoporlo alla Sua volontà e quindi renderlo sostituibile, addirittura accidentale. Ma più in generale ogni argomento elaborato da uomini in favore del Veda implica secondo la Mīmāṃsā che questo possa essere nella disponibilità del ragionamento umano. Dunque, esso potrebbe essere sostituibile da inferenze etc., mentre la strategia mīmāṃsaka per giustificarne (non "fondarne") l'autorità sta proprio nel mostrarne l'alterità rispetto agli strumenti conoscitivi umani. Non a caso, al contrario, il Nyāya ammette che il Veda abbia autorità anche epistemica e anche nell'ambito dell'esperienza comune (si veda il cap.3.4). La replica naiyāyika sarebbe (ma non l'ho mai incontrata in maniera esplicita) che il ragionamento umano serve a fondare l'autorità epistemica del Veda nell'ambito dell'esperienza ordinaria. Da qui si deduce l'autorità del Veda anche per il trascendente (che quindi non è direttamente fondato da inferenze umane). Ma è probabile che tale difesa parrebbe a un mīmāṃsaka un sotterfugio.
5.5 La Parola come comunicazione ordinaria nella Mimamsa
Come accennato, la Prābhākara Mīmāṃsā concorda con Vaiśeṣika e scuola epistemologica buddhista nel ritenere che la comunicazione ordinaria abbia valore solo in quanto il suo autore è ritenuto affidabile e che questa sia perciò un caso di inferenza.
Al contrario, la Bhāṭṭa Mīmāṃsā ammette la Parola come strumento conoscitivo anche in ambito di esperienza ordinaria. Kumārila si mostra però alquanto scettico circa l'affidabilità degli uomini. Più interessante è quindi la posizione di Śabara che invece accetta fra gli āpta anche gli mleccha (stranieri, "barbari"). Anche questi, infatti, possono essere fonti affidabili di conoscenza negli ambiti di cui sono esperti (Śabara cita il caso dell'uccellagione). Purché quindi l'autorità del Veda resti incontrastata in ambito deontico, Śabara si mostra addirittura aperto (rispetto agli standard indiani) nell'accettare la comunicazione ordinaria come strumento conoscitivo.
Al contrario, la Bhāṭṭa Mīmāṃsā ammette la Parola come strumento conoscitivo anche in ambito di esperienza ordinaria. Kumārila si mostra però alquanto scettico circa l'affidabilità degli uomini. Più interessante è quindi la posizione di Śabara che invece accetta fra gli āpta anche gli mleccha (stranieri, "barbari"). Anche questi, infatti, possono essere fonti affidabili di conoscenza negli ambiti di cui sono esperti (Śabara cita il caso dell'uccellagione). Purché quindi l'autorità del Veda resti incontrastata in ambito deontico, Śabara si mostra addirittura aperto (rispetto agli standard indiani) nell'accettare la comunicazione ordinaria come strumento conoscitivo.
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5.4 La Parola Vedica e il diritto per la Mīmāṃsā
La risposta mīmāṃsaka a obiezioni del tipo presentato nel capitolo precedente sarebbe che i testi sacri non hanno nulla da dirci sul mondo e che quindi non è possibile dimostrare nulla a proposito dei testi sacri semplicemente osservando il mondo. Ma il rapporto fra Veda e dharma (o "ciò che deve essere posto in essere") è di tipo biunivoco. Non solo il Veda riguarda solo il dharma, ma il dharma è conoscibile solo tramite il Veda. Non sono quindi ipotizzabili rivelazioni successive, profeti, o altri messaggi celesti. Il Veda è l'unico strumento che ci permetta di conoscere ciò che dobbiamo fare.
A questo punto mi trovo a dover affrontare un tema assai complesso, ossa le intersezioni fra autorità vedica (di tipo deontico) e ambiti mondano e trascendente (rispettivamente, laukika e alaukika). In linea teorica, possiamo dire che i mīmāṃsaka colgono un punto essenziale, ossia che l'aspetto deontico di un contenuto conoscitivo non deriva direttamente da un contenuto epistemico. In altre parole, non c'è modo di passare senza soluzione di continuità logica dal discorso descrittivo a quello prescrittivo. Proviamo a considerare affermazioni del tipo "sparando al cuore di un uomo lo si uccide". Non ci sono operazioni logiche con cui se ne possa trarre che "non è lecito sparare al cuore". La prescrittività è un di più che dipende solo da un'autorità deontica. Nell'esperienza comune, pensiamo a due bambini che giocano. Uno prende il giocattolo di un altro e pretende di portarlo via con sé. L'altro bambino si mette a piangere, interviene il padre del piccolo "ladro" che gli spiega "Questo gioco non ti appartiene". Se il bambino è ancora piccolo e non ha ancora introiettato l'autorità deontica del padre, è probabile che risponderà "E allora?". Il fatto che il giocattolo sia di un altro ha immediatamente un significato di tipo deontico per noi, ma non per chi prende l'affermazione "Questo gioco non ti appartiene" per quello che vale, ossia come la descrizione di uno stato di fatto. La prescrittività aggiunge un qualcosa che non può essere desunto dall'osservazione del mondo, né dal ragionamento e può derivare, quindi, solo dalla Parola come strumento conoscitivo.
Che conseguenze ha tutto ciò nell'ambito del diritto ordinario? Il Veda è infatti insieme fonte della prescrittività e però relegato all'ambito trascendente del dharma. Le leggi terrene derivano dal Veda (inteso come il Veda sempre inferibile della Prābhākara Mīmāṃsā o come quello effettivamente inferito della Bhāṭṭa Mīmāṃsā, si veda il capitolo 6) il proprio elemento prescrittivo, mentre il restante contenuto ha varie fonti (fra cui il comportamento dei giusti e altre fonti del diritto riconosciute anche in Occidente).
È possibile immaginare (come è accaduto in ambito cristiano o islamico) che l'autorità politica si arroghi il diritto di punire chi non esegua i rituali e i sacrifici prescritti nel Veda? No, o almeno non da un punto di vista mīmāṃsaka. Il rapporto fra ciò che viene imposto dal Veda e chi deve eseguirne gli ordini è infatti un rapporto personalizzato. Il Veda non comanda a tutti le stesse cose. L'assunto indiano della disuguaglianza fra gli uomini fa sì che ovviamente carichi diversi siano imposti a uomini diversi (con carichi più pesanti alle così dette caste più alte). Anche quando di fatto l'ordine si rivolge a tutti, esso è subordinato a una condizione in cui ognuno deve sentirsi chiamato in causa come singolo. Si dirà allora "chi desidera la felicità, deve sacrificare con i sacrifici della luna piena e della luna nuova". Tutti desiderano la felicità (almeno tale è la convinzione indiana), ma l'ordine comunque non ha la forma "tutti sacrifichino". L'essere chiamato in causa dal comando vedico riguarda perciò il singolo in quanto soggetto morale e non tutti i cittadini e non può perciò essere sottoposto a controllo giudiziario. Infine, l'autorità del Veda per essere tale non ha bisogno che si obbedisca a ciò che essa impone. Essa rimane intatta anche in caso l'uomo disobbedisca, poiché anche disobbedire implica l'essere vincolati da un comando (non disobbedisce se non chi riconosce un comando e vuole opporvisi).
In tal senso la Parola vedica è prescrittiva e non imperativa. La differenza fra prescrizioni e imperativi è quella che intercorre fra "Porta la mucca!" e "Devi portare la mucca". Nel primo caso, qualora l'ascoltatore non compia l'azione richiesta, l'imperativo perde il proprio senso. L'azione descritta dall'imperativo non risponde a realtà, in un certo senso l'imperativo perde anche la propria funzione semantica se non è posto in essere. Nel secondo caso, invece, chi oda la prescrizione sarà comunque soggettivamente vincolato dal dover portare la mucca, indipendentemente da se poi effettivamente lo faccia o no. Pensiamo per esempio ai dieci comandamenti. Questi non perdono di validità anche se non vengono obbediti; secondo alcuni teologi, anzi, essi non possono essere obbediti e hanno senso proprio in quanto esortano l'uomo in una direzione che egli da solo non può raggiungere.
A questo punto mi trovo a dover affrontare un tema assai complesso, ossa le intersezioni fra autorità vedica (di tipo deontico) e ambiti mondano e trascendente (rispettivamente, laukika e alaukika). In linea teorica, possiamo dire che i mīmāṃsaka colgono un punto essenziale, ossia che l'aspetto deontico di un contenuto conoscitivo non deriva direttamente da un contenuto epistemico. In altre parole, non c'è modo di passare senza soluzione di continuità logica dal discorso descrittivo a quello prescrittivo. Proviamo a considerare affermazioni del tipo "sparando al cuore di un uomo lo si uccide". Non ci sono operazioni logiche con cui se ne possa trarre che "non è lecito sparare al cuore". La prescrittività è un di più che dipende solo da un'autorità deontica. Nell'esperienza comune, pensiamo a due bambini che giocano. Uno prende il giocattolo di un altro e pretende di portarlo via con sé. L'altro bambino si mette a piangere, interviene il padre del piccolo "ladro" che gli spiega "Questo gioco non ti appartiene". Se il bambino è ancora piccolo e non ha ancora introiettato l'autorità deontica del padre, è probabile che risponderà "E allora?". Il fatto che il giocattolo sia di un altro ha immediatamente un significato di tipo deontico per noi, ma non per chi prende l'affermazione "Questo gioco non ti appartiene" per quello che vale, ossia come la descrizione di uno stato di fatto. La prescrittività aggiunge un qualcosa che non può essere desunto dall'osservazione del mondo, né dal ragionamento e può derivare, quindi, solo dalla Parola come strumento conoscitivo.
Che conseguenze ha tutto ciò nell'ambito del diritto ordinario? Il Veda è infatti insieme fonte della prescrittività e però relegato all'ambito trascendente del dharma. Le leggi terrene derivano dal Veda (inteso come il Veda sempre inferibile della Prābhākara Mīmāṃsā o come quello effettivamente inferito della Bhāṭṭa Mīmāṃsā, si veda il capitolo 6) il proprio elemento prescrittivo, mentre il restante contenuto ha varie fonti (fra cui il comportamento dei giusti e altre fonti del diritto riconosciute anche in Occidente).
È possibile immaginare (come è accaduto in ambito cristiano o islamico) che l'autorità politica si arroghi il diritto di punire chi non esegua i rituali e i sacrifici prescritti nel Veda? No, o almeno non da un punto di vista mīmāṃsaka. Il rapporto fra ciò che viene imposto dal Veda e chi deve eseguirne gli ordini è infatti un rapporto personalizzato. Il Veda non comanda a tutti le stesse cose. L'assunto indiano della disuguaglianza fra gli uomini fa sì che ovviamente carichi diversi siano imposti a uomini diversi (con carichi più pesanti alle così dette caste più alte). Anche quando di fatto l'ordine si rivolge a tutti, esso è subordinato a una condizione in cui ognuno deve sentirsi chiamato in causa come singolo. Si dirà allora "chi desidera la felicità, deve sacrificare con i sacrifici della luna piena e della luna nuova". Tutti desiderano la felicità (almeno tale è la convinzione indiana), ma l'ordine comunque non ha la forma "tutti sacrifichino". L'essere chiamato in causa dal comando vedico riguarda perciò il singolo in quanto soggetto morale e non tutti i cittadini e non può perciò essere sottoposto a controllo giudiziario. Infine, l'autorità del Veda per essere tale non ha bisogno che si obbedisca a ciò che essa impone. Essa rimane intatta anche in caso l'uomo disobbedisca, poiché anche disobbedire implica l'essere vincolati da un comando (non disobbedisce se non chi riconosce un comando e vuole opporvisi).
In tal senso la Parola vedica è prescrittiva e non imperativa. La differenza fra prescrizioni e imperativi è quella che intercorre fra "Porta la mucca!" e "Devi portare la mucca". Nel primo caso, qualora l'ascoltatore non compia l'azione richiesta, l'imperativo perde il proprio senso. L'azione descritta dall'imperativo non risponde a realtà, in un certo senso l'imperativo perde anche la propria funzione semantica se non è posto in essere. Nel secondo caso, invece, chi oda la prescrizione sarà comunque soggettivamente vincolato dal dover portare la mucca, indipendentemente da se poi effettivamente lo faccia o no. Pensiamo per esempio ai dieci comandamenti. Questi non perdono di validità anche se non vengono obbediti; secondo alcuni teologi, anzi, essi non possono essere obbediti e hanno senso proprio in quanto esortano l'uomo in una direzione che egli da solo non può raggiungere.
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5.3 La lettura mīmāṃsaka dei Testi Sacri
In questo capitolo dedicherò un breve spazio a un tema cui ho accennato circa la Prābhākara Mīmāṃsā e che mi pare di estrema rilevanza politica prima ancora che filosofica. La Mīmāṃsā, come già detto, si sviluppa intorno al Veda e pone il Veda al centro della propria speculazione ermeneutica e filosofica in genere. Il Veda è per la Mīmāṃsā un a priori mai posto in discussione e indubitabile. Esso precede ogni discussione etica, nel senso che il dharma (definito come "ciò che deve essere fatto") è definito come il contenuto stesso del Veda e non esiste a prescindere da questo. Il Veda non è perciò "moralmente buono", nel senso che esso fonda il discorso morale e non vi si conforma. È una visione certamente dogmatica e assolutistica, che tuttavia prevede per il Veda un ambito di applicazione assai limitato. La Mīmāṃsā difende infatti il realismo diretto e il senso comune per tutto quel che riguarda il mondo, il saeculum. In questo ambito, essa è anzi ostile alle posizioni dogmatiche delle altre scuole e accusa per esempio i buddhisti di essere dei "credenti ciechi" quando parlano della possibilità che un essere umano raggiunga l'onniscienza. Nel mondo, i mīmāṃsaka si attengono alla massima per cui "da parte di noi mīmāṃsaka niente di non esperibile viene mai postulato" e negano perciò la possibilità di interruzioni delle leggi di natura, siano esse configurate come "miracoli" o come ipotesi di esiti e premesse diverse dall'attuale status quo. In ragione di ciò, la Mīmāṃsā rifiuta l'ipotesi di una creazione del mondo, di esseri dai poteri sovrumani, di un'estensione indefinita di qualità che nei fatti si danno solo in quantità finita, come la compassione, e così via. Roger Jackson (nell'articolo citato al punto 4 della bibliografia) nota come sia impossibile immaginare un discorso privo di presupposti e sostiene che quindi l'indipendenza conoscitiva di un discorso vada valutata in base a quanti meno presupposti esso abbia. Il caso della Mīmāṃsā mi suggerisce che si potrebbe invertire questo procedimento e sostenere che, dal momento che i presupposti sono inevitabili, è lecito valutare l'indipendenza conoscitiva di una tesi in base a quanto questa si mostri consapevole di tali presupposti e li sappia gestire. La Mīmāṃsā si sviluppa infatti come una scuola vivace (e anche ricca di punti di vista diversi) all'ombra dell'ingombrante presenza del Veda perché non cerca di sottrarsi alla sua paradossale insostituibilità in ambito deontico, limitandola però allo stesso tempo solo a tale ambito. La Mīmāṃsā, ha scritto John Taber (suoi sono i testi 12 e 14 della bibliografia), è crudelmente riduttiva nei confronti del Veda. Non prende in considerazione gli aspetti mitici, metaforici, spesso anche mistici del Veda, che riduce radicalmente a un'autorità solo deontica. Non voglio qui entrare nella controversia circa cosa sia il "vero" Veda, se quello dei mīmāṃsaka, quello delle scuole teiste, dei vedāntin o dei filologi contemporanei. Di certo, il Veda dal punto di vista mīmāṃsaka è l'unico strumento conoscitivo che ci permetta di conoscere il dharma e in tale ambito esso può essere solo accettato perché è al contempo l'unica fonte e anche la pietra di paragone rispetto a cui andrebbe valutata. In tutti gli altri ambiti, invece, non ha alcuna autorità. Questo è il prezzo che la Mīmāṃsā paga a voler mantenere intatta l'autorità assoluta del Veda in ambito deontico e la sua inarrivabilità in tale ambito. Paradossalmente, l'espansione dell'autorità del Veda ad altri ambiti, come avviene per il Nyāya ha finito invece per rendere tale autorità commisurabile, valutabile e quindi, in ultima analisi relativa.
Sostiene per esempio la Mīmāṃsā che non abbia senso considerare autorevoli le porzioni del Veda che affermano quanto può essere conosciuto anche tramite altri strumenti conoscitivi, né quelle il cui contenuto contrasta con i dati degli altri strumenti conoscitivi. Tali porzioni, in quanto espresse in forma descrittiva, vanno intese come sussidiarie alle prescrizioni. Esse fungono da eulogia di elementi da utilizzarsi nei sacrifici prescritti e non vanno invece interpretate autonomamente. In questo modo la Mīmāṃsā può mantenere un ruolo di strumento conoscitivo al Veda, seppur più limitatamente rispetto a come esso è intesto dal Nyāya.
In un esperimento mentale, possiamo ipotizzare che sia possibile provare che l'Āyurveda sia completamente errato. La validità dell'Ayurveda era l'esempio sulla base del quale era stato possibile nel NS stabilire l'invariabile concomitanza fra i ṛṣi autori di Veda e Ayurveda e l'enunciazione di conoscenza valida. Se l'Ayurveda non fosse più conoscenza valida, ne deriverebbe forse che anche il Veda non lo è? Si tratta di una conseguenza paradossale, ma che possiamo paragonare all'impatto che la scienza contemporanea ha effettivamente avuto su molti ambienti cristiani. Per citare un italiano, il matematico Piergiorgio Odifreddi, per esempio, si è chiesto in un recente libro (Perché non possiamo dirci cristiani (e meno che mai cattolici)) come possa essere creduta la Bibbia, dato che in tanti punti (la creazione, il sole che ruoterebbe intorno alla terra...) la scienza ne ha dimostrato la falsità.
Sostiene per esempio la Mīmāṃsā che non abbia senso considerare autorevoli le porzioni del Veda che affermano quanto può essere conosciuto anche tramite altri strumenti conoscitivi, né quelle il cui contenuto contrasta con i dati degli altri strumenti conoscitivi. Tali porzioni, in quanto espresse in forma descrittiva, vanno intese come sussidiarie alle prescrizioni. Esse fungono da eulogia di elementi da utilizzarsi nei sacrifici prescritti e non vanno invece interpretate autonomamente. In questo modo la Mīmāṃsā può mantenere un ruolo di strumento conoscitivo al Veda, seppur più limitatamente rispetto a come esso è intesto dal Nyāya.
In un esperimento mentale, possiamo ipotizzare che sia possibile provare che l'Āyurveda sia completamente errato. La validità dell'Ayurveda era l'esempio sulla base del quale era stato possibile nel NS stabilire l'invariabile concomitanza fra i ṛṣi autori di Veda e Ayurveda e l'enunciazione di conoscenza valida. Se l'Ayurveda non fosse più conoscenza valida, ne deriverebbe forse che anche il Veda non lo è? Si tratta di una conseguenza paradossale, ma che possiamo paragonare all'impatto che la scienza contemporanea ha effettivamente avuto su molti ambienti cristiani. Per citare un italiano, il matematico Piergiorgio Odifreddi, per esempio, si è chiesto in un recente libro (Perché non possiamo dirci cristiani (e meno che mai cattolici)) come possa essere creduta la Bibbia, dato che in tanti punti (la creazione, il sole che ruoterebbe intorno alla terra...) la scienza ne ha dimostrato la falsità.
martedì 13 marzo 2007
5.2 La Prabhakaramimamsa e la prescrittivita' della Parola Vedica
Prabhākara Miśra, il capostipite della Prābhākara Mīmāṃsā, adotta una linea diversa da quella di Kumārila. Si impegna meno in polemiche scoperte con le altre scuole e difende l'autorità del Veda accentuandone l'unicità. Il linguaggio, sostiene Prabhākara, è essenzialmente prescrittivo. Ogni frase apparentemente descrittiva viene compresa solo perché automaticamente collegata a una prescrizione e non in maniera autonoma. Prova ne è il processo di apprendimento del linguaggio, durante il quale un fanciullo impara osservando il comportamento degli adulti in corrispondenza di prescrizioni. Per esempio, il padre dice al fratello maggiore "porta qui la mucca". Dopo aver osservato per giorni come tale ordine venga seguito dall'azione di portare la mucca da parte del fratello maggiore, un fratellino impara a connettere frase e significato, cosa che non avverrebbe se avesse semplicemente udito il padre parlare al fratello maggiore di una mucca, senza poter osservare alcuna azione conseguente. Il linguaggio mira perciò a uno scopo da realizzarsi e non a un significato già stabilito. Tale scopo che deve essere realizzato è il dharma ed esso costituisce il senso delle ingiunzioni vediche. Nel Veda, come nel linguaggio ordinario, tutto ciò che non sia ingiunzione, può essere interpretato e compreso solo se messo in rapporto a un'ingiunzione. Le persone non hanno alcun accesso al dharma se non per il tramite del Veda.
Considerare che ciò che può essere conosciuto tramite il Veda sia un dover essere invece di un contenuto conoscitivo già stabilito comporta anche l'impossibilità di un approccio fondamentalistico (nel senso che questo termine ha acquisito nella politica contemporanea) al Veda. Questo non è infatti considerato un corpus di dottrine, eventualmente da difendere o per cui combattere, bensì un'ingiunzione continuamente rivolta all'uomo e che continuamente dev'essere realizzata. Il rapporto con il Veda è un rapporto a due, che coinvolge direttamente l'essere umano cui l'ingiunzione è rivolta e il Veda stesso. Infatti, elemento costitutivo dell'analisi prābhākara del rapporto di autorità fra il Veda e i suoi soggetti è l'essere chiamati direttamente in causa dall'ingiunzione.
Considerare che ciò che può essere conosciuto tramite il Veda sia un dover essere invece di un contenuto conoscitivo già stabilito comporta anche l'impossibilità di un approccio fondamentalistico (nel senso che questo termine ha acquisito nella politica contemporanea) al Veda. Questo non è infatti considerato un corpus di dottrine, eventualmente da difendere o per cui combattere, bensì un'ingiunzione continuamente rivolta all'uomo e che continuamente dev'essere realizzata. Il rapporto con il Veda è un rapporto a due, che coinvolge direttamente l'essere umano cui l'ingiunzione è rivolta e il Veda stesso. Infatti, elemento costitutivo dell'analisi prābhākara del rapporto di autorità fra il Veda e i suoi soggetti è l'essere chiamati direttamente in causa dall'ingiunzione.
5.1 La Bhattamimamsa critica ogni alternativa alla Parola Vedica
Fin qui abbiamo visto i tratti comuni alle due scuole della Mīmāṃsā. La Bhāṭṭamīmāṃsā, ossia la scuola che ha come capostipite Kumārila Bhaṭṭa, si cimenta poi in dibattiti accesi con le altre scuole e con le loro posizioni in merito alla Parola come strumento conoscitivo. Con stile spesso caustico e sarcastico, Kumārila accomuna i Naiyāyika ai Buddhisti dato che entrambi confidano in una ipotetica e indimostrabile onniscienza (di Dio, dei ṛṣi, del Buddha) come fonte possibile di conoscenza del trascendente. Ogni ipotesi del genere, sostiene invece Kumārila, postula enti indimostrabili (giacché per valutare l'onniscienza di una persona occorrerebbe una seconda persona onnisciente e così via) opponendosi a una posizione di comune buon senso, che porta (secondo Kumārila) ad accettere il Veda per quello che è, ossia l'unica autorità di cui disponiamo nell'ambito del trascendente. I tentativi buddhisti di sostituire propri testi (i discorsi del Buddha) al Veda sono ridicoli perché si fondano sull'indimostrabile onniscienza del Buddha, mentre i tentativi naiyāyika di fondare l'autorità del Veda sulla base dell'autorità di chi lo ha enunciato confondono il caso del Veda con quello della comunicazione ordinaria. In quest'ultima, l'affidabilità dell'autore è essenziale (e in proposito Kumārila si mostra molto più rigido dei naiyāyika), mentre nel caso del Veda ogni appello a un autore diminuirebbe di fatto l'autorità del Veda, cozzando così con il dato di fatto del suo rango privilegiato fra tutti gli Indiani.
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5. La Parola indipendente da un autore nella Mimamsa
L'approccio della Mīmāṃsā a questo come a ogni altro tema è decisamente astorico, nel senso che nel fuoco dell'interesse mīmāṃsaka è il Veda e la Parola come strumento conoscitivo in genere così come appare nella nostra esperienza, senza alcun interesse di tipo eziologico. Ogni polemica su questa mancanza di interesse è lecita, ma una volta messo in chiaro questo punto sono poco sensate domande di tipo storico rivolte a singoli punti della dottrina mīmāṃsaka. La Mīmāṃsā non avrà risposte soddisfacenti da offrire ad alcuna di queste domande, semplicemente perché le paiono secondarie e futili.
Dopo questa breve premessa, veniamo ai capisaldi della dottrina mīmāṃsaka. Abbiamo visto come nel Nyāya il dominio del trascendente (alaukika) possa essere raggiunto sia dalla Parola come strumento conoscitivo sia dall'intuizione intellettuale. Questo è lecito all'interno di quella scuola poiché questa postula che vari strumenti conoscitivi possano sommarsi nel conoscere uno stesso oggetto. Al contrario, la Mīmāṃsā sostiene che gli strumenti conoscitivi siano applicati in modo mutualmente esclusivo. Ossia, un oggetto percepibile può essere colto solo da percezione diretta, un oggetto non percepibile perché assente, ma non trascendente, può essere colto solo per via inferenziale, mentre un oggetto invisibile perché trascendente può essere colto solo tramite la Parola come strumento conoscitivo. Nella definizione di strumento conoscitivo, infatti, è incluso il fatto che deve comunicare conoscenza nuova. Se invece, come sostiene il Nyāya, vari strumenti conoscitivi potessero conoscere lo stesso oggetto, tutti tranne il primo finirebbero per ripetere una stessa informazione.
La Parola come strumento conoscitivo è sempre accettata in quanto śāstra, ossia Parola indipendente dal suo autore, il che equivale al Veda. Nessun'altra scrittura è considerata sullo stesso piano e l'apologia del Veda nella Mīmāṃsā è principalmente basata sulla sua segregazione da ogni altro tipo di strumento conoscitivo. A partire dal Mīmāṃsāsūtra e dal suo commento, il Bhāṣya composto da Śabara Svāmin, appare chiaramente che la Parola Vedica (vedremo più avanti come la situazione sia affatto diversa per la Parola come strumento conoscitivo nella comunicazione ordinaria) non compete sullo stesso campo degli altri strumenti conoscitivi. Essa è, al contrario di inferenza e altri processi deduttivi, una fonte autonoma di conoscenza, in quanto tale paragonabile alla percezione diretta. La Mīmāṃsā rifiuta ogni tipo di intuizione intellettuale, considerandola un'assunzione illegittima e non giustificata sulla base della nostra esperienza degli uomini, per cui il Veda regna incontrastato come fonte del trascendente, il dharma. Poiché entrambe le scuole della Mīmāṃsā concordano nell'interpretare il Veda come strumento conoscitivo solo nella sua componente prescrittiva, mentre i passaggi narrativi acquistano significato solo in quanto ancilllari rispetto alle prescrizioni, la Mīmāṃsā si configura come un'ortoprassi, mentre l'assenza di un'ortodossia fa sì che essa possa avere fra i suoi aderenti teisti e atei.
Ogni domanda riguardante l'origine del Veda, in un'ottica mīmāṃsaka non ha significato. Il Veda esiste senza inizio, come il mondo, il linguaggio, l'uomo, il tempo. Immaginare un mondo precedente il Veda è impossibile perché nella definizione di "mondo" è già incluso il Veda in quanto fonte unica di informazioni riguardanti il dharma.
Dopo questa breve premessa, veniamo ai capisaldi della dottrina mīmāṃsaka. Abbiamo visto come nel Nyāya il dominio del trascendente (alaukika) possa essere raggiunto sia dalla Parola come strumento conoscitivo sia dall'intuizione intellettuale. Questo è lecito all'interno di quella scuola poiché questa postula che vari strumenti conoscitivi possano sommarsi nel conoscere uno stesso oggetto. Al contrario, la Mīmāṃsā sostiene che gli strumenti conoscitivi siano applicati in modo mutualmente esclusivo. Ossia, un oggetto percepibile può essere colto solo da percezione diretta, un oggetto non percepibile perché assente, ma non trascendente, può essere colto solo per via inferenziale, mentre un oggetto invisibile perché trascendente può essere colto solo tramite la Parola come strumento conoscitivo. Nella definizione di strumento conoscitivo, infatti, è incluso il fatto che deve comunicare conoscenza nuova. Se invece, come sostiene il Nyāya, vari strumenti conoscitivi potessero conoscere lo stesso oggetto, tutti tranne il primo finirebbero per ripetere una stessa informazione.
La Parola come strumento conoscitivo è sempre accettata in quanto śāstra, ossia Parola indipendente dal suo autore, il che equivale al Veda. Nessun'altra scrittura è considerata sullo stesso piano e l'apologia del Veda nella Mīmāṃsā è principalmente basata sulla sua segregazione da ogni altro tipo di strumento conoscitivo. A partire dal Mīmāṃsāsūtra e dal suo commento, il Bhāṣya composto da Śabara Svāmin, appare chiaramente che la Parola Vedica (vedremo più avanti come la situazione sia affatto diversa per la Parola come strumento conoscitivo nella comunicazione ordinaria) non compete sullo stesso campo degli altri strumenti conoscitivi. Essa è, al contrario di inferenza e altri processi deduttivi, una fonte autonoma di conoscenza, in quanto tale paragonabile alla percezione diretta. La Mīmāṃsā rifiuta ogni tipo di intuizione intellettuale, considerandola un'assunzione illegittima e non giustificata sulla base della nostra esperienza degli uomini, per cui il Veda regna incontrastato come fonte del trascendente, il dharma. Poiché entrambe le scuole della Mīmāṃsā concordano nell'interpretare il Veda come strumento conoscitivo solo nella sua componente prescrittiva, mentre i passaggi narrativi acquistano significato solo in quanto ancilllari rispetto alle prescrizioni, la Mīmāṃsā si configura come un'ortoprassi, mentre l'assenza di un'ortodossia fa sì che essa possa avere fra i suoi aderenti teisti e atei.
Ogni domanda riguardante l'origine del Veda, in un'ottica mīmāṃsaka non ha significato. Il Veda esiste senza inizio, come il mondo, il linguaggio, l'uomo, il tempo. Immaginare un mondo precedente il Veda è impossibile perché nella definizione di "mondo" è già incluso il Veda in quanto fonte unica di informazioni riguardanti il dharma.
mercoledì 7 marzo 2007
4.2 Il Sankhya si riconcilia con il Veda
I commenti alle SK tentano di allargare SK 4 per includervi il Veda e di riconciliare questa inclusione con il rifiuto dei sacrifici vedici espresso in SK 2. Storicamente, tale tentativo può essere visto come un modo per riconciliare il Sāṅkhya con il riconoscimento panindiano dei Veda. Poiché però l'attuale non è tanto un'indagine storica, quanto un excursus tematico, gli argomenti che i commentatori impiegano per tale riconciliazione sono comunque assai indicativi.
Quello che è forse il principale commento alle SK, la Yuktidīpikā (YD, 675 d.C.?), include il Veda in SK 4 con un espediente grammaticale (ekaśeṣa), tramite cui intende āptavacana come equivalente a "affermazione di un esperto E Parola indipendente dal suo autore". In questo modo, il Veda acquisisce un rango a sé, pari a quello che gli assicura la Mīmāṃsā, e non rischia di essere confuso con altre affermazioni di parlanti esperti (il Nyāya era riuscito invece a distinguere il Veda con il ricorso a Dio). Il Bhāṣya ("Commento") di Gauḍapāda intende invece "āptaśrutir" di SK 5 come āpta[vacana] E śruti (il Veda), per cui SK 5 andrebbe a significare "con il termine āptavacana intendiamo l'affermazione di un parlante esperto e affidabile e la tradizione vedica".
Per quanto riguarda il contenuto del Veda, le SK affermano (v.2) che i rituali vedici non possono essere un adeguato strumento soteriologico giacché prevedono l'uccisione di esseri viventi. Di nuovo da un punto di vista storico, potremmo dire che da quando i Veda sono stati composti al momento in cui la filosofia indiana si è sviluppata, il sentimento comune nei confronti dei sacrifici cruenti dev'essere mutato. Infatti, lo scandalo dell'uccisione di esseri viventi è uno dei punti su cui si concentrano anche le critiche antivediche dei Buddhisti. Gli stessi apologeti del Veda, i mīmāṃsaka, non difendono semplicemente la legittimità dei sacrifici cruenti. La soluzione offerta dalla YD (p. 38 dell'edizione di Wezler e Motegi) deriva probabilmente da quella mīmāṃsaka, di cui sembra essere un sunto. Non ostante il Veda parli dell'esecuzione di sacrifici cruenti, ciò non significa che questi debbano essere eseguiti. Infatti, "il dharma" prevede che non si commetta violenza su altri esseri viventi, e tale dharma "non coincide con il desiderio". Spiego meglio alla luce della dottrina mīmāṃsaka questo passaggio piuttosto oscuro nella YD. Il Veda prescrive sacrifici cruenti nel caso in cui si desideri, per esempio, la prosperità. D'altra parte, il Veda ingiunge anche di non commettere violenza. Nel caso qualcuno esegua quindi un sacrificio cruento, lo farà perché guidato dal desiderio di conquistare la prosperità. Sarà il suo desiderio a essere impuro, non il Veda. Similmente, la YD adotta vari altri metodi prettamente mīmāṃsaka per spiegare come il Veda non si contraddica etc.
Poiché però la via soteriologica esposta dal Sāṅkhya resta molto diversa da quella dell'ortoprassi vedica, lo spazio garantito al Veda nel sistema sembra più che altro una nicchia scavata ad hoc dai commenti. Diverso è il caso dell'affermazione di un esperto. Questa è invece indispensabile, quanto meno negli ambiti che non possono essere conosciuti tramite percezione e inferenza (SK 6). Gauḍapāda, nel suo Bhāṣya a SK 6 spiega che tali ambiti sono "per esempio, Indra il re degli Dei, [regioni mitiche come] i Kuru Settentrionali, le ninfe celesti, etc.". Si noterà che sono quasi gli stessi esempi standard menzionati già da Vātsyāyana nel suo commento al NS.
Quindi, la Parola come strumento conoscitivo è limitata nel Sāṅkhya ad ambiti non raggiungibili da percezione a inferenza, ma che non hanno alcuna rilevanza, né per la liberazione, né nell'ambito della conoscenza, dato che non hanno contenuto empirico. Poiché però nelle SK la Parola come strumento conoscitivo è fatta coincidere con l'affermazione di un esperto, ci si potrebbe chiedere chi sia allora il parlante esperto in grado di parlare di argomenti inattingibili tramite percezione sensibile e inferenza. Nel Sāṅkhya successivo alle SK potremmo rispondere che si parla del Veda, ma nelle SK il Veda non sembra coprire tale ruolo. In alternativa, si propone la figura del fondatore mitico del Sāṅkhya, Kapila, cui spesso nella storia del Sāṅkhya viene attribuito il titolo di ṛṣi. D'altronde, se questa interpretazione fosse corretta, difficilmente l'autorità di Kapila potrebbe limitarsi a questioni secondarie come Indra re degli Dei o i Kuru Settentrionali. Di fatto, Kapila viene onorato come "realizzato" e "sapiente originario" nei commenti successivi alle SK (si noti che si tratta di attributi forse paragonabili alla doppia qualificazione dell'āpta). In alcune opere naiyāyika (vedi Jacobi) si dice dei sāṅkhya che venerano Dio (ossia Kapila). I testi naiyāyika equiparano Kapila a Dio probabilmente perché egli riveste nel Sāṅkhya la funzione che nel Nyāya rivestiva la figura di Dio, nel senso che Kapila assume il ruolo di garante del sistema sāṅkhya. Il Sāṅkhya è valido, nei testi successivi alle SK, perché è stato esposto da Kapila. In tal modo, però, viene messo in ombra quello che sembrava il connotato distintivo del Sāṅkhya antico, ossia l'uso dell'inferenza applicata al trascendente. Garante dell'aspetto alaukika (trascendente) pare infatti Kapila stesso. Perché? Esistono due possibili interpretazioni. Prima interpretazione: il Sāṅkhya esordisce come sistema dimostrabile in modo indipendente dalla Parola vedica o da quella di chiunque altro, non può però negare che esista un ambito inaccessibile al ragionamento umano e, attraverso tale via, finisce con l'accogliere nel sistema l'autorità del Veda e di Kapila e, infine, a trarre da questi la legittimazione dell'intero sistema. In alternativa, si potrebbe immaginare che tale esito non fosse affatto imprevisto, e che ogni tentativo di limitare l'applicazione della Parola come strumento conoscitivo mirasse solo a limitare l'autorità esclusiva del Veda. Ci troveremo a valutare un simile dilemma anche nel caso di un'altra corrent nata con un forte connotato contestatore e antivedico, il Buddhismo.
Quello che è forse il principale commento alle SK, la Yuktidīpikā (YD, 675 d.C.?), include il Veda in SK 4 con un espediente grammaticale (ekaśeṣa), tramite cui intende āptavacana come equivalente a "affermazione di un esperto E Parola indipendente dal suo autore". In questo modo, il Veda acquisisce un rango a sé, pari a quello che gli assicura la Mīmāṃsā, e non rischia di essere confuso con altre affermazioni di parlanti esperti (il Nyāya era riuscito invece a distinguere il Veda con il ricorso a Dio). Il Bhāṣya ("Commento") di Gauḍapāda intende invece "āptaśrutir" di SK 5 come āpta[vacana] E śruti (il Veda), per cui SK 5 andrebbe a significare "con il termine āptavacana intendiamo l'affermazione di un parlante esperto e affidabile e la tradizione vedica".
Per quanto riguarda il contenuto del Veda, le SK affermano (v.2) che i rituali vedici non possono essere un adeguato strumento soteriologico giacché prevedono l'uccisione di esseri viventi. Di nuovo da un punto di vista storico, potremmo dire che da quando i Veda sono stati composti al momento in cui la filosofia indiana si è sviluppata, il sentimento comune nei confronti dei sacrifici cruenti dev'essere mutato. Infatti, lo scandalo dell'uccisione di esseri viventi è uno dei punti su cui si concentrano anche le critiche antivediche dei Buddhisti. Gli stessi apologeti del Veda, i mīmāṃsaka, non difendono semplicemente la legittimità dei sacrifici cruenti. La soluzione offerta dalla YD (p. 38 dell'edizione di Wezler e Motegi) deriva probabilmente da quella mīmāṃsaka, di cui sembra essere un sunto. Non ostante il Veda parli dell'esecuzione di sacrifici cruenti, ciò non significa che questi debbano essere eseguiti. Infatti, "il dharma" prevede che non si commetta violenza su altri esseri viventi, e tale dharma "non coincide con il desiderio". Spiego meglio alla luce della dottrina mīmāṃsaka questo passaggio piuttosto oscuro nella YD. Il Veda prescrive sacrifici cruenti nel caso in cui si desideri, per esempio, la prosperità. D'altra parte, il Veda ingiunge anche di non commettere violenza. Nel caso qualcuno esegua quindi un sacrificio cruento, lo farà perché guidato dal desiderio di conquistare la prosperità. Sarà il suo desiderio a essere impuro, non il Veda. Similmente, la YD adotta vari altri metodi prettamente mīmāṃsaka per spiegare come il Veda non si contraddica etc.
Poiché però la via soteriologica esposta dal Sāṅkhya resta molto diversa da quella dell'ortoprassi vedica, lo spazio garantito al Veda nel sistema sembra più che altro una nicchia scavata ad hoc dai commenti. Diverso è il caso dell'affermazione di un esperto. Questa è invece indispensabile, quanto meno negli ambiti che non possono essere conosciuti tramite percezione e inferenza (SK 6). Gauḍapāda, nel suo Bhāṣya a SK 6 spiega che tali ambiti sono "per esempio, Indra il re degli Dei, [regioni mitiche come] i Kuru Settentrionali, le ninfe celesti, etc.". Si noterà che sono quasi gli stessi esempi standard menzionati già da Vātsyāyana nel suo commento al NS.
Quindi, la Parola come strumento conoscitivo è limitata nel Sāṅkhya ad ambiti non raggiungibili da percezione a inferenza, ma che non hanno alcuna rilevanza, né per la liberazione, né nell'ambito della conoscenza, dato che non hanno contenuto empirico. Poiché però nelle SK la Parola come strumento conoscitivo è fatta coincidere con l'affermazione di un esperto, ci si potrebbe chiedere chi sia allora il parlante esperto in grado di parlare di argomenti inattingibili tramite percezione sensibile e inferenza. Nel Sāṅkhya successivo alle SK potremmo rispondere che si parla del Veda, ma nelle SK il Veda non sembra coprire tale ruolo. In alternativa, si propone la figura del fondatore mitico del Sāṅkhya, Kapila, cui spesso nella storia del Sāṅkhya viene attribuito il titolo di ṛṣi. D'altronde, se questa interpretazione fosse corretta, difficilmente l'autorità di Kapila potrebbe limitarsi a questioni secondarie come Indra re degli Dei o i Kuru Settentrionali. Di fatto, Kapila viene onorato come "realizzato" e "sapiente originario" nei commenti successivi alle SK (si noti che si tratta di attributi forse paragonabili alla doppia qualificazione dell'āpta). In alcune opere naiyāyika (vedi Jacobi) si dice dei sāṅkhya che venerano Dio (ossia Kapila). I testi naiyāyika equiparano Kapila a Dio probabilmente perché egli riveste nel Sāṅkhya la funzione che nel Nyāya rivestiva la figura di Dio, nel senso che Kapila assume il ruolo di garante del sistema sāṅkhya. Il Sāṅkhya è valido, nei testi successivi alle SK, perché è stato esposto da Kapila. In tal modo, però, viene messo in ombra quello che sembrava il connotato distintivo del Sāṅkhya antico, ossia l'uso dell'inferenza applicata al trascendente. Garante dell'aspetto alaukika (trascendente) pare infatti Kapila stesso. Perché? Esistono due possibili interpretazioni. Prima interpretazione: il Sāṅkhya esordisce come sistema dimostrabile in modo indipendente dalla Parola vedica o da quella di chiunque altro, non può però negare che esista un ambito inaccessibile al ragionamento umano e, attraverso tale via, finisce con l'accogliere nel sistema l'autorità del Veda e di Kapila e, infine, a trarre da questi la legittimazione dell'intero sistema. In alternativa, si potrebbe immaginare che tale esito non fosse affatto imprevisto, e che ogni tentativo di limitare l'applicazione della Parola come strumento conoscitivo mirasse solo a limitare l'autorità esclusiva del Veda. Ci troveremo a valutare un simile dilemma anche nel caso di un'altra corrent nata con un forte connotato contestatore e antivedico, il Buddhismo.
martedì 6 marzo 2007
4.1 La Parola nelle SK
In linea generale, si può dire che il Sāṅkhya accetti la Parola come strumento conoscitivo purché pronunciata da un parlante esperto e affidabile. Più in dettaglio, le SK (v.4) riconoscono tre mezzi di conoscenza, percezione, inferenza e Parola di un esperto (āptavacana). Lo Yogasūtra elenca gli stessi tre strumenti conoscitivi, ma chiama la Parola come strumento conoscitivo āgama invece che āptavacana. Tale espressione fa pensare che vi sia incluso anche il Veda, d'altronde lo Yogasūtra non torna mai in argomento e si occupa dopo questa breve premessa solo della pratica yoghica. Continuerò perciò a considerare solo il Sāṅkhya. Per quanto riguarda gli ambiti di applicazione della Parola come strumento conoscitivo, SK 6 spiega che l'inferenza può conoscere anche ciò che non è percepibile, e questo sulla base di un procedimento che generalizza a partire da quanto è percepibile (un esempio è la generalizzazione della relazione di causa/effetto). In questo, il Sāṅkhya si distingue da tutte le altre scuole brahmaniche (?) che sostengono invece che l'inferenza abbia come ambito di applicazione solo quello di oggetti conoscibili tramite percezione o Parola come strumento conoscitivo e che il trascendente possa essere conosciuto solo tramite Parola come strumento conoscitivo e/o intuizione intellettuale. Quanto può essere conosciuto tramite tale inferenza, ma non accertato, deve esserlo tramite la Parola come strumento conoscitivo. Di fatto, nelle SK l'inferenza è usata sistematicamente per fondare gli assunti principali della metafisica e dell'ontologia della scuola. Cosa resta quindi alla Parola come strumento conoscitivo? La Sāṁkhyāvṛtti, un commento antico (forse VI secolo) alle SK elenca casi come "il fatto che Indra sia re degli Dei, le ninfe celesti, i Kuru Settentrionali". Gli stessi esempi sono citati anche dal commento di Gauḍapāda (600?) e si può notare che si tratta degli stessi esempi standard menzionati già da Vātsyāyana nel suo commento al NS, con la notevole eccezione del Paradiso. In questo modo la Parola come strumento conoscitivo, sebbene si veda riconosciuto il ruolo di accertare ciò che non può essere conosciuto o accertato (uso i due verbi perché come abbiamo visto c'è uno slittamento di posizione fra le SK e i commenti analizzati, nel senso che le SK parlano di Parola come strumento conoscitivo destinato ad accertare quanto non può esserlo tramite percezione e inferenza, mentre gli esempi citati nei commenti sembrano riferirsi a casi in cui la Parola è impiegata per conoscere quanto sarebbe altrimenti irragiungibile) tramite percezione e inferenza, ciò non ostante non ha un ambito proprio (né l'ambito valoriale, né quello prescrittivo, né quello genericamente trascendente). Inoltre, non ha alcuna effettiva rilevanza, dato che è l'inferenza a stabilire metafisica, ontologia e soteriologia.
Su un altro piano, la maggior parte dei commenti concorda nel dire che nella Parola come strumento conoscitivo come menzionata nelle SK sono inclusi i Veda. Tuttavia, le SK avevano rifiutato fin dal verso 2 "i metodi [per raggiungere la salvezza] tramandati (nel Veda)" e sappiamo già che il Veda ha eminentemente un'autorità relativa all'ortoprassi, per cui il rifiuto del Veda come via di salvezza sembrerebbe equivalere a un rifiuto del Veda tout court. I rituali vedici sono rifiutati in quanto connessi con uccisioni e impurità, il che ci conferma nel vedere nel Sāṅkhya un potenziale di critica antivedica simile a quello del primo Buddhismo. La discussione sul rapporto fra violenza e non violenza, come vedremo nel capitolo dedicato alla Mīmāṃsā e in quello circa il Buddhismo, è infatti un nervo scoperto nell'apologia del Veda.
SK 5 ribadisce che "con āptavacana si intende ciò che si è udito da un esperto". Abbiamo visto nel Nyāya come āpta includa i ṛṣi e possa allargarsi fino a includere Dio e come per questa via anche il Veda possa essere inteso come un caso di āptavacana. Anzi, nel caso del Nyāya, è chiaro che il Veda vi è sempre stato incluso. Diverso è il caso del Sāṅkhya, sia perché il suo essere ateo gli impedisce di far ricorso a Dio come enunciatore del Veda, sia perché –per quanto a mia conoscenza– non vi giocano un ruolo rilevante nemmeno i ṛṣi.
Su un altro piano, la maggior parte dei commenti concorda nel dire che nella Parola come strumento conoscitivo come menzionata nelle SK sono inclusi i Veda. Tuttavia, le SK avevano rifiutato fin dal verso 2 "i metodi [per raggiungere la salvezza] tramandati (nel Veda)" e sappiamo già che il Veda ha eminentemente un'autorità relativa all'ortoprassi, per cui il rifiuto del Veda come via di salvezza sembrerebbe equivalere a un rifiuto del Veda tout court. I rituali vedici sono rifiutati in quanto connessi con uccisioni e impurità, il che ci conferma nel vedere nel Sāṅkhya un potenziale di critica antivedica simile a quello del primo Buddhismo. La discussione sul rapporto fra violenza e non violenza, come vedremo nel capitolo dedicato alla Mīmāṃsā e in quello circa il Buddhismo, è infatti un nervo scoperto nell'apologia del Veda.
SK 5 ribadisce che "con āptavacana si intende ciò che si è udito da un esperto". Abbiamo visto nel Nyāya come āpta includa i ṛṣi e possa allargarsi fino a includere Dio e come per questa via anche il Veda possa essere inteso come un caso di āptavacana. Anzi, nel caso del Nyāya, è chiaro che il Veda vi è sempre stato incluso. Diverso è il caso del Sāṅkhya, sia perché il suo essere ateo gli impedisce di far ricorso a Dio come enunciatore del Veda, sia perché –per quanto a mia conoscenza– non vi giocano un ruolo rilevante nemmeno i ṛṣi.
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